a forza di guardare e di non vivere
cos’è mai divenuta la
poesia?
Fernando Bandini[1]
Il paesaggio gode di rilievo in tutta la letteratura veneta moderna. In
particolare appare degna di nota la sua rappresentazione nella lirica in lingua
alla metà del secolo scorso: il disinteresse per altre questioni, ad esempio
politiche o teoretiche, fa in modo che i poeti propendano per un tema “di
ripiego” come quello del confronto con la natura. Il soggetto proietta nel
contesto ambientale la sua condizione di isolamento, chiusura, estraneità alla
storia. Si possono considerare esemplari in tal senso i testi di Diego Valeri. Nessuno
degli oggetti da lui rappresentati può collocarsi in una determinata epoca:
città (Padova, Venezia) e campagna rimangono dall’inizio alla fine identiche a
se stesse o mutano solo in rapporto alla percezione soggettiva. Alludendo da un
lato alle pratiche simboliste, dall’altro ai tradizionali topoi sulla natura, Valeri tende a fissare i singoli elementi nel
loro valore emblematico: in certi casi le presenze ambientali si riducono a un
pretesto per riflettere sull’esistenza.
Occhi, prendete! I meli tutti fiori
e
foglie, i pioppi vestiti d’un velo
d’acqua
tremula, e questo acceso cielo
dietro
la tenda opaca dei vapori,
sono
la grazia di un’ora che fugge
come
fuggono i venti dell’aprile;
sono
una essenza fragile e gentile
che
ride e splende, e subito si strugge. [2]
In perfetta linea con Valeri si colloca Antonio Chiarelotto, originario
di Montebelluna. La sua scrittura gioca su due piani che, nell’entrare in
contatto, danno origine a intense suggestioni figurative: da un lato si opta
per una resa realistica degli ambienti, con grande ricchezza di dettagli;
dall’altro gli oggetti vengono allontanati in una prospettiva fantastica o
memoriale.
La domenica bianca, delle Palme,
tutta
corse e sorprese
sulla
strada degli echi,
coi
rossi lumi delle case sperse
tralucenti
da siepi
sul
sonno velato dei campi,
e
io stringevo fra le dita rosse
gemme
di spino e fuscelli
con
campanule di brina.
Io mi guardavo, fatto d’aria:
il
berretto marino sui ricci biondi,
lo
schiocco delle gonne
e
di scarpette nuove,
tutto
era volo. [3]
Se quello di Chiarelotto è un paesaggio suscettibile di ampi slittamenti
sul piano crono-spaziale, Bino Rebellato ci riporta, volta per volta, alla
dimensione del presente: le mirifiche parvenze dell’alta padovana vengono colte
nell’attimo in cui lo sguardo le genera, e solo in quello hanno senso d’essere.
Le limpide acque del Tèrgola o le rosse mura di Cittadella s’imprimono appena
sulla pellicola, dando origine a un fotogramma, statico e sbiadito, che è il
singolo testo come noi lo leggiamo.
Quando l’aria pulisce gli orizzonti
scendiamo
ad uno ad uno al nostro fiume
fra
i banchi della ghiaia
a
specchiare la fronte;
contadini
coi cappelli di paglia,
raccogliamo
cannucce sulle sponde
a
intessere pensieri intorno agli orti
fra
macchie d’ombra. […] [4]
Nella poesia del padovano Giulio Alessi, invece, la tendenza a
rifugiarsi in atmosfere sublimate viene respinta quasi subito, nel momento in
cui si accoglie sulla pagina il mondo così com’è, senza bisogno di offuscamenti
o nobilitazioni. Un paesaggio veritiero, che si anima grazie ai personaggi che
lo popolano; vengono rappresentati, da una parte, le condizioni miserabili dei
sobborghi; dall’altra, gli elementi che segnano la modernizzazione del territorio.
Uno sguardo coraggioso, si può dire. Ciononostante manca un tono di denuncia
sociale o ecologista; il valore che ispira l’apertura verso l’altro è piuttosto
la carità cristiana.
Chiare al sole, con l’erba sui tetti,
case
vacillanti
che
hanno sofferto le buie querele del tempo
ed
ogni donna alla finestra
ha
un povero amore
che
va mendico.
Ma
la festosa rondine improvvisa
stride
allo svolto
a
chi si domanda
sul
ponte
coi
gomiti appoggiati al parapetto
rosa
dal sole del mattino. […] [5]
Ma viene l’ora in cui le trasformazioni si fanno violente anche nella
provincia veneta. Riguardo alla poesia, si segnala la “fine della complicità
con la natura, su cui si proiettava l’io lirico” [6], con
conseguente “espulsione del soggetto psichico ad opera degli elementi naturali”
[7]. I
paraventi non tengono: la tela del paesaggio si strappa, sotto l’impeto del
cambiamento, o addirittura viene staccata dalla cornice. Leggendo le poesie del
maranese Bortolo Pento è possibile individuare alcune crepe che minano la fictio. Dapprima, nel sospeso contesto agreste
si intrufolano elementi che esulano dal classico alfabeto figurativo (i
“camion” dei soldati, un “romapadova”, “il nero / di una deserta ciminiera” che
sciupa la “gentilezza rosea / dell’alte nuvolette”); poi gli stravolgimenti si
fanno tanti e tali da rendere vana qualsiasi fuga tra le colline.
Le gigantesche torri cittadine,
il
ciclopico rullo dei cantieri
ascolti
come il canto dei tuoi giorni.
Il
mostruoso fiore dell’uranio
e
la leggiadra orbita degli sputnik
già
vedi balenare sugli schermi. […]
Indicibili
talpe abbacinate,
levigati
metrò e locomotive
intersecano
il polso della terra. […]
E
risplende dall’artica banchisa,
estremo
segno, l’ultima baleniera. [8]
Una via diversa per sopravvivere al transito da un tempo simbolicamente
ricco a uno di totale spogliazione è quella delineata da Gino Nogara. Il suo
paesaggio contempla – con riferimento alla geomorfologia del vicentino – un
susseguirsi di prati e campi di mais “fino all’estremo segno / delle pianure e
là alle valli, al margine / degli altipiani”. E’ un habitat intimamente
connesso alla civiltà contadina, che va ormai smarrendosi. Tuttavia, nel
momento in cui il presente svela il suo volto inautentico, non basta la memoria
a riscattare il vuoto. La soluzione più ovvia perciò è uscire dal paesaggio[9] per dedicarsi alla
meditazione astratta: in questo verso procede il poeta, consapevole che la
bellezza naturale non costituisce ormai un valido caposaldo orientativo.
Al limite del gioco
negli
occhi il duro lume che ci spoglia. […]
A
smascherare sino in fondo questa
vile
coscienza, fuori dal paesaggio
un
grido porteremo, mai più il canto. [10]
La ricerca sperimentale di Cesare Ruffato e Andrea Zanzotto muove invece
dall’interno della logosfera: il
paesaggio stesso, più che di riferimenti esterni, vive come infiorescenza
verbale. Se analoga in Ruffato e Zanzotto è la vocazione allo sperimentalismo, nel
primo mai si perde la tangibilità corporea del referente. Ecco un ritratto
della sua Padova.
Mascheroni, semafori, portici
camini,
sinusoidi
omnia
tristia,
la
città erpica gli argini
della
luna. Lampeggia il Salone
di
barite, l’occhio ciclopico
del
Prato e gli anni d’Antenore
nelle
vie tra i rifiuti. L’affanno
l’ozio,
i convegni, ogni tessuto
del
giorno ora si tende, minima
scoria.
Alla
sete della terra, alla fatica
i
colli curvati
àncorano
lumi alla pianura. [11]
Nel solighese forzatura dei
legami significato-significante è invece praticata su larga scala: linguaggio e
paesaggio non hanno più un senso univoco, ma si disperdono in costellazioni tra
le quali l’io, a sua volta disintegrato, si barcamena.
Da questa artificiosa terra-carne
esili
acuminati sensi
e sussulti e silenzi,
da questa bava di vicende
–
soli che urtarono file di ciglia
ariste
appena sfrangiate pei colli –
da
questo lungo attimo
inghiottito
di nevi, inghiottito dal vento
da
tutto questo che non fu
primavera
non luglio non autunno
ma
solo egro spiraglio
ma
solo psiche
da
tutto questo che non è nulla
ed
è tutto ciò ch’io sono:
tale
la verità geme a se stessa,
si
vuole pomo che gonfia e infradicia. […] [12]
A differenza di tutti gli altri, il veneziano Carlo Della Corte e il
vicentino Fernando Bandini, più giovani, non vivono il processo che porta alla
dissoluzione delle arcadie. La loro avventura appartiene ad un nuovo capitolo
della storia letteraria, di certo consequenziale al precedente, ma nel contempo
autonomo. L’idillio non esiste più: è passato il tempo dei purismi e la realtà
avvampa sotto l’esile corteccia della scrittura.
Lungo il limpido margine
su
cui moriva il lampo della rondine
il
tempo ha seminato l’ombra e il sale.
Il
poeta si scusa del suo male.
Molesto
il pensiero l’assale
d’un’altra
età dove il grano era biondo
e
resina era il mondo
stillante
dalla scorza delle pagine. [13]
La poesia, definendosi luogo
della crisi, permette a chi scrive e a chi legge di tenere aperti gli occhi sul
mondo; si presenta come termometro socio-politico, oltre che esistenziale; si
interroga sul ruolo della lingua e sul suo possibile futuro. Il paesaggio è dunque
pronto ad accogliere la storia: il flusso dell’attualità erompe tra le pagine,
portando con sé una visione articolata della società.
Il corallo del cielo, i gridi appena
desti
di spalatori che si chiamano
da
un ponte all’altro…
L’alba a salutarti
non
fatica. Nell’algido acquitrino
della
laguna non c’è gozzo o barca
che
viva, solo il legno del lattaio
pulsa
timidamente di un motore
dentro
il vitreo malanno: mille bocce
sono
esplose in silenzio, il fondobarca
è
sommerso da un latte malinconico,
niveo
flutto, a deludere chi ha fame. [14]
Quella membrana che prima sigillava
il soggetto nel breve giro delle sue emozioni, ora si espande e ammette per
osmosi altre presenze che si muovono, amano e soffrono. In altre parole, si fa
incubatrice di un nuovo umanesimo.
Simone Maculan è nato a Malo (Vicenza) nel 1980. Si è laureato in
lettere con una tesi sul paesaggio nella lirica veneta del novecento. Oltre a
insegnare, è attivo come volontario nel carcere di Vicenza e si occupa di
cultura ed educazione presso il Centro di Documentazione Paulo Freire di Padova
e presso l’associazione ipiccolimaestri di Malo. Sono stati pubblicati due suoi interventi, il
primo nel 2006 sulla materia della tesi e il secondo nel 2007 dedicato
all’intellettuale e poeta maranese Bortolo Pento. Più di
recente ha curato l’antologia di un altro poeta locale, Walter Giuliano Fabris,
di cui è prossima la pubblicazione.
[1] F. Bandini, Sermone, nella raccolta In modo lampante, Venezia, Neri Pozza, 1962.
[2] D. Valeri, Occhi, prendete in Poesie scelte, a cura di C. Dalla Corte, Milano, Mondadori, 1976.
[3] A. Chiarelotto, A mattutino, tratto da Poesie 1937-1985,
Scheiwiller 1986.
[4] B. Rebellato, in Viandanti in cerca di una spiga, ne Il tempo finito, Padova, Rebellato,
1959.
[5] G. Alessi, Cara città (1956), ne Le poesie, a cura di I. De Luca e V.
Zaccaria, Milano, Mursia, 1986.
[6] Ibid.
[7] Ibid.
[8] B. Pento, Apocalisse in bianco e nero, in Un giudizio della vita, Padova,
Rebellato, 1965.
[9] Fuori del paesaggio è il titolo di una
sezione della raccolta Detto con ironia,
Venezia, 1966.
[10] G. Nogara, Al limite del gioco, in Detto con ironia, Venezia, 1966.
[11] C. Ruffato, Mascheroni, semafori, portici da Il vanitoso pianeta, Caltanisetta, Sciascia,
1965.
[12] A. Zanzotto, Esistere psichicamente, in Vocativo, Milano, Mondadori, 1957.
[13] F. Bandini, Sermone, nella raccolta In modo lampante, Venezia, Neri Pozza, 1962.
[14] C. Della Corte, Cronache
del gelo, Milano, Schwarz, 1956.
Il paesaggio gode di rilievo in tutta la letteratura, direi ...
RispondiEliminasempre complimenti per la tua articolata e sempre competente presentazione di poeti e poesie che rimandano ai classici
cia SisifoGugl, buona estate !:-)