sabato 29 marzo 2014

Marco Giovenale

(foto di Rachel Defay-Liautard)

[Stefano Guglielmin in L'immaginazione, n.279, gennaio-febbraio 2014]


L'architettura di rete concepisce la realtà come un sistema in cui elementi casuali e organizzati interagiscono tra loro, in dinamiche talmente complesse che non è possibile scindere l'uno dall'altro. Tale struttura, inoltre, è pensata come costituiva di differenti organizzazioni del reale, dall'economia alla natura, dalla società alla comunicazione. Marco Giovenale la pratica da un paio di decenni, e in modo sempre più consapevole, sulla scorta di esperienze internazionali poco conosciute in terra nostrana. Tanto è vero che egli fatica a far passare l'idea che la sua scrittura non sia semplicemente epigona delle avanguardie, ma viva prima di tutto in stretta connessione con i saperi della complessità e della neotecnologia informatica. Saperi che hanno rinunciato alla possibilità stessa di dire oggetto, soggetto, identità, preferendo pensarli all'interno di un indefinito sistema di rimandi, orientati, non orientati, connessi in differenti direzioni, adiacenti, dialoganti, conflittuali: la realtà è questa rete di connessioni plurali, dove l'io perde qualsiasi pretesa di convergenza monodica. L'io sparisce nella sua forma moderno-romantica, per darsi quale funzione e legante, ma anche disfunzione / interferenza, antenna che capta i segnali e li rimette in circolo secondo archi di cui non dispone pienamente. In rebus, che riprende il detto oraziano est modus in rebus, ossia "c'è un modo corretto di fare ciascuna cosa", ci mostra quale sia quello della poesia, laddove essa voglia essere ancora praticabile. Prendi "un piccolo fatto vero" scriveva Sanguineti quarant'anni fa; Giovenale mette in rebus (Zona, 2012), la sarabanda di tensioni comunicative che costituiscono la possibilità stessa di pensare a un fatto vero, per quanto piccolo, all'interno dell'apertura epocale contemporanea, che ha nel capitalismo onnipervasivo, secondo la formula di Guy Debord, la sua sostanza. Niente si salva da questa colla distorcente, per quanto "un pezzo di lama sia in tutti" e passi di bocca in bocca: è la lama-linguaggio da cui, postumi all'ottimismo moderno, ritagliamo un senso al reale che ci permetta di sopravvivere nella finzione identitaria.
   L'atto del tagliare, dell'incollare è centrale nell'agire poetico di Giovenale, sempre tenendo presente che la parola poesia, qui, è osso di seppia, dado tratto, loboscopia, gabbia per canarini inceneriti, fantasma che chiede un posto a tavola: uno degli innumerevoli tentativi degli enti per sopravvivere all'obliloquio contemporaneo. "Obliloquio", se non erro, è neologismo giovenaliano, che degli apparati retorici fa buon uso nel libro, giocandoli con ironia e gusto per il suono e per il ritmo, proprio perché la macchina dotata di capacità di scelta, l'io, non scompare del tutto. Ce lo dice chiaramente in Cambio di paradigma ("il Verri" n.43, giugno 2010), un saggio decisivo per comprendere la sua scelta di campo: anziché de «l’objet trouvé dadaista» scrive Giovenale,   meglio parlare, sulla scorta della ricerca di K.S.Mohammad,  «di testi non "trovati" bensì "cercati": non "found" ma 'sought'»: azione, appunto, che presuppone una volontà individuale, per quanto franta e in balia delle suggestioni e/o burrasche più imprevedibili (E tuttavia, en passant: soltanto "init", "gruppo" e "Camera di Albrecht" sono l'effetto di cut-up, della tecnica sought poetry).
Lo statuto di poesia dell'autore romano rivendica la propria esistenza – e lui sta al gioco, le dà la parola, gliela toglie – attraverso le strategie retoriche messe in opera dalla voce plurale che dice questo e quello nel libro: paronomasie, allitterazioni, assonanze, rime, ironia, lapsus, climax (discendente e autocertificante, come questo: "tra stelle, cintura / climax cenere") e straordinari virtuosismi fonico-semantici, capaci di metamorfosi inaspettate: Shelf diventa Self, eco → ego; mirto, per "inversione [di] due vocali", morti. Spetta tuttavia al lettore agire: l'autore, senza autoritas per volontà metodologica e resistenza politica, gli lascia ellitticamente sospeso nel bianco il lavoro da fare, come capita in tanti altri luoghi di questo libro destabilizzante, lucido nell'aprire il ventre al capitale e alla nostra favola bella (sto al gioco in rebus: alla favella), facendo ovunque uscire un paesaggio cosale (natura morta del moderno) riletto, nell'ultima sezione, attraverso l'occhio della camera obscura e la mano / biografia di Albrecht Dürer. Sequenza molto apprezzata da Nanni Balestrini, che così ne ha scritto nel 2009, in occasione del Premio Delfini: "Sondaggio trasversale delle Memorie di Albrecht Dürer, disarticolazione e compressione di tessere che srotola un mosaico brulicante di percorsi città villaggi facce persone paesaggi ma soprattutto oggetti: quattro frecce di canna, un corallo bianco, cinque gusci di chiocciola, una borsa di cuoio, vesciche vuote, di calce, due pesciolini essiccati...".


Dalla sezione polis ware

plures


dieci, ragni
(plures, ha detto)
ragni ovunque (agnus / tollit / tolla ramata)
ragni in scatola dieci – tutti ii, che dicono
«ío» un milione di volte, per tutte distese,

miglio per miglia, migliaii – sin dubio –
mugnai, e al séguito: mulino, sinus, tit, dóppiano «ío»
tit tit, un milione di volte, fino a farlo
varo vero, vetri, veste, varice /du/
(cicatrizza, taglio cieco).

mentre il palazzo capriola nella mente monosogno
e cade giusto dove già era
giusto. giunti a questo punto
della storia, il prence fa a meno
del non-stato (inazione) che è. ha
lo stato.

stazione eretta, ha, pino di Carrà, ma: ritto, a lato,
coi suoi lari, coi colari e i latrari, loro, batteri birilli, altari a bielle
file fini statuine, di gestalt,
genetica che fa un fiorito.
“d’arte”. “dei ricchi”. (che hanno scelto, naturalmente, e duplicato, moralmente,
quanto c’era = avevano, maturamente).

{miglio, mais, orzo, avena, cotone, lino, grano, riche crâne}

è ager è
ricca la marca, il corridoio bizantino, e
i preti che ne ventano.
ne vengono giù a Roma.
ricalano dai mazzi, a emme, con le unghie
come scavano, e
non c’è bisogno di parola.

gli esattori smontano,
scesi scintillati a valle.

la dolcezza delle mani, l’acqua.
i cani alzati


***


dice dice, ma poi no. non investe i cervi, i daini

andando. piuttosto ribalta la diligenza
andando.


    i filologi dell'assai poi trovano
la scatola nera, mundus, ossicini, non tremando
vedono qual era il film che aveva
visto e chiodato la sera prima, muro marcio,
andando, una delle tante
sere prima, di cui con cui
si sfa la più seria,
sera generale, il dècimo di scienza
/che resta, il poco stato, cosa extra, restato, fortepiano
di testa, cervice, fascia finita ma che ancora
fa recinto, consiste, resiste per separare, s/k/z,
là una cosa, qui un'altra
(es, | soleil | couchant) - macchia. che si disfa.

un che di lunato, di albo e trito,
detrito manierato. un noto arare militare, e ride, oltre, entro:
un ridelimitare «


(end. amico che manca, che è
mancato. halo labile. tutto senza, tutto tolto
il- il
reverse)


***

e itti ritti, iatromanti, di
aspettazione. clone fa le chele
bidone di polvere, aspetta
impettito. alla fermata
subspiando le inshort e il recintato,
il recitato, oppure più di lato, certi
orinatoi, preromani. alla testa del serpente,
capolinea, mani in mano. è molto conscio
del suo valore/lavoro.
dell' inclinazione della puntatura.
sa, sa. che l'attesa premia il forte



dalla sez. operare tutti


ossa d’Eco, ossa déco
– sonus est, qui vivit in illa –
una è una | fonte senza filo
di fango, altro bestiame
che sale allo specchio
(vedere riflette vedere) (oo) (oo)

curva e test di stereoscopia

la dottoressa decide di andare
all’incasso: «operare tutti sùbito»,
secondo alcuni testimoni
secondo altri in quel vaso o vano fine
di grande buio che immette nella veglia,
nella mattina



dalla sez. home cam


lire | rire ___________________ la verité
nel “nel” del fondobottega
tra le vertigini cata-, di scatoli
minacciato da film (di mantidi)
si chiede dove ha sbagliato
(senza convinzione)
vero varo di fallito
coerente solo con l’esame del sangue occulto
class 1. premium Don Alejo
che licenzia tutti e vende tutto.
«avete il Manzoni?», gridano da skype, no
è via, ridono, allora
sulla rampa per maritare le maggiori



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