[uscito su "In realtà la poesia", 20 gennaio 2014]
Se nella tarda
modernità il poema eroico non è più possibile (anche perché – come scrive Nanni
Balestrini nella Signorina Richmond – il popolo, diventato pubblico
anonimo e occasionale, non ha fatto niente di eroico per ispirare il poeta), probabilmente
l’intera Opera del novissimo va considerata il canto più vicino al vero
che la nostra età antiepica possa permettersi. Se l’epica giustifica il
presente dei vincitori (Omero per la grecità achea, Chrétien de Troyes per la
cristianità medioevale) l’antiepica di
Balestrini si fa voce degli sconfitti ma soprattutto sfonda e svela le crepe
del neocapitalismo, mettendo in crisi nei suoi statuti epistemologici il brusio
massmediatico e autoritario di cui è fatto il secondo novecento italiano.
Ottiene questo togliendo il poeta dal gioco, annullando il suo prestigio
autoriale così come il Romanticismo l’aveva invece eroicamente impostato (il finito
sfida l’indefinito a costo di morirci), per disseminare la sua identità in quel
chiacchiericcio e in ogni altro segno lasciato nel tempo della povertà in cui
viviamo.
Novello Orfeo
sbranato dall’omologazione e reificazione contemporanee, Balestrini, sin dal Sasso
appeso (1961), prende infatti le sembianze multiple dell’uomo squalificato
dalla stessa lingua che lo abita, alienato e imbrigliato nell’intrico di una
parola incapace di progettualità: “fa’ quel che ti pare: // non c’è pericolo
che non arriviamo […] tanto non si viaggia”, recita la poesia d’apertura,
spiegando, qualche pagina dopo, che il linguaggio poetico e quello della
comunicazione ordinaria coincidono (“Il testo è redatto in un linguaggio
corrente, con ortografia corretta”), in quanto non c’è più scarto, nella
società reificata, fra verità e finzione. L’inautentico, sembra dirci il poeta,
coincide con la totalità dell’essere e, quest’ultimo, agisce senza resto
nell’intrecciarsi di stringhe sintattiche equivalenti, sino ad annullare, nella
superficie del racconto autobiografico, persino la forza destabilizzante del
morire: “del concetto di morte non è / necessario alcun chiarimento”. E ciò,
appunto, non perché sia ovvio, ma per impotenza: ridotto a scorza e merce di
scambio, il linguaggio non può più interrogare quell’abisso che è lo
scomparire, l’esilio definitivo; può soltanto mostrarsi in quanto sua allegoria
depotenziata, superficie caduca, dove ogni frase vale per ogni altra se non
fosse per le leggere scintille scaturite dall’attrito che questi sintagmi
producono sul semianestetizzato spettatore. Dal Sasso appeso a Non capiterà
mai più (1972), Balestrini organizza un magazzino di lacerti linguistici
recuperati nello spazio inabitabile della contemporaneità e riorganizzati in strutture
lacunose, in cui il puzzle non è ricomponibile: “con venature rosse e pun / lungo
le venature a porporino al nov / la sezione punteggiata è coperta di / colore
cremisi bronzato del rovescio […]” (I
funerali di Togliatti).
Alla morte
ontologica, insomma, e all’angoscia che il morire produce nella grande poesia
della tradizione, è subentrato il lego delle parole morte, che Balestrini – in
tutta la sua Opera – ricompone, come dovesse ricostruire linguisticamente il
cadavere del dottor Frankestein, ma senza speranza di perfezione, un cadavere-corpo-cubico
fatto di mattoncini interscambiabili, con l’unica finestra affacciata sulle
macerie della storia, disseminate sin da Corpi in moto e corpi in equilibri
(1958-1963), passando per gli anni di
piombo e raggiungendo l’acme della plastica yuppie degli anni ottanta, “gli
anni di merda”, “con tanti soldi cocaina fotomodelle per chi ci sta / eroina o
muccioli per chi non ci sta / / e tv spazzatura per rincoglionirci tutti
quanti”. Nessuno si senta assolto, tuttavia, lascia intendere il poeta che di
quegli anni fu testimone diretto, perseguitato dalla legge per le sue
frequentazioni in Autonomia Operaia, costretto all’esilio dopo il 7 aprile
1979, proprio alla fine delle speranza di cambiamento: muore Demetrio Stratos,
muore il movimento del Settantasette, muore l’operaismo e l’immobilità del
potere ripianta il suo vessillo nero, dopo aver lascito alla nuova
generazione i suoi dieci anni per omologarsi. Blackout (1980) è appunto il racconto di questa disfatta, “l’ode
funebre al movimento”, come ebbe a definire i poemetto l’autore, resa emblematicamente
nell’attrito fra il concerto milanese in memoria di Stratos, “un azzurro fiume
di jeans”, e il contesto socio-economico da “incubo” in cui l’Italia si muoveva
(e si muove), con gli operai senza più progettualità di classe (“per i nuovi
operai la fabbrica di Agnelli dicono a me serve per farci soldi e tirare
avanti”) e i giovani che “escono dalla fabbrica e entrano nello spettacolo”.
Eppure alla fine
degli anni sessanta, la rivoluzione sembrava a un palmo, al punto che la poesia
venne vissuta con grande senso di colpa, mestiere borghese di cui vergognarsi.
A meno di non togliere – come fa Balestrini, appunto – la carne stesso del
poeta, la sua voce, quale estremo e paradossale atto di responsabilità di
fronte alla storia e ai derelitti. Togliendosi dal gioco autoriale, Balestrini
può continuare indisturbato a mettere sulla carta le tracce del presente, le
lascia depositare, le ricombina soltanto sino al punto in cui restano
frammenti, ognuno dei quali capace di parlare per sé. Non più l’autore che
ricompone il linguaggio in un disegno unitario, ideologicamente e/o eticamente
riconoscibile, ma il poeta che prende la parola per lasciarla subito cadere in
quel campo minato che è la pagina bianca, nella convinzione che non sia più
possibile un discorso compiuto sul senso della storia, nemmeno quello
rivoluzionario. Questo tuttavia non significa che la storia non mostri alcuni
sintomi patologici riconoscibili e nominabili, degli emblemi morbosi che
attraversano la modernità (la fede liberale verso un progresso inarrestabile,
la radice violenta del potere costituito, l’alienazione) rendendola malata.
Balestrini rifiuta tuttavia anche la semplificazione meccanicistica, secondo
la quale la struttura capitalistica sia
la causa delle contraddizioni del reale: la crisi delle ideologie – che si traduce anche, in tutti gli scrittori
di sinistra post vittoriniani, nel rapporto conflittuale prima con il PCI e ora
con il PD – è chiara sin dal Sasso appeso e nel suo splendido romanzo Vogliamo
tutto. Ciò non gli impedisce di fondare Potere Operaio oltre che essere
amico di Feltrinelli, in quegli anni in giro per il mondo a tessere strategie
di lotta rivoluzionaria e collaborazioni terzomondiste. Leggendo i volumi de Le
avventure della signorina Richmond (1974
– 1999), la disillusione postideologica appare evidente: il mirino è
puntato su fatti veri, circoscritti (per esempio l’assalto alla Scala nel 1975,
quando ”Milano sta conoscendo / l’insorgenza di una forma di jacquerie sterile”
e la borghesia italiana flirta col “potere di turno”) oppure su posizioni
partitiche reazionarie (il razzismo leghista che auspica una “pulizia etnica
per la Padania libera”), messe in opera riportando a collage – o, spesso, a
decollage – frasi fatte, situazioni,
punti di vista, senza mai sollevarsi dall’orizzonte del contingente per
riunificare il materiale in un senso definitivo, che abbracci il particolare
restituendogli un senso ultimo. Balestrini si limita a fornirci del materiale,
a volte luminoso a volte opaco, salvifico e dannato, facendo quei nomi (non per
forza colpevoli, ma certo in qualche misura responsabili di specifici momenti
della storia italiana; si veda in particolare “La signorina Richmond sorprende
in un cespuglio il neoaustero Vincenzo Monti col maresciallo Petruccioli”), quei
nomi che Pasolini non osò fare, e che egli mette in gioco chiedendoci di uscire
dal letargo: ci spiega come si agisce e agisce con noi quando lo
seguiamo, o ci ammonisce, ci schernisce come ne “Il pubblico della poesia” e
nel “Piccolo appello al pubblico della cultura”, restituendoci la complessità
del reale; deleuziano, dunque, più che marxista, taoista più che
anarco-insurrezionalista: Caosmogonia (2010) lo mostra indubitabilmente,
con quei suoi passaggi-citazioni (“ciascuno di noi è il centro del mondo senza
essere un io / il mondo non è diventa si muove cambia”) in cui il fondamento
ultimo è tolto, e il reale non ha struttura, ma si dà in un differenziarsi
continuo, pur all’interno – l’abbiamo detto – della malattia del tempo
contemporaneo, le cui tracce – salvifiche e dannate – sono gli spazi del
labirinto plurimo, del “reticolato di possibilità infinite”, come recita
l’ultima poesia di Antologica. Poesie 1958-2010 (Mondadori 2013),
al quale non possiamo sottrarci. Un labirinto-reticolato, un campo infinito
concentrazionario, del quale Balestrini ha fatto il canto antiepico in questi
ultimi cinquant’anni, con tenace resistenza, non per esserne l'aedo funereo, ma
per rigenerare la lingua contro il conformismo, come scrive in Linguaggio e
opposizione, uno dei suoi rari scritti critici già presente nel volume dei Novissimi,
nel 1961, e ora messo in calce all'antologia mondadoriana.
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