E' uscito in floema un e-book su Gianni Toti, con numerosi interventi critici e creativi. Questo che segue è il mio breve saggio sul poeta.
L'attenzione della critica
recente si sofferma spesso sulle installazioni verbo-visive di Gianni Toti,
sulla sua ricerca multimediale, su quella che egli stesso definì la poetronica:
miscela esplosiva ad alto contenuto tecnologico con la quale egli mette
in attrito il desiderio di chi vorrebbe la poesia sul "poetistallo" e
il pericolo obliante di chi la porterebbe sul "poetibolo". In verità
questo è il punto d'arrivo di un percorso che vede il partigiano Toti da sempre
attento alla polis, in una militanza che pone l'accento sulle giunture del
segno, tanto che si potrebbe parlare di realismo intraverbale finalizzato a
disvelare la rete delle apparenze, le miriadi di circuitazioni da cui il velo
di Maya è pervaso. Dietro il paesaggio, tuttavia, c'è ancora il linguaggio, che
tiene le forme di superficie e le segrete connessioni, quell'unità profonda e
tenebrosa che in Baudelaire ci parla per balbettii sinestetici e che in Gianni
Toti altro non è che continua proliferazione di senso, contrazione e
distensione dello spaziotempo, rese fattive dalla poliedricità della lingua.
Questa consapevolezza giunge a
maturazione in chiamiamola
Poemetànoia (Carte Segrete
1974). Metànoia è termine greco che rinvia al cambio di mentalità, al crescere
di consapevolezza, alla stregua dei viaggiatori platonici usciti dalla caverna.
Dopo quel viaggio, nulla è più come prima: la visione ora è sicura e
l'apparenza non può più ingannare. Ma per "l'uomo post-serpentico" –
prodotto sia dell'inciviltà telecatatonica e sia del mondo diventato favola
così come ce lo racconta Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli – la
semplificazione platonica non basta: profondità e superficie stanno ora tutte
dentro la narrazione del reale e dell'irreale che il moltiplicarsi delle
agenzie educative, informative e d'intrattenimento hanno messo babelicamente in
gioco. Gianni Toti agisce su questo tessuto plurale, lo dilata, lo complica
ulteriormente sino a farci sprofondare in un divertissement, che non solo
anarchicamente ci libera al principio del piacere freudiano, ma assume, più
profondamente, una connotazione ontologica: l'essere totiano si dà nella
vertigine degli "elettrologismi", chiedendo a noi di raggomotolarcisi
dentro, per nuotare come embrioni poeliberi di passare da un labirinto
all'altro, senza soluzione di continuità. In questo pluriutero-semico
borgesiano e, per itala sponda, calviniano, non esiste contesto, per cui Croce
e Gramsci, la storia, l'autonomia e l'eteronomia dell'arte, l'egemonia del
proletariato, ora "paroletariato", vengono risucchiati, metabolizzati
dentro gli spazi cronici e ucronici del linguaggio, la cui salute e la cui
malattia, la fisiologia e la patologia della langue e della parole
saussureani stanno in perpetuo e dinamico conflitto ma anche in reciproco
interscambio.
A tale lucidità, Gianni Toti ci arriva per gradi. Ne L'uomo scritto
(Sciascia, 1965), il mondo sta ancora fuori, per quanto appaia
"strano", tutto esposto, piatto perché reo d'avere "cancellato
l'invisibile". È la morte del simbolismo, ma soprattutto, in quell'incipiente
neocapitalismo martirizzato da Pasolini, è la morte dell'intimità, dello spazio
in cui è possibile un sincero dialogo interiore. Sanguineti l'ha capito prima
di tutti: il suo monologo esteriore renderà infatti obsoleti il neorealismo, il
postermetismo ma anche lo storicismo pieno di sensi di colpa di
"Officina". Toti cammina sul ciglio della Neoavanguardia, ma diffida
dell'utopia comunitaria, quando questa è fatta da mandarini verboequilibristi
sempre più ammanicati con l'establishment; egli, come altri poeti
schierati più a sinistra del Gruppo 63, segue una via personale,
fondamentalmente apolide; inoltre, in quegli anni, è impegnatissimo a
testimoniare, da inviato, dei grandi conflitti terzomondisti, da Cuba al
Vietnam alla Primavera di Praga. Lui la storia la attraversa, ci suda dentro;
eppure, che tutto stia diventando favola è una consapevolezza già presente in
questo libro. Ce lo dice nella "necrologia per la metafora", morta
per insufficienza di risorse entro una società in cui non è più possibile
"distinguere / tra il volto e lo specchio". Immagine barocca, di quel
barocco tanto amato da Luciano Anceschi, che pervade sempre più anche la
poetica del Nostro, non ultimo per il rilievo che quell'età diede alla tecnica,
al virtuosismo capace di creare una bellezza nuova, meravigliosa. E la
meraviglia scatta ogni volta che attraversiamo i sentieri rigogliosi del poeta
romano, una meraviglia spaesata ed eccitata al tempo stesso, alla sua massima
potenza a partire appunto da chiamiamola Poemetànoia, ma già quasi
perfetta in Tre ucronie della
coscienza infelice (I Centuauri, 1970) e costante sino alle tre raccolte successive: Per il
paroletariato o della poesicipazione (Umbria editrice, 1977), Il
poesimista (Rebellato, 1978) e Compoetibilmente infungibile (Lacaita,
1979).
Dopo
qualcosa cambia. La resistenza, almeno simbolica, del fortiniano "nulla è
sicuro, ma scrivi", diventa ora, nel pieno della restaurazione culturale
degli anni ottanta, "Narrare humanum est. Inenarrare diabolicum",
massima biforcuta, che addita la via luciferina dell'inenarrazione, la scelta
del buio proprio ai "Poetenebriòidi", un allontanamento, dal sapore
kafkiano, dai miti della civiltà del tramonto. A partire dai Racconti da
palpebra (Empiria, 1989), il pessimismo prende infatti la parola, la
sperimenta da dentro il ventre dello scarafaggio ("Troppo vasto, lo
scarabaggio, ormai. Ha divorato non soltanto lo mio autore, ma anche me, come
vedete, che lo sto riscrivendo dal di dentro della sua pelle chitinosa").
Forse per questo, Toti cerca la luce artificiale nella videoarte, ripartendo
dalle vocali di Rimbaud, dai suoni sospesi di Mallarmé, dagli
"zaum" futuristi e chlebnikoviani, nella superficie della finzione
proiettiva, che s'imbozzola nel paramount della visione, anche violenta, nel
tentativo di riprendere possesso del non senso della polis, di rifondarlo a
partire da una lingua utotica, che dica "l'indicibile del
"postmodernariato" (come scrive nel 1987 a Giorgio Di Costanzo), e dalla leggerezza del
montaggio. Montaggio che agisce per microsequenze sia in Racconti da
palpebra e sia in Poco dopo gli ultimi tre femtosecondi
(racconti coSmunisti dal poetàceo) (El Bagatt, 1995). Quest'ultimo lacerto, organizzato in un linguaggio
borborigmico, singultico, tra permutazioni paronomasiche e un plurilinguismo
caosmico, ci sprofonda in uno spazio in cui tutto tace, compreso il pensiero
per eccesso di contraddizione. Il principio del piacere, abbandonata la
giovinezza masturbatoria del ribelle, respira ora i miasmi sulfurei della
morte, in uno spaesamento totale, anzi totiano, e l'io franto si muove fra mura
"erte e dure, senza porosità", specchio perfetto del presente dal
quale vorremmo soltanto uscire.
da “L’uomo scritto” - Sciascia, 1965
(Necrologio per la metafora)
non paragonava più niente a nessuno
non diceva più alla sua donna
che era come una rosa che era una rosa
non ripeteva neppure più alla sua rosa
che era come la sua donna che era la sua donna
ma quando lei arrivava sei come te ripeteva
e quando aspirava una rosa sei come una rosa constatava
e gli veniva quasi da piangere perché
la sua donna era solo la sua donna
le rose erano le rose
e tutte le donne del mondo tutte le rose
il come era abolito nessuno lo sapeva più distinguere
tra il volto e lo
specchio finalmente …
(Homo videns)
coltelli fra le palpebre, non occhi
ha sfogliato il giornale: fra due pagine
incartati ha trovato mille morti
ogni giorno così, a colazione
imburra il pane con sangue e notizie
poi si scrolla e cammina fra la gente
che maneggia morti di carta, tutta viva
guarda il mondo con occhi affilati
coltelli fra le palpebre,
e taglia, e recide. …
da “Tre ucronie della coscienza infelice” - I
Centauri, 1970
arma-menti
incapacitaria
un’arma
compossibile psico-displeptica
la specie che si altera
metamorfosi futura attuale
dio già incapacitario
l’uomo adesso figuràtevelo
euforia ansiosa volontà di non
volere nolontà ìlare angoscia
dirottàti camminanti all’indietro soldati
gamberi umani cromosomi leucocitari
in rivolta a spasso per il sangue
malformando congenitali eccetera
l’arma incapacitaria chi
l’userà ne sarà usato nessuno
sparerà ai nessun i
nolontari tutti
sì
da “chiamiamola Poemetànoia” - Carte Segrete, 1974
l’uomo post-serpentico
(dieci punti e finisce la fine)
1
guarda il glomerulo umano
la membranella il lume capillare
l’endotelio il mesangio lo pseudòpodo
e raggomitolati se ripuoi
2
e lassa i laserpìci o sarai anòmane
spasmofilo estetìpsico
statisti-estetistìco
uscendo troppo non rientrerai
3
il respiro tascabile i rotametri
il palloncino tende a collabire
ipovèntila il flusso della curva
e l’agonia tascata l’insufflabile
4
telefonano al cuore (al cardio): è pronto
il check ricevitore al petto batte ancora
all’àncora ma già sta scaricandosi e
fonocontrollo e morte in anticamera
5
una torcia ultrafonica ultraottica
occhiali ciechi ascoltanti silenzi
divisioni eco-radar del buio
forse il cieco vedrà anche più lontano
[…]
da “Per il paroletariato o della poesicipazione” - Umbria
editrice, 1977
le cento e una lotte
(con la lingua e la notte)
1
il bell’orrore l’orrida bellezza
l’infelicità ormai felice
è avvenuto il poetifragio
perfetta è l’imperfezione
ottusacuto l’ossimoro
in ordine il disordine
del giorno feral feriale
moriremo e saremo felici
la rivoluzione già tutta scritta
letta riveduta e corretta
75
« corre nel mondo una parola vaga
questa parola è partecipazione »
(così disse un sindaco con la sua prosa
di coscienza ma erano due endecasillabari)
e io credo sia sbagliata e che divaga
questa parola è poesicipazione
da “Il poesimista” - Rebellato, 1978
Glossocomio?
ti hanno timbrato fino dalla nascita
con razza d’uomo prima identità e
poi con nome connominato
trasforandoti egoibile con le pinze
ma non eri ancora svanito nella lusione
bardato con tutti gli infinimenti e le cinture
e le croate e i fili che pendono dai bottoni
e viceversa le teste che ciondolano dai capelli
vattene adesso rondinotto da briglia
il prima non c’è stato ancora per te
prima che ti insegnino a ricordarlo
non ci sarà il dopo prima che ti postarghino
ascòltati corri ma di fianco
(dalla rosa la zolla - dalla zolla il pianeta)
così potrai mostrarci l’adcanto l’ala sola
che ha una parola sopra a surlinearlo e perché
lo pronunciamo parolato grave o acuto in-ad-cantabile
lallazione lalìa glossopea glossalgia
tacere più forte
Abracadavere
fa segno ancora abreg ad hâbra e dice:
fino alla morte spedisci la folgore ―
il filattero è questo ma non è ancora arrivata
noun è il caos e non c’è differenza
nel tohu-bohu del deserto e del vuoto
era disorientato l’essere forse lo è ancora
da “Compoetibilmente infungibile” -
Lacaita, 1979
Illetteraria disiscrittura
con la phosphorea pennatula scriverei
leioptilofimbriato proponendomi nomens
ma velella velella nautiloide me ne vado
nudibranco sipuncùlide thalassema gogohimense
e temo che lineus longifissus torquatus
variopedatus anche resterò infundibolo
nella conchìlega nei fanghi sabbiosi
dove i tubicoli scriptori nascono
pagine di arena letteratura di istanti
da “Racconti da palpebra” - Empirìa, 1989
Errori erranti
― Narrare humanum est. Inenarrare diabolicum ― sospirò
l’inenarratore, trasformatosi immediatamente in inenarratore, per l’errore
vocale appena commesso prima di riprendere, ma a inanerrare non a inenarrare
l’inanerranza, inenanerraticamente…
Chi tenebrar li lascia e chi li spegne
Hanno vita immaginale breve, costumi notturni, endoparassìti,
amano le tenebre, attaccano i poeti, gli sfarìnano dentro le parole. Li
chiamano ― ma non rispondono― Poetenebriòidi. Ne ho uno qui, lucìfugo, nello
scazònte. Breve, la loro vita immaginale ― ma quanto, breve?
Capo Bovino
Pensa tanto allo scarafaggio nero. Perché? si chiedono gli
amici cui l’ha confessato. Ma per fabbricarselo! Non solo concepirlo ma darlo
alla luce; o al buio, che è meglio; insomma darlo, darselo, non come un essere
creaturo ma come questa sua ossessione ontentonologica, che
rientra sicuramente, come tante altre, in un processo o metodo di produzione.
Lasciarsi frequentare dall’immagine scaravaggesca (ah, qui la effe è
diventata vu: bene!).
E nei fatti così è stato: lo scarafaggio nero è venuto al
buio come alla luce. Non letterariamente, ma veramente, sia detto
frettolosamente proprio così: veramente. E adesso lui se lo studia
perché è uscito dal suo cervello e ne cerca ancora il foro d’uscita, non lo
trova solo perché dev’essersi richiuso quasi subito. Così escono gli
scarafaggi. Per essere letteraturizzati? No, per crescere e divorarsi lo mio
autore. Testa-di-bue, si descrive così, il carabo. E infatti è già
cresciuto tanto, nella cantina letteraria, che non ci sta più nelle migliaia di
pagine metagrafate su di lui. Troppo vasto, lo scarabaggio, ormai. Ha divorato
non soltanto lo mio autore, ma anche me, come vedete, che lo sto riscrivendo
dal di dentro della sua pelle chitinosa.
Su cui non si scrive male dopotutto la storia terrificante dello scarafaggio
che, una mattina, si ritrova uomo, raccontatevela da soli.
da “Poco dopo gli ultimi tre femtosecondi (racconti
coSmunisti dal poetàceo)” - El Bagatt, 1995
Cliopeopea
Eraclito ride. Era Clito che non. Kleitorìs chiusa, la
trovò. Serraturina. Perché chiudeva. A Kleitor per esempio, città dell’Arcadia
per una sua sorgente, un tempo famosa, rovina illustre adesso, presso Clituras.
Chiavistellino, dunque, clavis da kléisis. Chiavi di Clito
aprivano, ridendo. E Cléio spalancava la Musepòpea, Clio che annuncitric’è
perch’apr’e chiude, màgnifa e festeggiando esalta e salta e sulta. Per questo
Klito è inclito, udire si fa e laudare, claudo et laudo, Klùo anch’io quando
kleo anzi kleio. Ma allora claustro e clathra e clethra e kléistron e claustro
è il catenaccio della sua dolcezza chiusa. Sbarra o ardiglione di fibbia, come
la chiamavi tu, Eraclitoridente? La chiave sulla bocca. La bocca degli
iniziati, Gli iniziati alla serratura. La serratura dell’essere. L’esserratura,
dici? Sui banchi dei rematori incorregge come una chiave giransi, i remi. Nello
stretto, la chiave del mare.
Tà splankna apò tìnos, io chiudo il cuore a una, declamò Clito che era inclito e rideva
splenético, dolendosi per le viscere, il cuore, la milza, lo spleen. Sì, lo spleen,
lo spleend’ore.
Clide rideva, promontorio alto e ciprigno. E il
clitofilàce anche, rideva ficcando lo sguardo nella klithria,
buchiavistellante, nel forame clavicolare, per Clito e Clitone, generale al
Granìco e scultore ad Atene, ambedue ridenti nel Clitoro e nel Clitorio, per
klemme e klemmìdie, le chiuse ormai forzate spalanchiuse, apriende ancora,
apriche.
Clitotéchne inclit’arte! Clitorismi, e clitoroflogòsi, e
clitorotomìe poi. Non più ridenti e clite. Era Clito che non, che non più
rideva, troppo facile aprichiudere. Perciò adesso svolitar qui lasciansi le
callìdie incluse da Fabricino nella terza sezione dell’ordine degli
Inclitoleotteri, Inclitoridentotteri, sulle clitorie aperte in polipetali,
diadelfie decandrie leguminose, chiare di colori, a trasversarli fasce giall’e
bianche, alipétali.
E voi puellititillate pur, in fin di pagine il piccolo
glande imperforato, il tubercolo rossastro, il penis muliebris, l’oestrum
veneris, lamentula amoris dulcedo, clitride e cenàngio. Con voi riderà Clizia,
Clitiàride, oceanitide, sertularia flexibilis. Era Clito che Eraclito ridente
voleva; e noi? Noi anche clitorideremeremo, con remi labiali, gli ardiglioni
delle fibbie, la femminile glandezza, sì!
il fatto che non ci siano commenti e soprattutto che abbia avuto così poche visite attestano lo stato penoso della poesia in rete
RispondiEliminaBarocco e Gongora come radici si, ma la parola che diventa protagonista e personaggio mi fanno pensare a Lezama Lima, o azzardo troppo?
RispondiEliminadipende se Toti conosceva Lima. A me comunque pare un azzardo :-)
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