Come indicato sul bando dell'European poetry Tournament, escono su Blanc le poesie di 3 finalisti. Il prossimo mese, altri 3.
Giovanni Turra Zan in Generazione rievoca, fra l'altro,
l'eccidio di Granezza (6 settembre 1944), l'incertezza assoluta della Storia,
quando incontra l'incertezza delle sue creature. Eppure le donne qui raccontate
sono capaci di resistere allo sfaldamento delle cose. Sono le femmine della
casa, cerchio del riconoscimento, dell'identità condivisa. Nella prima strofa
una di queste, forse staffetta partigiana, prende la parola. Turra Zan ci vieta
di familiarizzare con i personaggi di questa storia dolorosa, ci lascia entrare
appena, con pudore, in quella soglia contadina. Nella seconda strofa, la voce
cambia; il lettore forse ritrova questa donna, ora anziana. L'atmosfera,
tuttavia, non è molto cambiata: ancora la fatica e le vecchie abitudini, anche
culinarie, danno il ritmo all'esistenza. Giovanni è bravissimo a non cadere
nelle retorica, a focalizzare l'attenzione sui dettagli, a tenere accesa
l'attenzione con metafore efficaci, con una toponomastica ben riconoscibile per
chi vive dalle mie parti. Lo straniamento viene dall'uso di nomi propri
anglosassoni, dalle "lettere albanesi", ma non è un mistero che
sull'Altopiano di Asiago ci siano cimiteri inglesi e anche del popolo
balcanico. L'attrito con quei nomi è prodotto dal dialetto vicentino, in un
plurilinguismo misurato, mai dominante.
UNA GENERAZIONE.
Perduravano le incertezze mentre l’ombra scendeva
sui morti e l’isola e la casa venivano occupate.
Avresti preferito nasconderti a Granezza, ma le donne in
famiglia
cadevano dal sangue delle generazioni e la madre voleva le
figlie
nella cucina con la stufa e la porta sul letamaio.
La poltrona rossa reliquia al focolare, la ricordi nel
giorno
del sussurro che vi ammutolì, con tutte le femmine impegnate
al tavolo nel gioco solitario. A Bosco Nero, Loris era caduto tra i germogli
dei carpini; il suo corpo nascondeva le larve della
prosperità,
ma non fu più per noi il perdono dell’aria che irritava le
porte di casa.
Fu per tutte e sette noi donne quel dissimulare di granito
che ci ammalò il
pianto, salvo che per Mary, che rese vasta.
Quando anche Tom lasciò tutta la prigionia di una vita,
e non più solanacee a ricordargli la nausea del mondo,
come in Germania nel ’43, piangeste di lui i completi di
lana
sul cancello di casa, come ultima consegna della cura, della
storia
amata come l’erba intorno all’acqua, che riempiva la brocca
en tel làbio ogni
santissimo giorno dell’anno.
Siamo a maggio; il colore del pane biscotto uscito dal forno
vi invita alla festa della discendenza, e la preparazione del rito
avviene come nel romanzo dell’orgoglio. Rivediamo i volti
dei giochi, e la compagine australiana sorta con addosso
tutta la salvezza.
Disperavano di ritrovarti ancora viva e tu, gigante odor di
mughetto,
ti stagliavi a simbolo della linea di difesa d’ogni onesto
racconto di [resistenza.
Veniamo a testimoniarti gratitudine per il dispiegarsi del
libero discorso,
tra la linea del canto, che avviene a salti e ad accenti, e
quella di un dire
stanco, forestiero. Sorella delle lungaggini, sapevi i
trucchi dei non detti,
delle camicie inamidate nel cesto, di po’enta e fasòi, col brutto naso
che i tedeschi ridevano, lasciandoti portare i foglietti sui
monti.
A piedi, spingendo la bici, aprivi il varco a quelli tra noi
più liberi,
e lasciavi che corni di metallo spuntassero dai muri di
cinta, a ricordo
dell’esproprio del ferro assassino, sotto cui cadevano
i nomi dei maschi nei boschi (tutti belli, forti, affamati
di donne
e di fabbriche). Dov’è nascosto questo futuro chiedi, dove
siete amici
sepolti e con voi il passo dopo passo, con le stalattiti di
ghiaccio ed il grano?
Restano sole le cose da incartare: due fotografie dell’amata
maestra
della scuola elementare, anche della madre, le lettere
albanesi di Tom,
due vasi, i cerchi di marmo da cui spuntava una goccia
di roggia, come un pianto vecchio cent’anni e uno; i libri
di Mimma e
ancora quella rossa poltrona. Fa freddo. L’inverno mangia i
cigli
alle strade, e ora che la casa è stata ritrovata, posso
essere
sepolta con le cose declamate alla festa dei cent’anni.
***
Nadia Agustoni, come Turra
Zan, ci proietta nella grande storia, per un lungo tratto mostrata per emblemi
e a una velocità furtiva, vista da carri trasportatori di corpi, da occhi che
vedono frecciare il paesaggio e non capiscono la meta. L'anaforico "Erano
già alberi" dà il ritmo al viaggio di avvicinamento ad Auschwitz e a tutti
luoghi della disaccoglienza, del rifiuto. Anziché alzare la voce contro il
negazionismo, Agustoni mette di fronte l'evidenza degli oggetti, dei corpi
raccontati nella loro disarticolazione (mani, denti, capelli, piedi, testa,
braccia). Ancora più che in Turra Zan, Agostoni, qui, fa poesia in-re, da
dentro la situazione, stando in posizione fenomenologica, così che il suo commento si dipani quale messa in scena di una
possibilità costantemente in agguato, fattasi carne nei campi di sterminio e nelle parole ideologicamente sporche di Faurisson, ma
ripetibile ancora, all'infinito.
Commento a Robert Faurisson
a chi è partito
“Bisognerà
progressivamente ammettere
che non è esistita ad Auschwitz la minima
camera a gas omicida... “ Robert Faurisson
19 gennaio 1995 a Radio Islam
Erano già
alberi
crescevano
fumo e traversine
a lungo
sognarono i binari
le case
lasciate indietro
erano grandi
come mani
a volte
facevano con le mani aperte
un silenzio
che non credevi:
coi capelli e
coi denti
battevano il
tempo fermo
e sementi di
uomini
vedevano
rondini
cercare un
campo
credevano che
il campo nella neve
li avrebbe
raccolti:
erano già
alberi
i fiori li
guardavano
come un ciliegio
che dal bianco stilli il rosso:
“tu imparami
il vento,
con una
preghiera chiama
gli uccelli,
ascolteranno
la nostra
voce, le parole
non siamo più
noi”:
la guerra era
sul grano
sparavano
sopra
come a un
cielo
andavano via
guardando i paesi
là erano giovani
erano il tetto e fondamenta
qui le foglie
come gli occhi
la polvere
come polvere
il pensiero
della lepre:
erano già
alberi
li
abbattevano, c’erano
nei tronchi i
loro petti
sui rami
facevano un tavolo
la casa era un
quaderno
scrivevano:
“noi il buio sappiamo
che esiste”:
era un celeste
essere vivi
una notte due
notti
un giorno
davanti...
pensarono uno
alla volta
il figlio il
padre
la sorella il
bambino
dei vicini che
giocava:
erano già
alberi
aprile un’aria
d’ortiche
sul mondo
erano nei piedi
nella testa
nelle braccia
a capire
piangevano
come il cuore
di un altro:
a dicembre il
fumo
coi cavalli,
pensavano
dentro le
scarpe
a come dovrà
piovere tanto
per non
soffrire più
verranno coi
boschi
le piante col
legno
della terra,
verranno
carbone.
***
Come i due
autori precedenti, Davide
Castiglione ci porta dentro la scena,
in una zumata d'avvicinamento macroscopica; leggendo, viene subito da
chiederci: chi annera i vetrini, in quale spiazzo? E le voci si moltiplicano, e
lo spesamento del lettore è sempre più grande. Chi entra, chi si alza?
Castiglione procede nella sua descrizione minuziosa, non apre allo sfondo. Però
parla di "fuoriusciti", ma da dove? Dall'immagine, dallo Stato
tiranno? Quello che sappiamo è che c'è luce e c'è ombra, e c'è un interno e un
esterno. Siamo nella vita, forse, o nel viaggio post mortem? Di sicuro non
siamo soli. E qualcuno ci guarda, li guarda. Castiglione ha la capacità di
sprofondarci dentro l'imbuto, di farci sentire sul collo il fiato dei
carnefici, se non fosse che il titolo, Eclissi, ci riporta al
quotidiano, alla curiosità testimoniale di chi vuole fissare con gli occhi
l'impossibile: quel sole-bene-di-Dio che oramai è soltanto un astro bollente,
un fuoco senza teologia. E il nostro viaggio non può che fermarsi all'inferno.
Eclissi
I
Stanno in uno spiazzo, annerano vetrini. Seguirli
li seguirebbe prepararsi al passaggio, nell’aria educata
a ritornare dalle pale della ventola
entra uno e gli afferma sopra, forza
guardala da fuori:
ti do il cambio. Fa per alzarsi,
esita – l’altro
riprende, come si è un secolo in vantaggio, hai tarpato
le tue possibilità
non appena lasciavano le tabelle
per la luce, non
intuendovi cifre a sostenerla. Quindi
i fuoriusciti si invetrano nel fenomeno,
riparano in estasi per minuti sette.
II
Ha esordito in pieno oscurarsi, con una presunzione
di filigrana – per avere approfondito
il suo stesso corridoio, assottigliandosi all’uscita sino
a una qualche
chiarezza. Gli
è simile,
a suo tempo soppesò il nocciolo al bilancino
e così le circostanze, si inscrisse in corsia
per definirsi, capire dove finisse.
Gli tocca la spalla, sovrappone
a quelle schierate sul banco le sue schedature (l’essere
simili fa proseguire o meno l’ombra
prima ripiegata e sola?).
Tra monitor e porta aperta,
Mi fa molto piacere che vengano qui pubblicate queste poesie, così come ringrazio Stefano per la sua lettura che denota il suo spessore e la serietà che mette nel fare parte della giuria.
RispondiEliminaFrancesco t.
è bello rileggere questi testi che davvero meritano una vetrina. Grazie, Stefano, anche per le belle presentazioni.
RispondiEliminadaniela
La poesia segue sempre il duplice movimento dell'espansione umana (temporale-storico/ intuitiva) mettendo al centro il riordino visionario del mondo determinando la lettura dell'esperienza personale e sociale attraverso la disgressione della vita sulla morte. Quindi l'anima segue il corpo e il corpo segue la mente. Siamo portati, in qualità di esseri pensanti, a riguardare i drammi delle atmosfere storiche, appartenute a decenni fa, per riscoprire e confrontare le movenze della crudeltà di quel tempo con quelle della modernità che ci appartengono, che siamo noi a toccare in prima persona. La poesia è anche una lettura sociologica del reale: la sfida è viverla come un progetto culturale e non come un atto autoreferenziale! Ecco perché, ancora, qui, i miei complimenti a questo premio, al vincitore, ai giurati, al prof Guglielmin e a chi crede e lavora per questa interessante iniziativa che non è fine a se stessa!
RispondiEliminaComplimenti alle poesie che leggo in questo post molto ben strutturato da Stefano.
La mia stima rinnovata
Rita Pacilio
garzie rita. A conferma di quanto dici, riferisco che anche il grande Roman Jakobson ribadiva la necessità di cercare nella poesia non soltanto la sua "funzione poetica". come dici tu "La poesia è anche una lettura sociologica del reale".
Eliminaperò, un favore: non chiamarmi "prof " che qui siamo tra amici :-)
Ringrazio Stefano del commento e il concorso per la segnalazione. Specifico che Mary è Mary Arnaldi, staffetta partigiana, medaglia di bronzo della resistenza, 101 anni compiuti lo scorso maggio. Loris, è il comandante Loris, ovvero Rinaldo Arnaldi, fratello di mary, trucidato dai nazi-fascisti a Granezza nella data ricordata da Stefano. Tom è Antonio Arnaldi, detto Tom, fratello di Mary e Rinaldo, arruolato nell'esercito italiano e catturato dai nazisti in Albania dopo l'8 settembre e internato in un campo di concentramento in Germania, da cui fu liberato. Mimma è Mimma Arnaldi, sorella di tutti gli altri (9 tra fratelli e sorelle), fervida raccoglitrice e divulgatrice di documenti relativi non solo alla sua famiglia, ma anche alla resistenza nell'alto vicentino. Morta lei, i documenti giacciono per il momento nel suo studio della antica casa di Dueville, dove è rimasta solo Mary, e che è meta di pellegrinaggio di alcuni storici locali (tra cui il prof. Gramola di Molvena). La "compagine australiana" è il ramo "australiano", appunto, della famiglia Arnaldi, sempre presente con qualche rappresentante durante le celebrazioni nel vicentino della Resistenza locale e, certamente, anche della famiglia. Io, che sono stato sempre invitato dalla famiglia ad essere presente anche alle occasioni famigliari, sono una sorta di relativamente giovane amico di tutti loro. In tanti anni di frequentazione e affetto, ancora mi commuovo al cospetto di Mary. E ora, mi sento anche un po' un bizzarro "poeta di corte". Onorato d'esserlo. Un saluto, GTZ
RispondiEliminaGrazie per queste annotazioni che ci fanno ulteriormente apprezzare la poesia.
Eliminaaggiungo: se pubblicherai su un libro questa poesia, metti in nota il tuo commento.
Eliminachi tenta, in poesia, la via prosastica, tenta la via dell’epopea. un’epopea, e penso a Montale, che può essere l’impresa sussurrata di scendere un milione di scale, oppure, nel caso di Giovanni Turra Zan, quella degna di rappresentare, per l’Italia contemporanea, ciò che il west, ad esempio, è per gli USA - la Resistenza. GTZ canta benissimo quei frammenti di storia micro che conosce e di cui ha esperienza. C’è, mi sembra, un domestico, commovente e saporito Omero in questi versi (non mi scuso per i grandi paragoni, che stanno spesso lì tra i piedi).
RispondiEliminapierluigi
interessante l'accostamento tra West e Resistenza, anche se la Resistenza non è stata solo una conquista del territorio, ma una sua riscrittura culturale.
EliminaVero anche che prosa e epopea si incontrano, ma nel moderno, dove è il romanzo il genere principe. grazie per il commento.
Grazie a Pierluigi....? Gli accostamenti mi sembrano eccessivi (il West, Omero), ma certo appartengono alla mia mitologia personale. ;) Well, il West è stata "conquista", appunto. Di territorio e di nativi americani. Da sterminare o da civilizzare con dei sani principi cristiano-protestanti, in effetti. ;-) Ciao.GTZ
Eliminala Resistenza come mitologia fondante l'Italia contemporanea non è priva di ambivalenze, anche Fenoglio non se ne dimentica (il mito della frontiera e del West, per gli USA, è qualcosa di analogo, forse con più ombre che luci, d'accordo, ma non lo si può ridurre interamente a una conquista del territorio e al massacro dei nativi). l'efficacia del canto-racconto di "Una generazione" sta, mi sembra, nell'assenza di retorica, ovvero in una memoria che affastella, senza mediazioni ideologiche ingombranti, cose, luoghi, persone, animali, piante, parole e modi dire, commoventi nella loro piccola ma poetica e dignitosa materialità.
Eliminapierluigi rossi
capisco meglio cosa intendi,Pierluigi. E grazie ancora. GTZ
EliminaRingrazio Stefano per l'acuta nota alla mia "Eclissi" (l'idea di minaccia incombente era tra i miei obbiettivi) e mi compiaccio nel leggere le poesie di Turra Zan e di Agustoni: questo European Poetry Tournament davvero mi fa ben sperare in tema di qualita' delle selezioni.
RispondiEliminaApprofitto di questo spazio per chiarire alcune cose sul mio testo: in una versione precedente, assai piu' didascalica, segnalavo in corsivo i dialoghi in dicorso diretto anziche' immetterli nel flusso del narrato e inoltre indicavo che il soggetto in terza persona era un 'impiegato', e quindi quasi di conseguenza quelli che guarda prepararsi all'eclisse (per fissarla occorre davvero annerare vetrini col fuoco, altrimenti la vista non reggerebbe) sarebbero i suoi colleghi. Visto le difficolta' interpretative potrei tornare a quella versione piu' esplicita, ma anche piu' 'costringente' nei confronti del lettore, chi sa.
La poesia e' nata per la prima volta sei anni fa (nel 2007, quindi) come una specie di allegoria sul tema della sostituzione (di identita', di turni lavorativi, accostata implicitamente per giustapposizione alla sostituzione del sole con la luna. Non l'ho inclusa nel mio libro perche' deviava troppo (credo) dai toni dominanti di quello (Stefano poi magari mi confermerai...), ma a questo punto pensero' seriamente a inserirla in una raccolta in progress che sto scrivendo...
Un caro saluto a tutti
a me piace così: il didascalico è quasi sempre sinonimo di prolisso, a meno che non sia pasolini a farlo (ma anche lui, qualche volta...)
EliminaVedo molta profondità, nella poesia di Castiglione, un precipitare, perdere le dimensioni proprie e di ciò che c'è intorno. Forse è proprio
RispondiEliminaprofonda perchè non è didascalica. Da un effetto ad elica molto impressionante, al di là di quel che succeda realmente. Come all'improvviso si muovesse una foto. Complimenti!
Cristina Annino.
grazie Cristina per il commento. E bentornata!
EliminaIl mio caro amico GTZ mi segnala oggi questo blog. Ho letto la sua e le altre poesie, e i commenti che ne seguono.
RispondiEliminaE non riesco a non pensare alla coincidenza significativa, junganamente intesa, che in questi stessi giorni c'è chi dice che del funerale del camerata Priebke bisognerebbe parlare "laicamente" e senza pregiudizi.
Mi piace pensare che questi versi consolidano i miei pregiudizi, e che cercherò ci tenerli cari e attivi, anche con l'aiuto della poesia.
stefano zoletto
infatti, non tutti i pregiudizi sono pregiudizi :-)
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