Ancora poesia e pittura, in un'opera prima uscita nel 2009, Lemmi per uno sguardo (Cierre grafica) di Matilde Tobia. Con la seguente postfazione di Paolo Donini:
Prepararsi al vedere
Tra il vedere e il nominare si
dà un nesso simile a quello che lega i
due segmenti dell’abduzione.
Il vedere è percettivamente certo, il nominare ne consegue come
impresa del riconoscimento.
Nel frattempo, la cosa vista laggiù è ancora sola, nella troppa luce.
Se supponiamo di soffermare la frazione in cui l’occhio si apre al
bagliore e ne è allagato, in quella il vedere è il puro, disperato offrirsi della retina all’impressione.
Un disperato vedere che non è ancora visione.
La visione, come la “veduta”, vuole che il vedere sia
ricondotto entro la specula di un’autolimitazione, nel beneficio inestimabile
di un ripensamento. Entro una “cornice”.
La visione è ripensamento o recinto al vedere. E il recinto al vedere non può essere altro vedere.
Recinto al vedere può essere soltanto una prospezione di senso,
soccorso semantico a quanto è stato disperatamente
avvistato laggiù. Pratica del
riconoscimento.
Toglie disperazione al vedere il recinto di senso che lo delimita:
lo steccato ermeneutico, amata cinta che accoglie quanto è stato visto.
Ma è tale la velocità del vedere
che la china opera nominante deve accelerarsi a raggiungere la misura dello
scatto percettivo.
Il recinto si installa in
velocità quasi-pari al vedere. E lo
fa nella grazia inattesa e repentina del lemma.
Il lemma cinge il vedere, nel
ripensamento repentino di quanto è stato avvistato disperatamente.
Ed ecco che tra il disperato
vedere e quanto disperatamente avvistato si conchiude a riparo la grazia
repentina del lemma.
E la cosa, inebetita nella luce,
si riprende: si dichiara.
A riparo della furia luminosa la
cosa vista trova per sé un nome. Un nome di cui cintarsi. Lemma.
Λεμμα, Lemma, radica il suo etimo nel tema del dono, di quanto è ricevuto,
ma precisa il suo impiego nella microlingua matematica e nella filosofia in ciò
che è premessa al dimostrato. A quel che è certo.
Nella teorica dello sguardo di
Matilde Tobia il lemma è premessa a
ciò che è puramente, desolatamente visto. E lemmario
sarà la provvigione di cui il poeta si incarica: repertorio, arsenale,
allevamento e vivaio del nome da dispensare a ogni cosa.
Soltanto che nello sguardo, per
via del primato percettivo della vista, la premessa accade in un infinitesimo
ritardo, dove si dà il ripensamento. E non è, pertanto, già-certa, scontata.
La premessa è vigilanza sulla
veduta, veglia nella luce immediata, avventura poetica oltre l’occhio,
scommessa del dire.
La premessa è frutto della
pedagogia del vedere e si fa latu sensu
“promessa” dei battesimi culturali che escono a dar nome al mondo.
Il lemma, recinto al vedere, è
premessa posticipata, quando conclude il giusto completarsi della visione nella
dizione.
Dal nudo vedere il lemma accampa
la grazia del recinto che fa la visione, la veduta: il quadro.
Fra il rapido consonare di questi termini: vedere nominare/ cornice recinto/lemma visione: quadro la poetica di Matilde Tobia accerta la
necessità di pronuncia dello sguardo, metodo e responsabilità, deontologia
dello sguardo:
Dar corpo
al senso
della vista
è storia
d’una vita
…
lemmario
d’una urgenza
In queste pagine, nella rigorosa
scansione delle sezioni:
I)Lemmi … - II)
Percezione / Appunti - III ) - Immagine / Cominciamenti - IV ) Riflesso / Note
si inscrive l’accertamento
poetico dello sguardo, sino alla foce luminosa della presentificazione (V
Il Presente).
Una ricognizione che non è
sconfinamento da un’arte all’altra, né cabotaggio didascalico, perché il
recinto ermeneutico richiede l’imbandigione d’una poiésis a cui il dato visivo si porga, attinga, acclarandosi nella
dichiarazione.
E perché dal tempo inebetito
della cosa, sola nella luce, si giunga all’incominciamento luminoso del tempo
nominato, dell’essere-nel-nome presente
a se stesso.
Matilde Tobia procede
sistematicamente dalla cosa vista in
sé a quel correlativo esponenziale che è la cosa trattata nella materia
dell’Arte: la Forma.
L’indagine qui è a tutto campo, a
tutto campo visivo. Dall’empiria
della Cosa all’ermeneutica della Forma:
nell’urgenza di una poiésis che si descrive come risposta e
soccorso al nudo vedere e nella stessa urgenza che richiama il lemma a farsi
parola di una critica poetante, l’unica che sappia dire l’Arte senza deformarsi in autobiografia (del critico,
ovviamente).
La poesia di Matilde Tobia incorpora gli atti di una critica poetante, nella mimesi che la
scommette vis-a-vis sull’opera, sulla tela, nel quadro, di cui il testo non fa
l’anedottica né la suggestione ma la pronuncia, la dizione,
la materia resa in lemma, apparizione finalmente “nominata”.
Esemplari di questo procedere
sono i Lemmi per Anselm Kiefer, dove
l’impasto materico proprio dell’artista tedesco si “vede letteralmente”, nel
suo correlativo sillabico:
E’ vicina,
talmente vicina, la volta notturna ch’è bianca, non nera.
E invade la
mente di chi la subisce guardandola cieco, lasciandola
spoglia.
E impastata
di spessa materia e di vaghi colori.
(così bianca
di stelle, è pesante una volta;
scivola giù
e non trova accoglienza per farsi comprendere)
Battesimo delle Forme, questa
poesia postula che lo sguardo dell’Artista includa una pre-disposizione al
vedere, dall’effetto semantico analogo al nominare, ma che in un Artista visivo questa resti visiva, e occorra dunque
l’intervento del poeta a traslarla in poiesis,
rivelando che l’ordinamento del “quadro” è premessa e recinto all’ordinamento
del mondo:
Quando
qualcuno predispone il luogo, sono le cose che possono disporsi
Il recinto si è fatto luogo della realtà.
Questo scambio è essenziale perché in Matilde Tobia il discorso
dell’Arte (e non sull’Arte) è
discorso del mondo e la parola scambiata vis-a-vis
con il “quadro” è dialogo nell’essere, nella vita, dove il nascere al senso,
formarsi, esperire si fanno nell’Arte, esperienze nell’Arte in quanto “realtà
liberata dal realismo”.
Il dialogo nell’Arte qui è niente meno che “vivere”. Vivere è la
promessa a questo inoltrarsi.
Vivere ha in questa poesia il sapore
dell’incominciamento offerto a mente e sensi dalla tavola o canvas su cui un altro ha fatto Forma alla vita. Umana Forma. Unico luogo e rudimento
dove siamo venuti a incontrarci. Forma che ci ha formati.
(Con trapassi di secoli
o d’anni – mormora un
coro di sodali nell’Arte - in sale di musei, per mostre, negli studi, su
lievi e faticate carte, su illustrazioni indimenticabili, nella racchiusa
prossimità dell’ermeneuta in piedi di fronte alla muta elargizione del segno.
Eravamo lì, siamo nati al senso lì davanti.)
La “vita reale” in Matilde Tobia è questo incontro incessante tra
lo sguardo, la cosa laggiù disperatamente sola, la Forma che mantiene sul
quadro il “maestoso silenzio” di Platone e il chino colloquio che ne guadagna
fiducia, ne ottiene la pronuncia: la Poesia, più reale del reale perché tolta
alla disperazione del reale, quando il reale oscilla laggiù oltre il nome, oltre il senso possibile, dove anche un
cipresso, che non sia nominato o dipinto, è assurdo.
Reale è la Forma data nell’Arte. Reale-per-noi il lemma che la dice.
L’Arte in questo libro non ha perimetro semmai perimetra il mondo,
e il segno – il filo – esce
incessante dal quadro a delineare la Cosa nella sua Forma intitolata, a
recintare nel vero il vero-per-noi:
Quanto pesa lo strumento che hai per costruire ciò che
vuoi creare.
La tua mano, nel rifare i percorsi stabiliti per le
cose che vorrai, poi,
intitolare.
. . . .
Quanto dura la lunghezza di quel nero, di quel filo
che si svolge
all’infinito?
Intitolare è dare il nome e l’Arte nell’intitolare conferisce
niente meno che realtà.
Morandi, Melotti, Burri, Pollock, Rothko, Malevich, Mondrian, Kiefer … la critica poetante inclusa in questo poetare
non è solipsismo di fronte al “maestoso silenzio”che la pittura “mantiene” ma,
nel raccolto colloquio con l’opera dei Maestri, essa è maieutica che dà parola al quadro invitandolo a pronunciarsi
sin nei minimi dettagli:
Eppure,
ancora dici dell’oro della nicchia
che
vibra caldo sotto il blu del lapis,
coronato
da ruote di pavone;
ancora
dici dei marmi verdi di colonne,
ancora
della minuzia degli intarsi
Il quadro è lì a ribadire che lo
sguardo non si conclude nel vedere ma
si apre all’allestire il recinto della visione:
Quando
qualcuno predispone il luogo, sono le cose che possono disporsi
Esemplari sono i lemmi
per Giorgio Morandi che nel dire
il quadro del Maestro ne rifanno in lemmi la preparazione: del tutto franca
dunque la confluenza di vista in
veduta, e della “realtà” nella
sua pre-disposizione avverante.
Qui l’atto del “preparare” le cose a mostrarsi nella luce è fare il recinto, il “quadro”, posizionare
l’oggetto esponendolo al senso, è
sospingere il mondo verso un ordine,
disporlo all’avvento del segno:
sono le cose
che possono sapere
che fare di
se stesse con la luce;
sono le cose
che possono segnare
il
vuoto che rimane, lasciato da un volume
E comprendere la preparazione è “prepararsi”.
La poesia di Matilde Tobia
traghetta la valenza pedagogica e auto-educante di questo infinibile
“prepararsi” a vedere.
Restare in questo atteggiamento
dell’occhio che si autosospende e delega
dal càpere al capire, con-prendere le cose, cintarle, accoglierle.
La realtà è attingibile solo in
quanto già-progetto, preparazione che l’ha
già-tolta alla disperazione infinita oltre il nome. Dove oscilla, alla
luce grezza, il cipresso noumenico.
Portava a un ingresso flagrante
l’intero cammino della preparazione (lemma-percezione-immagine…) e
l’operazione nominante nella muta boscaglia ottica ammette l’inoltrarsi
come incominciamento continuo alla vita, al Presente
essere-presente-nel-nome, là dove la raccolta sfocia alla sua fine-inizio:
T’inoltrerai nel bosco ..
. . .
Ti accorgerai se il tratto di strada che hai percorso
ti ha seccato le labbra, oscurato la vista, tolto il fiato oppure
se hai cantato a gola aperta
Paolo Donini
da Lemmi per uno sguardo
Un principio
C’è il tuo sigillo, in basso. È cosa ferma:
il passo col quale prendi posto,
l’istante col quale prendi tempo,
lo sguardo col quale prendi luce.
È come il primo verso, col quale prendi fiato.
Per poi sapere il mare e non sapere se è un sole, se è una luna.
Fermo sigillo, in alto, per troppa
luce nero.
Lemmi per:
La mer di Felix Vallotton. Musées d’art et d’histoire – Cabinet des estampes, Genève
Nascita di un filo
Quanto pesa lo strumento che hai per costruire ciò che
vuoi creare.
La tua mano, nel rifare i percorsi stabiliti per le cose
che vorrai, poi,
intitolare. Il colore, nel cadere nei sentieri suscitati
dal tuo braccio che si muove.
Il tuo corpo, quando ruota per spiegare la lunghezza di
quel nero,
di quel filo che si svolge, si riavvolge, s’interrompe,
che si aggruma
in un luogo già gremito di materia e luce grigia. Già
colmato
fino all’ultimo respiro di altri pesi di diversa
consistenza, scaturiti
da altri mezzi, movimenti colorati, e già ispessiti, con
l’azzurro, con il bianco.
Con il rosso.
Quanto dura la lunghezza di quel nero, di quel filo che si
svolge all’infinito?
Lemmi per:
Sentieri ondulati di Jackson Pollock. Galleria
Nazionale d’Arte Moderna, Roma
Per una momento appena
È un fiato di magia che ha sospeso in un respiro
come gran soffio di vento ogni anima del mondo.
È un incanto che ha creato una danza senza tempo
che si snoda nell’azzurro e nell’oro del silenzio.
È un raro sortilegio che disegna il movimento
di una luce cristallina che ha rubato al peso l’ombra.
Lemmi per:
Ejiri
in Suraga di Hokusai. British Museum, London
Monocromia
Capisco in tempo il gesto quotidiano:
si butta a capofitto addosso alla sua
ombra e si fa spazio tra le lenzuola
tese un attimo prima che il suo giorno
nasconda il vento e si tramuti in pietra.
Lemmi per:
Lavandaia di Arturo Martini.
Pinacoteca comunale, Faenza
Memorie della retina
Non devi più, ancora,
raccontare, perché hai guardato tanto
da sfinire ogni disegno.
(già sapevi lo splendore del palazzo)
Eppure, ancora dici dell’oro della nicchia
che vibra caldo sotto il blu del lapis,
coronato da ruote di pavone;
ancora dici dei marmi verdi di colonne,
ancora della minuzia degli intarsi,
e appena d’un po’ di vermiglio.
(già conoscevi l’oro,
i lapislazzuli, i marmi, le gemme, le sete.
La musica, la storia)
Così non ti è rimasto che il suo passo di danza
– un piede, solo una gamba avanti l’altra –
da disegnare, a matita.
(e poi)
Al posto di lei c’è il bianco che occupa
il suo spazio e prende la sua forma, esatta, esatta.
Memoria nella retina abbagliata. Esatta.
Lemmi per:
Salomé che danza di Gustave Moreau. Musée G. Moreau, Paris
VI
I L P R E S E N T E
T’inoltrerai nel bosco, in mezzo a due
guardiani, possenti su pilastri
accovacciati.
Ti accorgerai se il tratto di strada
che hai percorso
ti ha seccato le labbra, oscurato la
vista, tolto il fiato oppure
se hai cantato a gola aperta grida e
parole con l’unico tuo passo,
solo quando, passando quel confine, ti
sembrerà di stare su una barca
che scivola guidata dai fanali, sicuri
sulle massime sporgenze, a guardia
dell’imbocco di ogni porto.
Lemmi per mio padre:
Il
bosco sommerso di Enrico Tobia. In Dal
ponte dell’Ariccia, Milano 1962
Matilde Tobia, nata a Roma, dopo la laurea
e gli studi specialistici in storia dell'arte, si occupa di comunicazione
istituzionale. Le relazioni tra parola e figurazione sono il
tema centrale della sua ricerca poetica. E' autrice dei testi della performance
Come in un libro aperto, e come in una stanza andata in scena
alla Reggia di Capodimonte nel 2005 (Quaderni di Capodimonte, n.23, 2005). Nel
2009 pubblica il volume di versi Lemmi per uno sguardo, nella collana
"Opera prima" promossa dalla rivista Anterem. Su sue poesie, il
maestro Enrico Marocchino compone i Lieder Dall'ombra e da lontano, per
la 30^ edizione del Festival di Musica Contemporanea, 2009 e E' una storia,
per il Festival di Nuova Consonanza, 2010. I suoi testi sono in rete su questo sito.
Ciao Stefano,
RispondiEliminache bella coincidenza!
Giovedì sera, passeggiavo per il centro
di Vicenza in compagnia del poeta Marco Giovenale
e altri amici di Artemis. Marco Giovenale vive
a Roma e cercavo di far mente locale dei poeti
romani che già avevo conosciuto. Uno di questi
è Simone Zafferani: ne avevo fatto cenno a Marco per il fatto che Zafferani può essere
confuso, per somiglianza del cognome, con Zaffarano, uno dei poeti dell'Antologia "Prosa
in prosa". L'altro è Matilde Tobia.
In quella passeggiata ho ripensato anche a lei. Poi in questi giorni mi stavo -guarda un
po'- organizzando per fare una visita a Paolo Donini, nella bella zona del Frignano.
Ed ecco che ora, aperto 'blanc', chi mi ritrovo? Matilde e Paolo.
La postfazione di Paolo è di altissimo livello.
Matilde è sicuramente molto soddisfatta di avere
questo scritto nel suo libro.
E la poesia di Matilde, per la sua particolare
caratterizzazione,
merita interventi di questa levatura.
Un Caro Saluto a te,
a Matilde e a Paolo,
armando bertollo
caro Armando, c'ero anch'io in quella passeggiata, ma non ci siamo detti niente della vita di blanc: meglio, così ti ho fatto una bella sorpresa :-)
RispondiEliminaGrazie Guglielmo e grazie Armando! E' vero, lo scritto di Paolo è una bella e giusta postfazione :)
RispondiEliminaScusa Stefano! Ho fatto un bisticcio (e un pasticcio!) col tuo cognome!!! :D!
RispondiElimina:-) l'importante è che finora ci siano state un'ottantina di entrate al tuo post.
RispondiEliminaciao!