venerdì 15 marzo 2013

Da un incontro a Bagni Froy, una recensione di Andrea Zambotto al "Beato confine"



L'estate scorsa, sono stato invitato da Mario Bertasa a leggere le mie poesie in Alto Adige, precisamente a Bagni Froy: un ex colonia termale immersa nei boschi, a 1150 metri di altitudine, dove decine di volontari organizzano una vacanza alternativa, tra escursioni, incontri culturali, e laboratori di ogni genere. Il pubblico offre delle sorprese straordinarie, come questa: la recensione a Come a beato confine, scritta da Andrea Zambotto, persona gentilissima, che non conoscevo. Me l'ha spedita un paio di mesi fa e io la posto con entusiasmo e gratitudine. Qui informazioni su Bagni Froy.

 

Il poemetto Come a beato confine di Stefano Guglielmin mi è parso ad una prima lettura un viaggio, come il titolo pare suggerire. In realtà sottende una dichiarazione di poetica, che nel suo motivarsi assume la forma di un obiettivo: superare quel confine dell’io, entro il quale la tradizione letteraria ha relegato il poeta.
L’intento, configurandosi in più tappe, da un “io terza persona” al riconoscersi in un “noi” ad un perdersi nel “Dappertutto”, può nel suo aspetto formale prospettarsi per l’appunto come un percorso, che nella ricerca d’oltrepassare il confine dell’io, porta a chiedersi, a lettura ultimata, se tale scopo sia poi stato raggiunto.
Però non è il superamento del limite io, a stabilire la legittimità della poesia di Guglielmin, quanto il tentativo, di per sé giustificato dall’intima esigenza di uscire da quel confine, quale presupposto di un altro porsi di fronte alla e nella realtà.
Quindi una metamorfosi in divenire, che nella prima parte del poemetto, dal programmatico io dovrebbe alle successive tappe, aspira ad un noi, (attraversiamo l’orto/ insieme/ la terra le parole il perfetto/ svanire dell’orco/ il suo farsi parte di me/ di te....), che di fatto diventa il confine, dove l’oltre permane spazio dell’assoluto, del mistero, dell’inafferrabile, eterno miraggio al quale necessita dare concretezza, che è il motivo stesso dell’universalità della poesia.
La presa d’atto di una condizione esistenziale relegata nell’aldiquà del confine, non è la notifica di un fallimento, perché, nel progressivo tentativo di rispecchiarsi/riconoscersi in un tu/egli/noi, pur mai definitivamente acquisiti, vi è tuttavia l’antidoto al precipitare nel caos di un io disancorato e frantumato in un Dappertutto, che non a caso titola la conclusiva seconda parte del poemetto.
Questo l’impianto concettuale avvalorato nella prima parte da uno stile nitido, che conduce il lettore nella quotidianità poetica di Guglielmin, vissuta come ardua difficile conquista di una fratellanza necessaria per riconoscere la propria individualità.
Quando manca l’urgenza a ricercare nell’altro da sé il senso del proprio esistere, si prospetta invece l’annichilente solitudine dell’individuo perduto nel labirinto di un oggi, governato apparentemente dalla tecnologia, in realtà dominato dal caos. Un riscontro anche stilistico, perché, a differenza del pacato intenso verseggiare della prima parte del poemetto, le strofe di Dappertutto, dall’apparente struttura grafica ben ordinata, alla lettura rimandano invece ad un susseguirsi di caotici impulsi e rimandi, riecheggiante il ritmo sincopato ossessivo di un’estraniante musica rap.
Si avverte nelle poesie di Stefano Guglielmin una tensione che non insegue facili effetti, né tanto meno appare succube di trascorse suggestioni letterarie, vi è soprattutto la ricerca di un linguaggio capace di testimoniare la complessità di questo nostro tempo.



Come a beato confine (Book, 2003)



da Io dovrebbe

2

io dovrebbe
con la lingua mettere a fuoco
l’esatta dimensione del vuoto
               e stare in bilico sul bordo                    
capro del suo piede



3

io dovrebbe
vagare al laccio d’un cavallo
a dondolo per croste e nervi e
corse d’altra natura
scrivere di quella cosa che la luce tarla



10

io dovrebbe
cavalcare la lama, il passo
l’orlo, così che intera
la deriva sfumi ed in bilico
sull’ora la festa sposti
i sassi in cerchio, l’asse
del dio instabile nel centro


da io fatica e migra

2

alla leva che volta
in luce il vuoto dell’occhio
io preferisce l’orfano gridare
e darsi in cibo a chi soccorre



5

nell’assurdo che crepa
l’ostia e il tempo, io s’invena
come topo in fuga nei sifoni
pregando nella corsa l’ombra
e l’infanzia che riluce



6

io salva
all’inguine e alla lingua
la giustezza delle carni
il cedevole lo sposta invece
nella vena aperta dalla voce



da a nuovo rivo egli s'avvia

1

passando
io trova l’identico frutto
che nel rifugio le foglie
dopo il volo e l’estate



6

sulla lunga scia distratta
alla luce io contende
segreto e golfo
alle parole la volontà del seme


da Noi


1

io seme parola prato
arto malato
io che
io quando
io dunque
e dunque tu
benedetto a sete e fame
a ruggine che in lievito muta
palpito e misura



6

non l’ammaestramento dei folli
né dei fanciulli in fiore
bene invece il nome allo spazio
che trema e insieme
li sposa, a quel tempo
dove esilio e morte
all’infanzia volgono lo sguardo
come ad anello iniziale



da Dappertutto

 chiaro che conoscere il ferro e l’effetto del calore sul ferro il suo diluvio là dove qualcuno veglia il giorno la salita dei titoli il proprio piccolo cuore chiaro che sapere l’effetto del fuoco sulla carne sull’equilibrio della borsa chiaro che tutto questo precipitare lontano sposti il peso la forza dell’occhio ogni suo precedente candore meno evidenti il rovescio che in quelle piaghe spurga e il selvatico che ancora adesso la pietra rilascia


se fosse uno spot se questo testo fosse una voce multipla una spinta a stare in piedi ad applaudire o a piangere se fosse un ordine o l’insieme dei modi in cui stanno le cose se fosse una forma stabile un covo da far saltare se fosse un fosso dove le mani come in principio e le parole e i bambini come in principio s’addormentano se non fosse un filo teso una lingua stesa tra due vuoti somiglierebbe ad un paesaggio in guerra ad un vetro a scaglie dove rilucano primavera e tralcio l’insieme delle pasque da cui muovono i livori











Andrea Zambotto, nato a Padova nel 1945, ha dovuto coniugare la sua irrinunciabile passione per la letteratura con il lavoro di tecnico in una grande impresa di costruzioni idraulico stradali, che dal 1967, dalla permanenza in varie parti d’Italia, l’ha portato a lunghi trasferimenti all’estero: Libia, Algeria, Germania, Romania, Ungheria, Slovenia e Croazia.
Laureatosi nel 1985 in Lettere all’Università di Trieste, dal 1986 ha collaborato con le riviste: Letture, dove ha pubblicato un saggio su Ferdinando Camon e recensioni varie su autori italiani e stranieri; Scienza Duemila con articoli su Konrad Lorenz e l’etologia.
Dal 1988 fino al 2003 le sue recensioni su tematiche letterarie sono apparse sulle pagine del quotidiano Il mattino di Padova e Il giornale di Vicenza, dove in quest’ultimo, oltre alla letteratura, i suoi articoli hanno interessato il cinema e fatti di costume.
Nel 2009 per I Nuovi Samizdat ha pubblicato Sándor Márai dall’oblio alla scoperta di un grande scrittore.

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