L'estate
scorsa, sono stato invitato da Mario Bertasa a leggere le mie poesie in Alto Adige, precisamente a Bagni Froy: un ex colonia termale immersa nei boschi, a
1150 metri di altitudine, dove decine di volontari organizzano una vacanza
alternativa, tra escursioni, incontri culturali, e laboratori di ogni genere. Il pubblico offre delle
sorprese straordinarie, come questa: la recensione a Come a beato confine,
scritta da Andrea Zambotto, persona gentilissima, che non conoscevo. Me l'ha spedita un paio di mesi
fa e io la posto con entusiasmo e gratitudine. Qui informazioni su Bagni Froy.
Il
poemetto Come a beato confine di
Stefano Guglielmin mi è parso ad una prima lettura un viaggio, come il titolo
pare suggerire. In realtà sottende una dichiarazione di poetica, che nel suo
motivarsi assume la forma di un obiettivo: superare quel confine dell’io, entro il quale la tradizione letteraria ha
relegato il poeta.
L’intento,
configurandosi in più tappe, da un “io terza persona” al riconoscersi in un “noi” ad un perdersi nel “Dappertutto”,
può nel suo aspetto formale prospettarsi per l’appunto come un percorso, che
nella ricerca d’oltrepassare il confine
dell’io, porta a chiedersi, a lettura ultimata, se tale scopo sia poi stato
raggiunto.
Però
non è il superamento del limite io,
a stabilire la legittimità della poesia di Guglielmin, quanto il tentativo, di
per sé giustificato dall’intima esigenza di uscire da quel confine, quale
presupposto di un altro porsi di fronte alla e nella realtà.
Quindi
una metamorfosi in divenire, che nella prima parte del poemetto, dal
programmatico io dovrebbe alle
successive tappe, aspira ad un noi,
(attraversiamo l’orto/ insieme/ la terra
le parole il perfetto/ svanire dell’orco/ il suo farsi parte di me/ di te....),
che di fatto diventa il confine,
dove l’oltre permane spazio
dell’assoluto, del mistero, dell’inafferrabile, eterno miraggio al quale
necessita dare concretezza, che è il motivo stesso dell’universalità della
poesia.
La
presa d’atto di una condizione esistenziale relegata nell’aldiquà del confine, non è la notifica di un fallimento, perché,
nel progressivo tentativo di rispecchiarsi/riconoscersi in un tu/egli/noi, pur
mai definitivamente acquisiti, vi è tuttavia l’antidoto al precipitare nel caos
di un io disancorato e frantumato in
un Dappertutto, che non a caso
titola la conclusiva seconda parte del poemetto.
Questo
l’impianto concettuale avvalorato nella prima parte da uno stile nitido, che
conduce il lettore nella quotidianità poetica di Guglielmin, vissuta come ardua
difficile conquista di una fratellanza
necessaria per riconoscere la propria individualità.
Quando
manca l’urgenza a ricercare nell’altro da sé il senso del proprio esistere, si
prospetta invece l’annichilente solitudine dell’individuo perduto nel labirinto
di un oggi, governato apparentemente dalla tecnologia, in realtà dominato dal
caos. Un riscontro anche stilistico, perché, a differenza del pacato intenso
verseggiare della prima parte del poemetto, le strofe di Dappertutto, dall’apparente struttura grafica ben ordinata, alla
lettura rimandano invece ad un susseguirsi di caotici impulsi e rimandi,
riecheggiante il ritmo sincopato ossessivo di un’estraniante musica rap.
Si
avverte nelle poesie di Stefano Guglielmin una tensione che non insegue facili
effetti, né tanto meno appare succube di trascorse suggestioni letterarie, vi è
soprattutto la ricerca di un linguaggio capace di testimoniare la complessità
di questo nostro tempo.
Come
a beato confine (Book, 2003)
da
Io dovrebbe
2
io dovrebbe
con la lingua
mettere a fuoco
l’esatta dimensione
del vuoto
e stare in bilico sul bordo
capro del suo piede
3
io dovrebbe
vagare al laccio
d’un cavallo
a dondolo per
croste e nervi e
corse d’altra
natura
scrivere di quella
cosa che la luce tarla
10
io dovrebbe
cavalcare la lama, il
passo
l’orlo, così che
intera
la deriva sfumi ed
in bilico
sull’ora la festa
sposti
i sassi in cerchio,
l’asse
del dio instabile
nel centro
da
io fatica e migra
2
alla leva che volta
in luce il vuoto
dell’occhio
io preferisce
l’orfano gridare
e darsi in cibo a
chi soccorre
5
nell’assurdo che crepa
l’ostia e il tempo, io s’invena
come topo in fuga nei
sifoni
pregando nella corsa
l’ombra
e l’infanzia che riluce
6
io salva
all’inguine e alla lingua
la giustezza delle carni
il cedevole lo sposta
invece
nella vena aperta dalla
voce
da a nuovo rivo egli s'avvia
1
io trova l’identico
frutto
che nel rifugio le foglie
dopo il volo e l’estate
6
sulla lunga scia
distratta
alla luce io contende
segreto e golfo
alle parole la
volontà del seme
da
Noi
1
arto malato
io che
io quando
io dunque
e dunque tu
benedetto a sete e
fame
a ruggine che in
lievito muta
palpito e misura
6
non l’ammaestramento dei
folli
né dei fanciulli in fiore
bene invece il nome allo
spazio
che trema e insieme
li sposa, a quel tempo
dove esilio e morte
all’infanzia volgono lo
sguardo
come ad anello iniziale
da
Dappertutto
se fosse uno spot se questo
testo fosse una voce multipla una spinta a stare in piedi ad applaudire o a
piangere se fosse un ordine o l’insieme dei modi in cui stanno le cose se fosse
una forma stabile un covo da far saltare se fosse un fosso dove le mani come in
principio e le parole e i bambini come in principio s’addormentano se non fosse
un filo teso una lingua stesa tra due vuoti somiglierebbe ad un paesaggio in
guerra ad un vetro a scaglie dove rilucano primavera e tralcio l’insieme delle
pasque da cui muovono i livori
Andrea Zambotto, nato a Padova nel
1945, ha dovuto coniugare la sua irrinunciabile passione per la letteratura
con il lavoro di tecnico in una grande impresa di costruzioni idraulico
stradali, che dal 1967, dalla permanenza in varie parti d’Italia, l’ha portato a lunghi trasferimenti all’estero: Libia, Algeria,
Germania, Romania, Ungheria, Slovenia e Croazia.
Laureatosi nel 1985 in Lettere all’Università di Trieste, dal 1986 ha
collaborato con le riviste: Letture, dove ha pubblicato un saggio su
Ferdinando Camon e recensioni varie su autori italiani e stranieri; Scienza
Duemila con articoli su Konrad Lorenz e l’etologia.
Dal 1988 fino al 2003 le sue recensioni su tematiche letterarie sono
apparse sulle pagine del quotidiano Il mattino di Padova e Il
giornale di Vicenza, dove in quest’ultimo, oltre alla letteratura, i suoi articoli hanno interessato il cinema e fatti di costume.
Nel 2009 per I Nuovi Samizdat ha pubblicato Sándor Márai
dall’oblio alla scoperta di un grande scrittore.
Nessun commento:
Posta un commento