Ne La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta (Giuliano Ladolfi Editore, 2011) c'è uno spostamento significativo rispetto all'operazione dello stesso Ladolfi quando curò L'opera comune. Antologia di poeti nati negli anni Settanta (Edizioni Atelier1999): là si metteva al centro l'opera, il "comune" che i nati negli anni 70 stavano edificando; qui si mette l'accento sulla "generazione", sul movimento che questa compie: è "entrante" ossia si affaccia anzitutto nella società letteraria, portandosi, scrive Ladolfi, un carico di spaesamento e di angoscia, sconosciuti "durante l'intera Modernità". L'assunto è provocatorio, storiograficamente fragile (si pensi all'angoscia già fortissima nei vociani o, per fare un salto di almeno sessant'anni, al tragico in Milo De Angelis e alla disperazione di Simone Cattaneo, incluso nell'Opera comune); l'assunto è provocatorio eppure sensato, a patto che si riconosca lo "smarrimento tragico della figura paterna" non come una scelta consapevole dei singoli poeti, un rifiuto a inserirsi in una tradizione, ma quale effetto inedito dell'abbandono dei padri nei confronti di questa generazione: mai come ora, infatti, la giovinezza è in pericolo in termini di garanzie sociali e professionali.
Più che di parricidio, parlerei dunque di sentimento
dell'orfanità, che attanaglia questi giovani, collocandoli in un limbo dove il
presente è tutto ciò che procura dolore e gioia gestibili, una volta compreso
che sul futuro non si può più scommettere e che il passato è responsabile di tutto
questo. E' la politica e l'economia a lasciarli soli, non tuttavia la
tradizione, la cultura, e almeno per due ragioni: 1) Ladolfi stesso se ne
prende cura, li studia, li indirizza, evidenziandone, in questa antologia fili
comuni e differenze. E così fanno i poeti chiamati a fare da padrini (Antonella
Anedda e Anna Maria Carpi, tanto per fare due nomi autorevoli). Per non dire di
Matteo Fantuzzi (classe 1979), curatore e sponsor morale dell'iniziativa. 2)
l'antinovencentismo è senz'altro un padre presente in queste poetiche del
quotidiano e degli affetti familiari, privati tuttavia dell'elemento militante,
che costituì la scelta antilirica, per esempio, dei crepuscolari. Oltretutto,
questi giovani poeti, ciascuno a proprio modo, si riagganciano a tradizioni
europee prima che al dibattito italiano del XX secolo, e, di quest'ultimo,
accolgono l'opera anziché l'assunto polemico. Ecco allora che Saba, Penna,
Caproni e certi stilemi della linea lombarda incontrano la canzone d'autore e
un inevitabile egocentrismo postadolescenziale; per non dire dell'importanza
del cinema e, più in generale, della cultura dell'immagine, due esperienza con
le quali sono cresciuti, mangiando nutella e fumetti, maneggiando videogame
prima che fionde o rane nei fossi.
La natura postideologica
della loro parola li porta a entrare senza far clamore, a smarcarsi
senza rivendicare una giustizia comune o un posto al sole nelle antologie
future; a smarcarsi affinché la loro singola voce risalti al meglio, con
urgenza esistenziale ben controllata dallo stile, tendenzialmente asciutto ma
non ermetico, dove le cose hanno il loro peso così come le emozioni, talvolta
in uno scambio reciproco di proprietà, dove è lo spazio a dominare, mentre –
come detto – il tempo sembra scomparso, se non nella sua forma minimalista, di
"piccolo fatto vero" come direbbe Sanguineti, eppure tremendamente
significante.
Bene dunque l'operazione culturale messa in piedi da Ladolfi e Fantuzzi, con l'invito semmai a decidere se credono davvero al quantum generazionale, visto le infinite pinze con cui il curatore tratta l'oggetto (Fantuzzi: "gli autori si giudicano attraverso le opere e non mostrando la carta d'identità"), oppure se la scelta degli under 30 non sia funzionale a un'idea di poesia, quella appunto fortemente emotiva prima che comunicativa (non sono tutti poeti di facile lettura quelli scelti), esperienziale prima che gnoseologica e/o metaliguistica.
Bene dunque l'operazione culturale messa in piedi da Ladolfi e Fantuzzi, con l'invito semmai a decidere se credono davvero al quantum generazionale, visto le infinite pinze con cui il curatore tratta l'oggetto (Fantuzzi: "gli autori si giudicano attraverso le opere e non mostrando la carta d'identità"), oppure se la scelta degli under 30 non sia funzionale a un'idea di poesia, quella appunto fortemente emotiva prima che comunicativa (non sono tutti poeti di facile lettura quelli scelti), esperienziale prima che gnoseologica e/o metaliguistica.
Contiente
testi di: Dina Basso, Marco Bini, Carlo Carabba, Giuseppe
Carracchia, Tommaso Di Dio, Francesco Iannone, Domenico Ingenito, Franca
Mancinelli, Lorenzo Mari, Davide Nota, Anna
Ruotolo, Giulia Rusconi, Sarah Tardino, Francesco Terzago, Matteo
Zattoni (in rosso gli autori
già presenti su Blanc de ta nuque).
Dina Sasso, da Uccallamma
(Voci della Luna, 2010)
Aju na vina
ca sutta a carni nun ci vola
stari:
suli nunn’i pò pigghiari
e idda,
buttana,
acchiana a picca a picca,
picchì vola a luci e u caudu.
Ju a chiamu “l’autostrata”
e u dutturi ha dittu
ca ccon paru di ’gnizioni
si nni cala n’atra vota;
ju però ma scantu:
e suddu fussa a vina poetica
e ddopu nunn’a scrivu cchiù?
[[
Ho una vena / che sotto la carne non ci vuole stare: /
sole
non ne può prendere / e lei, / puttana, / sale a
poco
a poco, / perché vuole luce e caldo. / Io la chiamo
“l’autostrada”
/ e il dottore ha detto / che con un paio
di
punture / si sgonfia un’altra volta; / io però mi
spavento:
/ e se fosse la vena poetica / e dopo non
scrivo più? ]]
Marco Bini, da Conoscenza del
vento (Ladolfi, 2011)
Ogni volta è come mandare un
vetro in frantumi
in un dato frangente, di
fronte all’evidenza
di una rotazione nuova della
Terra, e fuggire
non si può all’infinito,
sgattaiolare come Ottobre
Rosso, sotto il pelo della
notte; e perché non farsi ago
da sotto la trapunta,
trapassare una molecola
alla volta, spuntare dalla
parte del sonno
più sconvolta per disarmarsi
nel mattino?
Perché quel che ti tocca è
incontrare ancora la luce,
quel che ti importa che il
giorno non sia troppo castigo.
Carlo Carabba, da Gli anni della pioggia (PeQuod, 2008)
So, well go no more a-roving
so late into the night
G.
Byron
Sono passati gli anni della
pioggia
e non ho moglie o botte,
siedo allo stesso lume,
dove di notte scrivo, se non
esco.
All’università ho trascorso i
pomeriggi,
qualche mattina — era gennaio
e il bar era deserto,
raccontavi
del modo in cui era morto tuo
marito
(tuo figlio era presente) e io
ascoltavo.
Lo scorso settembre, in
campagna,
la festa dell’inizio
dell’autunno, come
l’avevano chiamata
“che non andremo più la notte,
ecc.”.
Abbiamo litigato in macchina
incerti se partire
quasi un’ora di strada fosse
un viaggio.
Ridevamo al ritorno a cuore
pieno
come se poi davvero
fosse l’ultima volta
e non andremo più la notte.
Da qui sono partito
qui dove non arrivo.
Giuseppe Carracchia, da La virtù del chiodo (L’arca felice, 2011)
A te che cima di bellezza e
mondo
per prima hai colto con mano
sul mio
volto a premura di madre che
va
in fondo e non invano rendo
grazie
al tuo universo, tu seconda
persona singolare che m’hai
preso
ed immerso feconda compagna
universale in te ritrova
grazia
il disperso che impara
il buon uso del sale:
rinsalda a condimento la
ferita
ed evita di confondere il male
col rosso che disinfetta la
vita.
Tommaso Di Dio, da Favole (2003 -2009)
A
volte ho talmente paura di cavare
tutto
dal quadro che lascio delle
ombre,
che hanno l’unico scopo di
chiarire
il concetto della mia luce. Sono
le
ombre della mia paura. La paura che
non
rimanga nulla se non il deserto.
Mario
Deluigi favola
Quando vi incontro tutti,
vorrei dire cose per la strada.
Fermarvi, seguirvi nei vostri
cerchi di pelle.
Erano gli alberi forti, nei
boschi, cortecce e tronchi
crescere di radici;
incontrarsi per le strade
è come cercare le braccia
dentro la terra
scavare fino alla faccia. Io
voglio vedere
come guardate la paura di
stare tutti insieme
qui, nello stesso posto; cosa
è che fa
di un ammasso di tronchi
un bosco.
Francesco Iannone, da Poesie della fame e
della sete (Ladolfi, 2011)
Spesso si viaggia ininterrottamente
seguendo
la circonferenza minima
tracciata
dalla dispersione di una
goccia sull’asfalto.
Come quella volta, era passato
qualche tempo,
tu venivi tirandoti appena la
sciarpa sul collo
i seni li affliggevi con il
peso delle braccia
poi la pioggia colpiva me
che portavo fuori un poco il
naso dalla finestra.
Spesso si viaggia solo se
arriva un vento
a sollevare via dai cardini le
porte
e si ritorna al passo, quello
fisico che lascia
sgonfi i muscoli delle gambe e
strappate le ginocchia.
Sfinito tutto, così, e io,
lieto, contento.
grāmmatologia del possesso
Segnala il complemento oggetto
determinato
strāna cosa questa particella persiana
posta oltre la parola, rā,
to- rā mikhaham, come dire
tu- rā voglio, un modo insolito forse
antico
per dirti che ti voglio
pur reggendo sincero il
TU del volerti intatto da
questo senso
del possesso che nella mia
lingua
gelosamente macchia la tua
bocca.
Oscillano litigiosi i
grammatici
a definire con rinnovatā scienza
la grāmmatica del rā,
che io quando è buio e poche
son
le cose che prendono ad ardere
nella notte
proverò a dirti, rā dell’ineffabile,
come “oro attorno alla parolā”
del possesso così sei trāsmutata alchimia della voce
che mai rāggiunge il nome per intero.
E s’accorda il nome purāmente immerso
nell’oro che l’avvolge
all’oggetto mai a fuoco nella
lingua
nel fondo della gola.
Faremo presto quindi a rāccoglierti
senza macchiarti con le mani,
sottile bocca di rubino,
estrātta da un più antico tempo
che indicare era sublime
solamente con un guizzo dello
sguardo.
Ma cosa sanno i tristi grāmmatici
del disamore di questa luce
che trāspone e srādica
l’Oggetto dalla casa nel suo
luogo
come una bellezza intatta che
mai sprofonda
nel buio della voce?
Cosa saprete mai voi mercanti
di facili illusioni
d’imprigionare il Nome
in una nicchia senza luci?
Parlerò allorā di quest’oro attorno alla parola,
e di come impedirā a me
di dire per intero il tuo
petto d’argento,
pur senza toccarti con le dita
delle labbrā
potrò così infine
accenderti e purificarti nel
fuoco vivo.
Ma queste son cose d’altri
tempi,
e non ci accoglie più la gente
quando spargiamo
magia
per le strāde.
Franca Mancinelli, da Mala kruna (Manni, 2007)
e la ragazza arco
appoggia un piede in aria e
congiunge
costellazioni di non generati
al grido che ha rotto ora le
acque,
appesa la pelle a un ramo
cattura
il vento, è una busta della
spesa
di desideri altrui
svaniti in uno sguardo
nel treno del mio sangue
salite
Lorenzo Mari, da Minuta di
silenzio (L’Arcolaio, 2009)
per Umberto Bellintani
Chiaro rifugio
l’ansa della
parola
la casetta
dispersa
il grande fiume
che va lento
verso casa —
non si capisce
senza l’ardire
di appiccare il
fuoco
in questa golena
(e poi fuoco,
e poi acqua)
l’impossibilità di
dire con secchezza
il momento, di
vivere
il disastro
completo
con poco, eppure
contestare — amare
e a tempo
presente.
Davide Nota, da Battesimo (LietoColle, 2005)
Fui iniziato all’arte
nell’illusione
di portare un po’ di luce a me
medesimo ed al mondo; mi sbagliavo.
Non so di preciso cosa ho
sbagliato:
se certe letture o
quell’erudizione
che ricercavo in biblioteche e
scuole
tralasciando l’intensità che
duole
ad ogni passo sulla riva
impura.
Ma il duri finché dura la
costanza
è già finito, consunta quella
rabbia
aristocratica che mi portavo
sulla
schiena, come un masso, quella
teatrale
messa in scena che è la vita e
non è
la vena, né la poesia…
Ma in questo dopo dopo dopo
guerra,
dove la terra è fragile ed i
piedi
esausti, a prima mattina serra
la voce un diniego soffuso
sotto
pelle, nella carne ardente. E
come
vedi non scrivo più poesie
d’amore,
né rubo rose alle coltivazioni
industriali per donarmi in
qualche modo
un breve lapsus accidentale.
Si va, anzi, si va nell’acqua
sporca,
si continua la ricerca nell’epoca
delle fermezze, delle
decisioni
inesorabili, mentre
inesorabile
per noi è solo il mattino, è
questo
scarno tentativo che nel
sangue
cerca di salire alle arterie,
al cuore.
Ma è un’aspettativa
schizofrenica
che in fondo il fondo di
rinuncia sfiora
spesso, quando a sera per
esempio guarda
il popolo rientrare dalle
feste
al mare, dagli chalet che si
riempiono
di luci e battiti animali: che
si vive
giovani per già dimenticare
qualche
cosa di non visto, non
vissuto.
Eppure il trauma ce lo
troviamo impresso
dentro, come un marchio a
fuoco,
come un battesimo insaputo
che soltanto a tarda notte
conosciamo.
Anna Ruotolo, da Tuttitudine (2009-2011)
Dovremmo parlarne con una
lingua diversa,
o-c-e-a-n-i-c-a
che lasci filtrare cose grandi
e cose piccole
attraverso i cassetti del
mondo.
Questa sarebbe la via migliore
per tutto il tempo.
Qualcuno dice via, way, noi maniera.
Loro vanno, noi abbiamo il
dare da una rete di mani
toglierci qualcosa, aspettare
il ritorno,
il contraccambio. È che ci
trattiene la mano
tesa, le mani nelle mani. Mano
che finisce
e non corre in strada. Mano
che finisce per restare.
Giulia Rusconi, da l’altro padre (2010)
Per Giovanni
seduto
su una panchina nel campo del Ghetto.
Eloì,
Eloì, lemà sabactàni?
Tutti mi dicono che sono una donna
e bella e che ho spalle ampie
gambe robuste di ferro.
«Cammina da sola ora».
Io non cerco che una mano
grande che mi copra tutta la
faccia
non mi faccia invecchiare.
Sarah Tardino, da I giorni della merla (Lietocolle, 2011)
Sono la merla e i suoi giorni,
la maga e l’ombra della rosa,
l’aprile della vendetta sotto
mentite spoglie,
la vita che assalta con un
segno,
il baro salvato dall’ironica
sorte,
la ruota da cui nessuno ha
scampo:
sono la fedele assassina!
A chi darò il mio canto se non
torna Atlantide
dalla schiuma delle finzioni?
Sono la rapina
L’ape regina che divora
Casanova
con un pungiglione di amplessi
e ne fa miele e menzogna per
animare eserciti
di plastica alle porte della
risacca.
Francesco Terzago
Dedica
Cercare
e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo
all’inferno,
non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio
Italo
Calvino,
Le
città invisibili.
Mia nonna mi chiamava tesoro,
lipscén
diceva e mi appoggiava una
mano sulla testa
e mi diceva che era stanca.
Vedi lipscén le stelle
che sono sopra di noi, il
cielo, — l’universo che
non ha confini pensa — a tutte
le cose che ci sono
dentro pensa agli anni che ci
separano e pensa
a quante persone, in questo
preciso momento,
ed è possibile che sia così —
tesoro, lipscén si
staranno parlando delle stesse
cose, e ci sarà una
brutta donna come me che
piange dicendo al nipote
cose come queste. Lassù
vorticando su delle
pietre azzurre come la terra —
che è una pietra azzurra
anche se il suolo è velenoso e
non devi mettertelo
in bocca quando fai i tuoi
giochi, mi raccomando
lipscén, tesoro, e pensa che
siamo degli atomi
tenuti assieme senza un
apparente motivo, perché
siamo fatti così? Fatto sta
che lo siamo. E che
questi atomi ci saranno
sempre, — questi atomi
ci saranno, anche quando io
non ci sarò più, —
in questo modo — e non mi
potrai parlare né
ascoltare. E non ricorderai
più il timbro della mia voce
che ora ti è così familiare, —
né questo volto rugoso
con cui ti addormenti. Perché
mi sarò fatta cremare.
E mi si potrà tenere in una
scatola per le scarpe
se lo vorrai. Ma quegli atomi
lipscén, tesoro, chissà
che il tempo non passi per
essi a una velocità differente,
che per loro il tempo sia ben
poca cosa, almeno
a confronto del nostro. E io
ti aspetterò in una sala
come questa o migliore. E ci
sarà un momento in cui
questi atomi si riuniranno e
io sarò di nuovo qui
e anche tu lo sarai, che nel
frattempo avrai fatto la tua vita,
anche tu morto, passato per la
vecchiaia —. E sarai
di nuovo. E ci troveremo
assieme da qualche parte,
appunto. Tu, io, tua mamma,
tutti quelli che vorranno.
Tutti assieme. E capendo la
cosa incredibile che ci è successa
potremo stare assieme e non
incontrare più la tristezza
di questa vita o il
disfacimento. Sonomolto stanca lipscén,
tesoro. È tardi, sono molto
stanca. O forse saremo
gli stessi. Un’altra volta
come questa,ma non ci ricorderemo
nulla di quello che siamo
adesso. E non avremo da passare
assieme che il tempo che già
abbiamo avuto, e faremo
gli stessi discorsi
rammaricandoci di avere poco tempo,
io ti parlerò per l’ennesima
volta di queste cose, e questo
inverno passerà ancora. E
qualcuno ti chiamerà un giorno
che sarai lontano. Ti chiamerà
per dirti che sono morta.
Ma sarai abbastanza cresciuto
per affrontarlo,
quella voce ti dirà che ho
deciso di farmi cremare.
Prenderai questa notizia come
tutte le cose inaspettate e,
arrivato a casa, ti siederai
da qualche parte pensando
a queste parole che ora ti sto
dicendo. Ho tanto sonno,
mio tesoro.
La tapparella abbassata sta
vibrando e il chiarore
che la attraversa mette un
abaco sul grande tappeto
che ha portato dal magazzino
di sua madre. Lei ora non c’è,
così posso fare i conti con i
miei novemila giorni di vita.
Mi sembra una cosa ridicola.
Un numero tanto grande
per qualcosa di tanto piccolo.
La plafoniera sospesa sul
nostro letto
è un mondo di freddo sporco,
una molle sfera di polvere
inchiodata al soffitto. Su
quella calotta una bufera silenziosa
si flette su un gruppo di
nomadi vestiti d’azzurro,
li vedo lì tutti i giorni, che
non avanzano di un passo.
Matteo Zattoni, da L’estraneo bilanciato, Stampa 2009.
La disperazione di mio
padre
La disperazione di mio padre è
anche la mia
lo ripeto anche in quella, non
inventa nulla
ancora stavolta, la mia testa
trattenuta
come una palla, dalle mie mani
incapaci
di farla scorrere entro la
pista dei birilli
sono finito in corsia e pulsa
il fotogramma
cappello semplice calato e
sciarpa alta
mentre esci borbottando uno
pensa
di arrivare tranquillo alla
vecchiaia e invece…
l’ingiustizia è tutta lì, ma
l’angelo
vendicatore che è in me
se ne sta in un angolo,
acquattato
s’intestardisce ancora a
capire il mondo, lui.
"Poeti nati begli anni Ottanta"... posso leggerlo come un lapsud determinato da felici ricordi di quel particolare periodo? :)
RispondiEliminasì (però ora correggo :-)
Eliminaperò anche "lapsud"... :-)
Elimina:)
EliminaFantuzzi scrive:
RispondiElimina"gli autori si giudicano attraverso le opere e non mostrando la carta d'identità"
certo, dal momento che è lo stile a rivelarli.
alla fine è sempre al NOME che si riconduce un'opera, volenti o nolenti.
che senso ha l'anonimato in poesia?
la poesia è l'espressione del Sè.
infatti, che senso ha? (però leggi "by logos" e poi vediche anche lì il senso c'è).
EliminaFantuzzi dice così però poi fa un'antologia generazionale. Ma lo perdoniamo perché è uno che si dà da fare :-)
Ah, by logos è qui
Eliminahttp://golfedombre.blogspot.it/2006/11/by-logos.html
prova a darmi un senso tuo, se riesci.
Eliminaabbassare il delirio che sta in circolo alla civilizzazione identitaria. Ossia: meno io e più i e o (o cip e ciop, decidi tu)
Eliminaoppure: leggi "Senza riparo" :-)
Eliminaogni cosa con la dovuta calma...
Elimina(anche una recensione).
Oggi c'è una bufera di vento che ha trasformato il lago in una burrasca di onde!
ciao Gugl :)
Alcuni di questi, per me, sono proprio una spanna più in alto degli altri, rasentano il sublime e non credo sia questione generazionale. Grazie del post, Stefano.
RispondiEliminala generazione è entrata, non c'è dubbio!
Eliminadi sublime niente, sinceramente
RispondiEliminaneanche l'anonimato...
Eliminale sto rileggendo e qualcuna mi piace molto, potrebbero essere scritte da una persona di qualsiasi età..
RispondiEliminala poesia è così.
RispondiEliminaInsomma, la poesia non ha età, non ha sesso, non ha dogmi, non ha senso...cosa le resta, quindi?
Eliminala libertà! rispondo io.
che bello :-) Nevica!!!
beh, senso ne ha, però, "libertà" mi piace. (e anche la neve (se sto al caldo)
Eliminase non avesse senso che senso avrebbe?.. :)
Eliminaio sogno una poesia dove non ci sia l'esposizione della propria identità. Una poesia omerica del nostro tempo. In questo senso epica. Sogno una poesia che riesca a raccontare la nostra umanità a cavallo tra due secoli, di noi cinematografici, internauti, urbanizzati, paradossali, ricchi e lamentosamente poveri, in guerra e apparentemente in pace, orfani di padre e con molti molti padri... Nessuna antologia generazionale riesce a farlo. Ci vuole genialità - o un lavoro collettivo di poeti - un lavoro di raccolta di chi abbia la forza di non dire la propria singola identità, di non poetare su quella, ma di parlare con forza corale. Ebbene, sogno una poesia epica del secolo ventunesimo... elena
RispondiEliminaper esserci un'epica (così come la intendi tu) occorre che ci sia una comunità vincente e un'antagonista sconfitta. greci contro troiani, cristiani contro pagani.
EliminaOggi mi sembra che tale dialettica sia improponibile, se non in malafede.
Capisco che tu non hai malafede, ma profondo bisogno di comunità, una comunità degli animi, come direbbe Viviani. Purtroppo viviamo in tempi barbari...
Sì, credo che sia proprio il bisogno di una "comunità d’animi". Il fatto è che mi sembra che con queste operazioni antologiche per generazioni, per origine geografica, ecc.. si creino solo comunità-vetrina. Certo, hanno pure una loro ragione d’essere, ma poi che cosa ne resta?
RispondiElimina... e se la poesia epica del nostro tempo consistesse nella capacità di articolare, di dare parola o, meglio, di coagulare una parola comunitaria, corale per valori etici e civili contro "i tempi barbari"? chissà, ci sto riflettendo. Elena
sì, ma quali sono i valori della parola comunitaria? si può essere democratici e libertari eppure scrivere una poesia piena di piccoli dittatori, pieni di piccoli io pestiferi.
RispondiEliminasulle antologie geo-generazionali: servono a mappare il territorio. il loro valore è perlomeno sociologico e utile a chi facesse ricerca sulla poesia contemporanea.