E' appena uscito: Alessandro Ceni, Parlare chiuso. Tutte le poesie. A cura di R. Bertozzi, S. Guglielmin, M. Morasso, D. Piccini, E. Ritrovato, Puntoacapo, 2012, euro 20,00. Ciascun curatore ha scritto l'introduzione ad un suo libro.
Riporto la mia lettura de I Fiumi.
L'edizione
originale, edita da marcos y marcos nel 1985, non porta alcuna indicazione
biobibliografica e nemmeno l'indice. Stampata in 600 copie su carta Fedrigoni,
a caratteri Garamound, I Fiumi di Alessandro Ceni consta di 42 poesie,
alcune senza titolo, ed è diviso in due sezioni, inaugurate, ciascuna, da un
testo isolato e ordinate a decrescere dal 1983 al 1976. La seconda sezione, 22
poesie, riprende Il viaggio inaudito
(Tosadori, 1981), opera prima.
I più significativi studi sugli esordi
dell'autore fiorentino, riferiscono di una "furia visionaria, alogica e
irrazionalmente dispiegata" sul modello di Dylan Thomas, ma con una
vocazione obliante dell'identità, anziché esaltante in direzione cosmica, un
suo "crudo e sordo rituale di scomparsa", come scrive Daniele Piccini
in Poesia italiana dal 1960 ad oggi (Rizzoli, 2005), riprendendo la tesi
di Raboni e Cucchi in Poesia uno (Guanda, 1980). Remo Pagnanelli, sull'annuario
di poesia della Jaca Book (1986) – citato ancora da Piccini – parla di
"un vortice verbale che strania ogni apparente riconoscibilità mimetica e
la deforma con una forza proveniente sia dalle istanze pulsionali che da una
natura naturans" attraverso "la sua acuminata, immaginosa macchina
metaforico-metonimica". Posizione che non esclude la dimensione cosmica o,
perlomeno, l'idea che la verità si dispieghi nel selvatico divenire a cui
l'identità appartiene, prima di ogni principio individuationis. Al di là
delle differenze che le due interpretazioni mettono in gioco in merito alla
valenza cosmica del poetare di Ceni, la regressione dell'io mi pare evidente e
condivisa da entrambe. Lo si evince non tanto nel prologo, in cui, anzi,
"Io" inaugura, maiuscolo, il dettato, ma già dalla poesia incipitaria
della prima sezione, con quello spazio plurale aperto dalla seconda strofa:
"Da qualche parte in noi / ho sentito ridere / gli alberi ambulare sulle piante", terzina dove anche il
primo verbo – ridere – può essere riferito agli alberi, e il "noi"
non è che uno spazio indefinito, grembo oscuro di un io innominato, un luogo
abitato da una vasta vegetazione ma anche, come recita la voce lirica
immanente, una manciata di versi più in
là, tempestato di "cicogne" [che] precipitano stecchite / picchiando
le carlinghe dei razzi / per far loro perdere la testa". Con ciò
complicando quello spazio naturale con elementi tecnologici
"intelligenti", tramite l'attribuzione dell'organo orientante al
razzo anziché all'animale. Intuizione straordinaria se si pensa che i primi
missili intelligenti saranno usati nella prima guerra del Golfo, nel 1991! Ad
ogni modo tale poetica, "metaforico-metonimica" e surreale
nell'attingere al proprio materiale magmatico, non poteva non trovare compagni
di viaggio nell'orfismo tragico dell'esperienza di "Niebo" e nella
regressione dell'io messa in campo prima dai novissimi e, per altre
ragioni, dai poeti partecipanti ai convegni svolti presso il Club Turati di
Milano, verso la fine dei Settanta.
Poeta dunque in linea con i tempi,
Alessandro Ceni, contemporaneo nella misura in cui ideologicamente fugge la
civilizzazione tardo moderna, e, rispetto alle poetiche, il post-ermetismo, ma
anche lo sperimentalismo materialista delle neoavanguardie, per fiondarsi
invece "dove le tracce vengono subito nascoste dal verde" come scrisse
la Cvetaeva; un verde rancido, il suo, "minacciato dai tonfi" e
salutato da un "lugubre sole", in una dimensione complessiva dove,
come scrive Luca Cesari a proposito di Milo De Angelis, si respira "la
nuda e glaciale evidenza dell'essere, la sua radicale prossimità al nulla"
(Anni '80. Poesia italiana Jaca book, 1993).
Per quanto assente in Parola plurale
(Sossella, 2005), Ceni viene tuttavia recuperato al suo interno nel saggio di
Alessandro Baldacci, Il disprezzo del rimedio: (ri)pensare il tragico,
il quale rileva che in lui "la parola emerge direttamente dallo spazio
della morte, marchiata dal peso della separazione, dalla ferita
dell'esistenza". Ed è bene che ancora una volta si metta in luce la vena
tragica del poetare di Ceni, per distanziarlo dalla falsa impressione che egli
mutui la pratica poetica dall'esercizio liberatorio-rituale della Parola
innamorata, altra antologia di successo in quell'epoca, e forse necessaria,
ma lontana da quel "nulla", che è vortice abissale capace di
risucchiare qualsiasi stabilità, esistenziale e stilistico-retorica, che non
sia la scommessa nella forza della metafora per dire-tradire quel turbinio
metamorfico. E la scelta della metafora quale regina delle figure retoriche,
come sostiene il secentista Tesauro nel Cannocchiale aristotelico, non
soltanto colloca la poetica del Ceni de I fiumi all'interno di una koinè
barocca rivalutata con le neoavanguardie (aprendo così un legame con quella
stagione, almeno sotto questo profilo), ma evidenzia una sua presa di posizione
critica nei confronti della scelta allegorica – promossa, a partire da
quegli anni, da Romano Luperini – che ruota sulla negazione delle poetiche
legate al nichilismo, in nome di una ermeneutica materialista in cui la
consapevolezza del relativismo conoscitivo fonda l'approccio ai testi ma impone
anche, rispetto alla prassi artistica, la rinuncia alla mistica del vero
assoluto, della prossimità con l'essere disvelante che invece accompagna i
poeti legati al simbolismo e all'ontologia heideggeriana. Se la metafora
nomina, sub specie rhetorica, il magma dell'essere, sino a diventarne
figura carnale, l'allegoria nasce già quale critica del reale, forma del
giudizio, ma anche distacco dalla liricità pura, in nome di un prosaico, per
quanto alto (si pensi all'Arsenio montaliano), quale veicolo della
narrazione esemplare. E il percorso complessivo di Ceni, mi pare, consiste
proprio nel traghettare la vitalità della metafora nel pensiero di cui è capace
l'albero allegorico, senza che il primo momento sia assorbito, ma, anzi, operi
nei meccanismi retorici del secondo, esaltandone lo splendore d'ogni singolo
ramo.
Affascinato dal potenziale esplosivo del
congegno metaforico, per affinità elettiva con i migliori poeti della sua
generazione, militanti nell'area milanese a cavallo tra gli anni Settanta e gli
Ottanta, L'Alessandro Ceni de I fiumi, specialmente nelle poesie più
tarde, sceglie di dare voce alla natura diveniente, facendo fermentare i gangli
dell'organico – vegetale, animale ed umano – sino a contaminare il regno
minerale, per riconsegnarli al lettore nel proliferare metaforico-mortifero
della lingua, non per risarcire il non senso del vivere, ma per rilanciarne –
con lo stile – il suo continuo essenziale differire, che ha in sé l'estinguersi
e il rifondarsi, ad ogni istante, della continuità temporale, un biforcarsi che
la poesia segue, seminando tracce moriture ed erigendo effimere, ma necessarie,
epifanie. Gli esempi sono innumerevoli, agiti sia a livello sintattico, come
nella citazione dell'albero che ride (ma anche, fra i tanti, ne I
cuori delle aquile, "Sta irta nelle messi / la camera controvento, /
nel frutteto violabile e crudele del ritorno, / nel fuoco d'acqua che consegue
/ lo scambio dei sicari tra i vialetti") e sia nelle microstrutture
metaforiche mosse dal "gettito / continuo di desiderio", capaci di
liberare dal lutto, al modo della tragedia, per effetto catartico:
"l'alfabeto si consolida in grandine in / solida luce", e, sempre in Bianco,
"hai messo sonagli alla valanga". Ed è appunto il desiderio il fabbro
dei suoi oggetti alfabetici e dei loro aspri suoni, dantescamente infernali, ma
moderni nel loro dare vita ad un'opera circolare, policentrica, in cui non si
salva la lingua, bensì l'umano tramite l'ascolto appassionato del suo rumore,
in una sorta, appunto, di bagno purificatore. Il mito sia nei paraggi e si
mostri ogni volta che il magma tenta di prender forma, di farsi narrazione
comunitaria. Così come si muove in quei pressi la scure, per togliere fiato al
racconto, per riportarlo al chaos delle origini.
Nella ricorrenza
del passaggio di una stella cometa
Ecco
il buio spezzacuori
e i
trampolieri dei suoi sentimenti
dove
un no ancora pende
con
una gamba levata
sopra
l'amante in silenzio
che
ode rompersi
i
biscotti ed assentarsi l'istante:
sbriciolato
sulla superficie
El
così camminava le acque.
Da
qualche parte in noi
ho
sentito ridere,
gli
alberi ambulare sulle punte
con le
cime apparecchiate d'uccelli
spalancati
nel buio,
dai
bisbigli
la
notte notte
e
frusci e susurri e sospiri,
gli scheletri
orribilmente incrinare
per le
fattezze di un tempo e
sperare
sotto il padre mare:
nell'ora
dei sogni veritieri
El
premendo e penetrando
s'avvolgeva
la testa.
Ecco
la bocca piena del loro amore splendente
spunta
sulla boscaglia tremolante del mondo,
finito
il moto
per un
secondo ancora
sbatte
e colpisce la luna,
i
satelliti s'inceppano
in una
vecchia promessa
e
insieme voltano ammainati i venti:
il tuo
abbraccio la spezza
il tuo
cuore è inadatto
la tua
lingua incomprensibile,
El per
non farla diventare
la
sorprendeva.
Da
qualche parte in noi
libero
è uno spazio da alberi,
dove
le cicogne precipitano stecchite
picchiando
le carlinghe dei razzi
per
far loro perder la testa,
le
rotte piangendo s'invertono
passano
il deposito
gli
hangar in cui rulla e s'appronta Saturno
e non
possono prender la Terra,
anzi,
senz'erba neppure: sfiorate
le
leve segrete
le
albe uscivano
ronzando
come dischi,
come
da una ferita mal riparata
il
sonno degli esseri esce in vapore,
ma era
la Terra
che le
partoriva
ed El
col buco nero le divorava,
il
finto pescatore assopito e andato di sotto
spezzando
la lastra del mare.
Ecco
se il gran Sole e se l'Immenso
non
fossero
ma
fosse soltanto
lo
scampanìo delle mani
quando
ci si saluta
e il
missile puntato, la navicella degli atomi,
i
motori che più non ci abbandonano
e
vertici linee che incessanti proclamano
d'ossidiana
e lapilli la fattura del cielo,
l'altro
mare a specchio
d'anemoni
e formine, e in
questo
nostro scrutiamo
di
quello la pomice lunata,
la
semplice fosforescenza degli astronauti:
il
lento verde e
fluitare
dei canali,
limo
che mai vide e capì
minacciato
dai tonfi
e di
tuffi dalle massicciate,
o
suono delle parole che non si dissero,
i non
visti abitatori
in
ascolto del vento che mai spira,
picchettati
per i capelli
come
Lilliput
dalle
alghe e dai molluschi,
desti
ai bengala dell'Asino e del Bue
e al
mugghio del Bambino contro le stanghe:
da
qualche parte in noi,
i
marziani immobili osservano
sostare
il nuoto innamorato degli sgombri
e un
lugubre sole accomiatarsi,
cerimonioso,
temperando un legnetto,
coi
volti pensosi trascolorano
ai
nomi delle fidanzate terrestri,
lontane
lontane e
rifiorite
per loro nei loro cuori verdi:
El
soffiò in un'onda di vetro
una
sfera
perché
anche quel poco soltanto non fosse.
Bianco
I morti
si rivoltano alla morte,
babbo
Inverno, nessuno rifiata
la tua
controparola d'ordine, ma
l'alfabeto
si consolida in grandine in
solida
luce,
resta resta
resta
solo
tra i pattinatori sull'acqua che
molti
soli cadono come monete, e
la
velocità è un passo falso
in
questo stato dell'anno:
il
crac dal bosco e il
cane
abbaia una sfera di stupore ai
falconi
di rientro negli occhi, gli
insetti
dormono in gocce d'ambra e
tutti
i ripari sono anime, le
erbe
gelate nello stomaco del bue
e il
salmo della neve
dove
amanti si stendono, non
sai
più se per spirito o sorriso, hai
messo
sonagli alla valanga
e lo
stagno brina:
inciso
in un dente d'aria,
graffiato
dai battenti,
me che
inquieto delimita
impianta
e coltiva la foresta,
v'inchioda
la mappa degli animali,
il
cigno prima freddo sul
vassoio
poi alto sulla palude e
ora,
se ti voltassi, alla deriva sullo
specchio
l'orma grossa del respiro trattenuto
o una
figura lontanissima
con la
capanna ancorata al fianco non
ricordo
non ricordo non
ricordo
il bisbiglio della notizia buca:
volano
a forma di calice,
a lupi
di stormi a passeri di branchi
e
sibilano bibliche pietre nella corrente
e
narrano e non affondano
per
affrettarmi ad amare,
ultimo
minuto che sfigura,
stridìo
in vista, e
pensa
disporre un pensiero
infrangere
le leggi
entrare
le porte
oscuramente.
II cielo della
terra
Incominciando
col
pane che piange nel laboratorio,
aureolato
di ricordi, osservato nel sonno,
cotto
in gennaio al fuoco della domanda
nel
buio col buio da una tovaglia d'uomini col fulmine
all'attacco
della foglia, al cuore dell'annuncio:
soltanto
le donne gravide pendono in aprile.
Crediamo:
il mio
occhio soffia sul taglio che
le
braccia rimandavano al petto, è qualcosa
di più
del fiume rincorso dal puma in sogno stanotte
o del
cadavere lodato nelle frasche che si spaglia,
frizza
contro la pioggia beccheggia tra
gli
scogli, la pietra focaia la roccia.
In
ultimo
tutte
le tenebre pongono la testa all'ombra
di un
loro unico piede, gli uomini in separate
doglie
salgono scendendo un ponte,
verso
una cuccia d'oro e una volontaria catena
di
carta, l'orrore dell'amore, la perdita del nome,
e il
mare sicuramente comincia e s'apre.
**
Solo i
prossimi fiumi e il grano,
domandano
i freni alle mucche nelle stalle,
catturate
da un filare di vita
traducendo
pianto a forza di pugni
in
goccioline di notte e in sangue di mosto,
innaffiate
da dolore in agguato,
testimoniano
che le case aprirono i fianchi
come
partorienti frugate da luci impazzite,
regalarono
fedeltà.
Gli
uomini dentro di loro non vedono,
gli
occhi danno occhiali di terra
che
sbracciano per prova
in un
vagone di lampadine e rimpiangono
la
testa dell'amore sotto la rete
del
letto che arde in croce disteso.
Solo i
prossimi fiumi e il grano,
isolati,
nessuno non colpevole,
adatti
a mescolarsi, ondeggiano
le gambe
di una spia che avverte.
Alessandro Ceni
è nato a Firenze nel 1957.
In poesia ha
pubblicato: I fiumi d'acqua viva, in "Poesia Uno", Guanda,
Milano 1980; II viaggio inaudito, Tosadori, Riva del Carda 1981; I
fiumi, Marcos y Marcos, Milano 1985 (2°ed. 1990); La natura delle cose, Jaca
Book, Milano 1991; II pieno e il vuoto (antologia a cura di R.Carifì con
una nota di P. Bigongiari), Marcos y Marcos, Milano 1995; Tra il vento e
l'acqua (autoantologia e riflessioni), Edizioni della Meridiana, Firenze
2001; Mattoni per l'altare del fuoco (riunisce le plaquettes: Nel
regno, NCE, Forli 1993; La realtà prima, I Quaderni del Battello
Ebbro, Porretta Terme 1995; Ossa incise e dipinte, L'Albatro Edizioni,
Porto Sant'Elpidio 1999), Jaca Book, Milano 2002; La ricostni^ione della
casa, Poesie scelte 1976-2006, a cura di D.Piccini, Effigie Edizioni,
Milano 2012.
Come saggista: La
sopra-realtà di Tommaso Landolfi, Cesati Editore, Fkenze 1986.
Ha tradotto,
per grandi editori, S.T. Coleridge, E.A. Poe, John Milton, Charles Brockden
Brown, Oscar Wilde, R.L. Stevenson, Joseph Conrad, Djuna Barnes, Lewis Carroll,
D.H. Lawrence, Edith Wharton, Herman Melville, Walt Whitman, Charles Dickens. Oltre che poeta è pittore.
un ottimo poeta la cui scrittura dovrei frequentare di più. colpa mia. grazie Stefano per ricordarmelo!
RispondiEliminaun abbraccio
la prossima volta ricordati anche di firmare :-)
RispondiEliminaciao!