La critica letteraria è
un'avventura del pensiero e dell'immaginazione. Quella non accademica, si muove
senza recinti, in piena libertà metodologica.
Luigi Bosco, direttore di Poesia 2.0 ha letto le mie poesie presenti in
C'è bufera dentro la madre, scegliendo la forma racconto. Le parole in
corsivo sono citazioni decontestualizzate. Il resto è una premonizione di
Luigi, ottimista come sempre :-)
Madrid, 28 Aprile 2075
Se decise di cominciare dalla
merda è perché doveva essercene in abbondanza - o di corpo, in quegli anni.
Oppure, la merda solo rappresenta una primitiva nostalgia - del corpo, dico –
che ebbe inizio in quegli stessi anni del delirio
della specie, come una intuizione.
Rovistavo in soffitta tra le cose
del nonno e in una cassa, sepolto da una quantità amazzonica di libri carte e
scartoffie, accanto ad una YOST Typewriter n. 20 impolverata, ho trovato in un
cartone questo aggeggio da museo,
con monitor e tastiera ancora funzionanti, con cui sto scrivendo a vanvera ora,
senza sapere bene perché o per chi.
Ho cominciato a tirar fuori i
libri ed i volumi dalla cassa, cercando di incolonnarli secondo quell’ordine
che, guarda caso, avrei bisogno di dare al più presto alla mia esistenza. Non
riuscendo a trovarne alcuno, mi sono arreso piuttosto presto e, senza
risentimenti, ho cominciato a spolverare meccanicamente le copertine, per poi
abbandonarle nel primo rettangolo libero del pavimento, mai più distante della
lunghezza del mio braccio.
Sotto la polvere il titolo era C’è bufera dentro la madre. Più di
cinquant’anni fa. Ho riconosciuto la promessa dal titolo, la profezia, la
potenza. Poveri figli, ho pensato - povero me.
Qui fuori è un casino: mia madre
è pazza, la terra trema e quella troia mi ha pure lasciato. Comincio a leggere
della merda e penso: nessuna metafora oltre la metafora. D’altronde, nemmeno
somiglia a un vezzo: bisogna immaginarsela la scena: il ventre sguinzagliato
che rilascia monetine come ploff, ploff, ploff. E profumo, anche. E poi il ramo, appesantito e senza frutti, che
s’affloscia a testa in giù come se volesse suicidarsi, suicidare la specie nonostante irrimediabilmente
qualcosa lo tenga ancora legato al corpo che gli fuoriesce da dietro, riversandosi sulla tazza del
cesso come una escrescenza oscena.
Tutto questo corpo ha un effetto
nauseabondo: forse perché non sono abituato ormai, con i chip impiantati fin
dentro l’ippocampo. O forse perché è un corpo senza la ghisa su cui tutto cresce. All’improvviso, è come se lo
sentissi, come se ne recuperassi gli ostacoli, i confini, le bassezze.
Questa la storia, il dramma: si
tocca continuamente il ramo e
m’immagino i sussulti dell’adipe flaccido della scrofa col fuscello che si
sbatte la balia straniera irregolare, nella stanza appena riordinata,
insudiciata da sconfinati grugniti.
Alzato il livello del mare, gli si stirano solo le pieghe del
cazzo, perché il grasso in eccesso, se c’è, non lo toglie nessuno: il corpo grava, infatti. Però lui non lo
vede, o fa finta, e nemmeno alle ceneri smette di ingrassare. Anche se capisce che la vita svacca, si sente bene, salta di lato e affoga col ramo nei suoi trentasei secondi di
gloria sfiatando pressione,
mentre gode.
Ha una moglie a cui di rado mostra la piaga: la vorrebbe perfetta e non accetta che scolori via
via: coniuga per questo i verbi al
presente, ma lo scarto si vede: non funziona: l’animale lo squassa da sotto, ha bisogno d’altro.
Mentre leggo mi chiedo chi sia
questo abominio che unge le buste ai
tavoli e semina piombo,
e poi la domenica versa l’acqua sul
capo, filtra l’anima in parrocchia.
All’improvviso ricordo la storia
“politically correct” studiata a scuola e le aneddotiche pause dall’Alzheimer
del nonno e mi chiedo se non stia leggendo ora una fenomenologia del soggetto
degli anni del berlusconismo.
Io non c’ero, però so che
provengo da lì: so che sono il figlio di una balia irregolare e che mio padre
ha sepolto la sua maschera buona nel
bosco; so che chi mi ha preceduto avrebbe voluto giardini intorno, e invece ha fatto crateri. So anche che talvolta gli cantava una festa nel ventre e che non
la sentiva, e che talvolta gli si insinuava un
larvale tormento che non fu sufficiente; so che strisciava sul colmo del bene quando smetteteva di stare a vedetta, ma senza affondare.
So che con in capo l’elmo a credito e indosso la spocchia di chi ha i numeri migliori, chi mi ha preceduto ha
fatto la festa a tutti, mangiando, e le pulci ai beni; ha pagato da bere ai cani.
Ora so che se avesse studiato i modi finiti ed infiniti di spinoza; se
avesse insabbiato il perno che lo lega
alla pancia del denaro; se avesse saputo che il crepo è totale, che smangia i bordi anche al nido; se solo
insomma avesse inorridito, forse mia
madre non sarebbe stata pazza mentre fuori tutto trema.
Ora, torna indietro e rileggi, dice il libro. Il nonno forse non
l’ha fatto; il nonno forse non si è accorto che si parlava di lui o ha fatto
finta: ha chiuso il libro, ha sospirato. Per questo io ora sono l’incarnazione
della profezia, della promessa: c’è
bufera dentro la madre – poveri figli, povero me.
Luigi Bosco, pugliese, classe 1982. Dopo
la Laurea in Psicologia ottenuta presso l’Università degli Studi di Bologna, ha
vissuto a New York, Boston e Londra. Attualmente risiede a Madrid dove, nel
tempo libero, lavora come analista e pianificatore media. Scrive ma,
soprattutto, legge. In perenne ricerca della propria voce, ha pubblicato sotto
pseudonimo vari testi apparsi in antologie edite dalla Giulio Perrone. Poetarum Silva (Samiszdat 2010) è l’ultima antologia in cui
compare come co-autore, e che prende il titolo dallit-blog collettivo di cui ha fatto parte come co-redattore. Altri suoi testi si possono leggere sul blog diFilosofipercaso
questa sì che è una via interessante per mettere i libri alla prova: al di là di ogni posizionamento nel campo letterario, testare quello che si reputa il loro contenuto di verità in un possibile che risponde a una radicale pretesa di futuro (parimenti, alla radicale consapevolezza che non saremo noi a giudicare noi stessi). bella intuizione, Luigi; e sono felice di condividere con te la passione per questo libro di Stefano (che non a caso proprio in questi ho giorni ho segnalato fra i miei preferiti degli ultimi anni sulla rubrica di Poesia 2.0.).
RispondiEliminaun saluto a entrambi,
f.t.