La poesia di David
Maria Turoldo è poco presente in rete, ma anche su carta non è facile
incontrarla. Forse perché il poeta friulano non ha mai frequentato consorterie,
bensì esercitato una militanza civile, come sacerdote e come poeta, e un intimo
confronto con l'assoluto, due pratiche che offrono poco spazio alle faccende
mondane e alle preoccupazioni di marketing. Di fatto, la sua poesia parte
dall'evidenza della sofferenza in terra, di un male di vivere dovuto alla
povertà e all'ingiustizia, convincimento che lo avvicina a Pasolini, come
rilevò Zanzotto prefando O sensi miei... Poesie 1948-1988 (Rizzoli,
1990), ma anche alla propria biografia, elemento che permea l'intera
sua opera. Sotto questo aspetto, Turoldo è molto vicino ai fiumi
ungarettiani, che si respirano nei seguenti versi ("Siamo un albero
divelto, scuoiato" di Pietà per le nostre anime) e in "O
fiumi, almeno vuoi rispecchiate / la mia bellezza non vana" del poemetto Pianto
della figlia di Iefte, per non dire de Il mio fiume, "fiume del
mio Friuli [...] simile a un selvaggio battistero", che ricorda "Mio
fiume anche tu" sempre di Ungaretti, nel Dolore. Il verso citato da
il mio fiume, unisce Friuli con battistero, radice e profezia di una
vocazione al servizio (Turoldo fu un Servo di Maria, ordine mendicante e
cosmopolita), servizio che diventa ben presto sdegno verso una civiltà
"sempre più orrenda", dalla quale egli non fuggì ma cercò di educare,
con sermoni e poesie, soprattutto a partire da Il sesto angelo (1976),
libro cardine del suo impegno e prezioso perché, oltre a denunciare la diffusa
ingiustizia e le mediocrità della Chiesa cattolica apostolica sua
contemporanea, spiega le ragioni del suo poetare. Poesia è, per lui
conventuale, "spazio di libertà assoluto" e canto della disperazione,
la quale si coniugò sempre con il misticismo, con l'idea che credere fosse
"entrare in conflitto" anzitutto con Dio, "smisurata vastità
[che] ci opprime", "aggressività inesausta" e tuttavia somma
"pazienza" cui chiedere un aiuto per gli uomini affinché possano
salvarsi in terra. L'altra interlocutrice è Maria, madre e figlia di quel
Cristo che egli definì "colui che fiorisce sotto il sole", sorella
maggiore, per spirito di sacrificio, dell'adorata madre terrestre, donna di
fede e di speranza. Entro queste due dimensioni, quella oppressiva della Storia
e dell'Assoluto e quella entusiasmante di una "semplicità agognata e
impossibile", trova spazio la scrittura, un esercizio di purificazione
camminando sul ciglio dell'abisso, un immergersi nella storia, in mezzo agli
uomini di oggi, nuovi trogloditi di prossime città-caverne, come li definisce
ne Il grande male (1987). Libro in cui il suo impegno civile si fa
esplicita denuncia della violenza tardonovecentesca: "E voi distruggete
gli altari / di tutti i 'Militi ignoti', / gli 'Altari' delle patrie. // Dopo i
bambini del Vietnam, / e i bambini del Salvador / e quelli di Tall-El-Zaatar...
// E ancora i bambini di Beirut; / nubi di fantasmi bianchi / che velano il
cielo".
Un poeta del
genere, sabiano nel desiderio della fusione con la calda vita (vedi A terza
nei Salmi penitenziale per la settimana Santa del 1946), ungarettiano
anche nel suo amore conflittuale verso Dio, pasoliniano nell'anteporre il
cristianesimo al cattolicesimo, la natura alla cultura, San Francesco ai Papi,
vicino al Nuovo quanto al Vecchio Testamento, leopardiano nell'intimo ("il
poeta che più sento oggi (ma forse sempre) è proprio Leopardi: lui come voce
umana, lui come condanna assoluta, voce senza scampo, così disperata e lucida"),
moderno nella ricerca di essenzialità stilistica eppure ricco d'amorevole
sensualità e metafore di felice carnalità, in ciò allievo del Cantico dei
Cantici, un poeta così attento al presente e così disarmato eppure
autentico nell'interpretarlo, può mai essere ignorato dalla cultura italiana
contemporanea?
A Terza
A me un
paese di sole
una casa
leggera,
un canto
di fontana
giù
nel
cortile.
E un
sedile
di pietra.
E
schiamazzo di bimbi.
Un po' di
noci
in solaio,
un
orticello
e giorni
senza nome
e la
certezza
di vivere.
Prigionieri del tempo
Nel vasto
silenzio sul tetto delle case,
accovacciato
fauno
attendo
che tu compaia, Signore.
Un
presagio di bufera
riprende a
rombarmi in cuore.
Non una
parola sale da tutta la città;
e le rade
lampade sembrano gridare
ai
solitari pellegrini della notte,
quasi
anime di morti risospinte indietro
dall'imminente
temporale.
Ma di Te
ancora non un segno.
Le mie
ginocchia sono cocci
di
montagne franate
nei secoli
dei secoli e la terra
una stanca
nave. Oh, quanto,
Signore,
la Tua smisurata vastità
ci
opprime! Lasciaci
prigionieri
del tempo, della luce,
lasciaci a
questa precisa esistenza,
alle cose
tangibili, come i fiumi
entro dighe di pietre.
Litania del deportato
Non più un verso ampio e
disteso
come il primo volo di falco
sopra la pianura
dell'infanzia;
non più un canto fermo
nell'estasi delle sere.
Tutto è franato nell'orgia
necessaria.
La coscienza m'ha dato un
nome,
spogliato come un albero
dopo la tempesta,
dall'incanto
di sentirmi libero.
Gli uomini mi hanno appeso
il piastrino
che brilla, nella marcia,
sulla giacca grigia.
Siamo creature incatenate
entro un paese di pietre
e di strade senza cielo!
Siamo sassi della
creazione.
Dio, più non chiedermi
d'essere
verticale. Ora diverso è
l'urto
dei Tuoi venti; non regge
il mio peso insopportabile
d'uomo
alla Tua aggressività
inesausta.
Così, abbattuto, eviterò lo
schianto
che Tu vai preparandomi:
non vale cercare più il
rischio
che non abbiamo scelto.
Abbia, dunque, il Tuo
volere
compimento pieno - la Tua
creazione violenta! - e
passa
sul nostro sudore di
sangue;
e l'attrito non abbia più cifra.
Nessuno più rompa la rotondità
della sfera. Più non sarò
la punta che Ti fa sanguinare.
Non chiedermi della Tua legge.
Una pena sola ora per la pianta
divelta, per la pietra lavata
dal fiume e per me stesso.
Attendo che l'uragano abbia fine,
come la quercia
che l'ultima radice si franga.
Mandami, Signore, la morte,
o Amore, non chiedere più nulla.
Fanciulla chiara
Io non vidi fra tante
dimore
pareti sì candide
e in giusta misura di luce
le linee piegarsi docili
e l'atrio sorridere
agli augurali segni di
Zodiaco.
Svariano colori in abiti
nuziali
e compongono amore sulle
porte
sui divani sulle anfore...
e poi il mare a tutte le
finestre.
Non giorni solari o notti
di luna io chiedo,
non giardini di gerani sul
colle,
non questa casa fra palme e
mimose
che mi apra ad ogni fuga le
porte.
Non tanto, non questo a me,
uguale a quel fico d'India
irsuto, giù dai gradini,
o al groviglio
impenetrabile
d'agavi senza fiore.
Non amici, non musiche
cerco.
La gioia io chiedo e grido,
assenza d'ogni paura, la
gioia
fontana cui si dissetano le
colombe:
come noi nell'infanzia
quando mangiavamo il pane.
Fanciulla chiara,
occhi dei meli e delle fonti,
figlia del mattino del mondo
uccisa dal nostro rifiuto.
(E intanto chiamo invano i fiori per nome
ed offro il volto sconfitto
al sole obliquo sul mare
dalla deserta panchina di pietra.)
Voglio parlare con te, o papa
Voglio parlare con te, o
papa,
nuovo appena in apparenza
(quanto le speranze
al tuo apparire).
Invece subito antico,
come la Sfiducia e
l'Illusione:
antico, di sempre, e
neppure
venuto di lontano.
Ma gli umili continueranno
a crederti,
- i poveri di San Salvador
e Nicaragua
e Guatemala - gli infiniti
poveri che tu non salverai.
I Potenti sono tornati
sicuri
poiché nulla muterà,
né il Palazzo segnerà una
crepa...
E grideranno le «favelas»
di tutte le capitali
ancora più disperate:
«Venga il tuo regno».
«Sì, Gesù, venga il tuo regno»
risponde il silenzio
dalle fosse degli uccisi.
Mio prefazio a Pasqua
Io voglio sapere
se Cristo è mai stato
creduto,
se l'evento è reale
e presente,
se è venuto, e viene e
verrà;
o sia appena un'invenzione
per un irreale giorno del
Signore
di contro al cupo
giorno dell'uomo.
Io voglio sapere
se veramente qualcuno crede
e come è possibile credere:
se almeno i fanciulli
— avanti ogni cultura —
vedono ancora la faccia del Padre.
Io
voglio sapere
se
l'uomo è una fiera
ancora
alle soglie della foresta:
se
la ragione è una rovina
se
i fatti hanno una ragione
se
la ragione è ancora utile.
Io
voglio sapere
se
ci sono ancora gli assoluti
o
se io sono sacerdote
di
colpevoli illusioni,
se
è vero che saremo
finalmente
liberi
se
saremo ancora liberi
se
saremo mai liberi.
Io
voglio sapere
se
cantare è ancora possibile
se
da ricchi canteremo ancora
se
dipingere è ancora possibile
se
la bellezza esisterà sempre,
se
possibile sarà ancora contemplare.
Io
voglio sapere
quale
sarà l'intelligenza
di
un abitante della futura megalopoli
quale
il potere spirituale di resistere
se
sopravviverà ancora l'amore,
se
pure è mai esistito.
Io
voglio sapere
se
resiste ancora Cristo,
perché
io mi ammazzo.
Io
voglio sapere
se
la vita è solo meretricio
se
il vostro vivere è appena una difesa
contro
la vita degli altri:
se qualcuno, almeno qualcuno
crede
che tutti gli uomini
sono una sola umanità.
Perché non si libera dalla
ragione
e non rinuncia alle
ricchezze
per questa sola ricchezza
di gioia?
Perché non da fuoco alle
cattedrali,
non abbraccia ogni uomo
sulla strada
chiunque egli sia,
per dirgli solo: è risorto!
E piangere insieme,
piangere di gioia?
Perché non fa solo questo
e dire che tutto il resto è
vano?
Ma dirlo con la vita
con mani candide
e occhi di fanciulli.
Come l'angelo dal sepolcro
vuoto
con la veste bianca di neve
nel sole,
a dire: «non cercate tra i
morti
colui che vive!».
Mia chiesa amata e
infedele,
mia amarezza di ogni
domenica,
chiesa che vorrei impazzita
di gioia
perché è veramente risorto.
E noi grondare luce
perché vive di noi:
noi questa sola umanità
bianca
a ogni festa
in questo mondo del nulla e della morte.
Amen.
qui la lettura di Daniele Santoro
Caro Stefano, sì, purtroppo su Turoldo c'è in giro davvero poco (o piuttosto non quanto dovrebbe esserci) ed è un grande dispiacere sapere che un poeta di una tale energia creativa e intellettuale non abbia guadagnato finora quella visibilità sulle principali antologie della poesia contemporanea. Io ne ho una (voluminosa), curata da Ferruccio Ulivi dal titolo “Poesia religiosa italiana. Dalle origini al ‘900” della Piemme Editore che dedica un’ampia scelta di testi al poeta di Coderno, preceduti però da una scarna nota bibliografica; manca una riflessione critica sull’autore; idem per quanto riguarda l’einaudiano “Poesie di Dio”, a cura di Enzo Bianchi (un’accozzaglia di soli nomi, seppure interessante la prefazione del biblista). Se posso segnalarti, mi sembrano interessanti gli interventi di Erba e Zanzotto al volume “O sensi miei…” della Bur, che sicuramente possiedi: un ottimo quadro di insieme per conoscere Turoldo, ma non definitivo, perché non contiene le sue prose e le sue ultime raccolte. Una provocazione sulla sua non visibilità? Non sarà che era scomodo alla stessa Chiesa ufficiale? Quanto a me, sì, mi sono interessato tempo fa di lui (il mio intervento si limitava ad un aspetto certo insolito, che è la dimensione mistica, così presente in Turoldo e poco, secondo me, presa in esame; se ti va, puoi leggerlo sul sito di Poiein, anzi mi farebbe davvero piacere, non fosse altro per condividere con te l’amore per questo geniale friulano; pertanto, mi fa davvero
RispondiEliminapiacere che tu gli abbia dedicato un meritorio intervento sul tuo blog. Un abbraccio. Daniele
“Siamo sassi della creazione.
RispondiEliminaDio, più non chiedermi d'essere
verticale
“
bello trovare questa ottima disamina
“Poesia è, per lui conventuale, "spazio di libertà assoluto" e canto della disperazione, la quale si coniugò sempre con il misticismo, con l'idea che credere fosse "entrare in conflitto" anzitutto con Dio,[...]”
e grazie per la proposta di poesie che non conoscevo. In particolare colpita da “Voglio parlare con te, o papa” (che mi piace anche come forma, rimane adesa al quotidiano e lo canta, parlando a Dio appunto in maniera indiretta, interposta, e questo gli consente di mediare-meditare rispetto al tono che per es. compare in “Mio prefazio a Pasqua”), una poesia dal rischio fortemente retorico che non è mai retorica cmq-
Ciao!
cara Margherita. sul papa, Turoldo ha scritto molte poesie, nessuna conciliante. "Mio prefazio a Pasqua" la trovo il migliore augurio che si possa fare a chi davvero crede, prima che alla resurrezione, alla responsabilità individuale di fronte al futuro del nostro mondo.
RispondiEliminaciao!
chiedo scusa per lo sfondo variabile delle poesie , ma la nuova piattaforma blogger ha variabili che non ho ancora compreso.
RispondiElimina"Poesia" dalla raccolta "Nel segno del Tau" (1988)
RispondiEliminaPoesia
è rifare il mondo, dopo
il discorso devastatore
del mercadante
(D.M. Turdoldo)