martedì 25 ottobre 2016

Paolo Donini su "Ciao cari" di Stefano Guglielmin





Nelle traiettorie dei poeti c’è quasi sempre un’acme di confronto frontale con la morte.

Questa ospite sotterranea di ogni scrittura e ogni forma d’arte, pur abitando preferibilmente sottotraccia nell’opera,  a un tratto scoperchia la superficie del testo e mostra il suo antico volto ossuto, fissa l’artefice in faccia.

Nel cammino poetico di Stefano Guglielmin Ciao cari è presumibilmente la raccolta incaricata di pronunciare questo sollevamento della morte sopra il livello della testualità.

Ma mentre in molta letteratura e poesia il confronto si produce nei termini del lutto, epicedio o elegia, oppure in una soffocante perlustrazione dei perimetri terminali della finitezza, in Ciao cari, sin dal titolo, il tema della morte risulta complanare all’accadere stesso della scrittura.

E la poesia, epigrammatica e confidenziale al tempo stesso, compie una traduzione bipolare dalla terra dei morti all’esperienza dei vivi o meglio,  degli ancora viventi, senza che tra le due si frapponga la dismisura di un’eternità.

L’ancora vivo infatti parla ai già morti condividendo il dono di quell’ancora, come se tra i due vi fosse complanarità esistenziale e non iato. Straordinariamente, con il suo timbro poetico egli li trattiene in colloquio sulla soglia, per quanto trasparsi ormai da raggi nullificanti.

Domina i testi un tono di allocuzioni mai finitive, tanto meno celebrative bensì pacatamente quotidiane, in fieri, affermativamente interroganti e perciò aperte al risuonare pur impensabile di una risposta.

E i vari episodi, sviste, manchevolezze rimasti irrisolti nella relazione amputata dalla scomparsa di uno dei due interlocutori, vengono trattati come ancora passibili di sviluppo, di chiarimento e restituzione.

Il segreto di questo libro, nella sua prima sezione, è forse l’inattesa comunicabilità di vita e morte, la familiarità superstite, pacata e piana, tra chi parla nella luce e chi nell’ombra tace, in un silenzio vicinissimo, da una stanza che pur  serrata rimane lì accanto, poeticamente accessibile.

E forse questa prospezione confidente deriva la sua possibilità di pronuncia da un altro dato originale del libro: la piccola Spoon River di Guglielmin non accoglie infatti persone esemplari, modelli e tipi umani illuminati da fari fosforici, bensì un registro di perdite generazionali, elencate per nomi e per date, un bollettino di guerra gremito di per lo più brevi, per lo più suicidarie esistenze, di cristalli giovanili infranti.

Ed è proprio la giovinezza, la comunanza della giovinezza, a fornire il terreno alla comunicabilità del discorso tra l’ancora vivo e i già morti. A consentire non banalmente di salutare con il ciao del bar i cari entrati nell’abisso.

Essere stati giovani insieme significa, per l’esperienza e la reciprocità di allora, essere già estinti nel presente, che si sia vivi ancora o anagraficamente morti di già.

È quell’allora a fornire l’avverbio connettivo tra ancora (vivo) e già (morti).

Ed è per virtù di quell’allora che il vivo può condividere il discorso con i suoi cari morti, perché essi soli sono con lui depositari del comune passato. Del pio passato, come lo definisce la  Micol di Bassani, che lo identifica con una giovinezza la cui altra sigla letteraria è forse soltanto A Silvia, figure entrambe di morte prematura ovvero: precedente alla maturità.

Guglielmin ci parla così della solitudine propria di ogni adulto, nella cifra del distacco definitivo dalla giovinezza, di cui progressivamente, per chi ha in sorte di superarne l’età, è fatale condividere il sapore solo con chi vi è scomparso dentro, senza giungere a uscirne.

Nella seconda sezione del libro, la trama di persone di cui l’intera raccolta è intessuta, si riveste dapprima di anonimi, nell’esperienza generalizzata della perdita, e poi, puntualmente per un intellettuale, di ritratti d’autore.

Unica compagnia che regga il confronto con la vivezza biografica delle frequentazioni giovanili, sono infatti gli artisti, i poeti, gli scrittori degli anni formativi e poi delle letture senza termine né cronologia.

Il fantasmatico  tessuto relazionale che uno sguardo va nutrendo mentre scruta pagine e pagine oltre la miopia, al bagliore smorzato di un paralume, forse commentando qua e là un verso, un’immagine, un concetto con le ombre di ragazzi e ragazze, complici per sempre di un’antica avventura.

 Paolo Donini


Stefano Guglielmin, Ciao cari, La Vita Felice, MI 2016

                                                                                                                   
                                                                                


6 commenti:

  1. Lettura precisa e curata per un libro che apprezzo moltissimo.

    Francesco

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  2. Grazie Francesco. Se posso dire, Paolo Donini è un critico molto originale, libero nel pensiero e, oltretutto, un ottimo poeta.

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  3. Concordo con Stefano. Donini, a cui ho avuto il piacere di scrivere una nota per un suo poemetto, è poeta di valore che dimostra eccellenti qualità anche come critico. La sua lettura del tuo libro coglie, tra gli altri, un aspetto fondante: non c'è frattura tra vita e morte, ma un legame esistenziale che unisce gli "ancora vivi" ai "già morti". Ciò a significare una corrispondenza dolente ma affettiva e presente fra gli uni e gli altri, in cui l'intimo di una scrittura essenziale sorge a poesia. Complimenti al poeta e al lettore.
    Giorgio Bonacini

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    1. Grazie Giorgio. Anche a me è piaciuto il rilievo sugli ancor vivi e i già morti, assieme all'idea che la perdita della giovinezza sia il primo lutto, la cui esperienza ci permette di re-istituire autenticamente la relazione con i cari trapassati.

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  4. Anch'io ho letto e apprezzato profondamente questo libro, questo suo confrontarsi scabro e (poeticamente e dunque intellettualmente) onesto con il tema della fine, con un linguaggio sempre asciutto, essenziale

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