È
uscita di recente un’antologia su un poeta che non può mancare in Blanc, sia
per l’originalità della sua indagine, il mondo classico, in particolare
latino, e sia perché il libro contiene
una scrupolosissima analisi semiotica di Stefano Agosti. Si tratta de I colloqui di Elipinti (Edizioni d’arte
di Enrica Dorna, 2015) di Alessandro Ricci (1943-2004), opera voluta da Francesco
Dalessandro, custode testamentario del poeta.
Agosti
riconosce a Ricci grande abilità nell’uso della tecnica dei moderni (“ellissi
dei tempi forti del racconto; le soppressioni […] degli elementi referenziali
[…], l’eminenza visiva […], la focalizzazione a ingrandimento di certi dettagli
[…], l’espansione abnorme della metonimia […], il dispiegamento assai frequente
del discorso indiretto libero”, che si applicano, ci dice l’eminente studioso,
per attualizzare la temporalità storica, per stare vicino al fatto,
togliendogli la patina d’antan che ha uno sguardo quando invece legge
nostalgicamente i tempi eroici che mai più torneranno.
Condivisa
la lettura di Agosti, da parte mia trovo l’operazione interessante nella misura
in cui Ricci dimostra, nei fatti, che la sua è una via praticabile in un’età,
la nostra, dove il tempo storico
raccontato sembra chiudersi nella zolla dei decenni, se non addirittura schiacciarsi
totalmente nel presente. I poeti civili italiani contemporanei spesso cercano
nell’evento storico (la stagione partigiana, in primis), il fondamento di
azioni moralmente ancora spendibili nell’oggi corrotto; così facendo, adottano
un modello etico a cui il presente si dovrebbe uniformare, per salvarsi. Ne
consegue, tra le due aperture temporali, una distanza insanabile, che mette il
presente in difetto, sino talvolta a caricarlo di nostalgia dal sapore
romantico.
La
bravura di Ricci sta nel mettere in secondo piano il lutto per la perdita dell’origine,
per focalizzarsi su quanto ancora rimane, ancora si conserva di
quell’autenticità ossia l’essere-nel-mondo dell’esserci, quello stare in
situazione tra progetto e gettatezza, che costituisce il grande tema del primo
Heidegger. Quando per esempio Ricci ci mostra l’imperatore Giuliano passare in
rassegna le proprie truppe, “dopo una notte insonne ma non / inquieta”, e lo segue
poi in battaglia, colpito dal nemico, e nella tenda fra i generali amici,
attraverso strategie retorico-stilistiche e strutturali, sembra parlarci di un
uomo vicinissimo a noi, ai nostri tremori e alle nostre preoccupazioni
fondamentali. Quando Giuliano l’Apostata si interroga sulle azioni compiute,
sulle responsabilità che quelle scelte comportano, lo sentiamo fratello proprio
perché l’intenzione di Alessandro Ricci non è di immortalarne l’epicità e
nemmeno di additarlo come exemplum, bensì di entrare nel suo intimo, per riconoscerne
il travaglio ma anche quella leggerezza che qualche volta i dettagli del mondo
ci infondono, particolari che forse non salvano, ma, se diamo loro ascolto,
sono capaci di epifania. Si legga per esempio “Baia, un suicidio per acqua”,
con quello spostamento continuo dei piani, che rende la passeggiata verso la
morte un viaggio avventuroso, qualcosa che assomiglia alla felicità, se
solamente il protagonista sapesse cogliere la freschezza dei dettagli (“una
notte di luna / ardente” le correnti che balenano nel golfo, la baia fiorita,
le barche sul molo, “i sandali di Veranio”), belli proprio in quanto enti
caduchi. È come se Ricci volesse comunicarci che, per sentirsi nel vivo della
vita, non occorre per forza combattere contro i persiani né che dipendano da
noi le sorti di un impero; basta essere consapevoli di quanto la morte di ogni
cosa sia fondamentale per una vita autentica, di come, heideggerianamente, la
morte sia per l’esserci la più autentica possibilità, liberandolo al possibile
anziché alla staticità dell’ente. Per quanto, va detto con chiarezza, questa
liberazione poggi sul nulla, sull’infondato.
In
questa prospettiva, la vicinanza che Fabio Ciriachi, nel blog “Critica
impura”, trova fra Ricci e Albert Camus
non consiste solamente, per entrambi, nel cogliere l’attimo in cui la natura ci
benedice con la sua gratuità, “quel pozzo fondo di natura –
equivalente a solare gioventù, a confusa beatitudine degli inizi”, ma, più
profondamente, nella comune idea che passione e pensiero, morale e
verità stiano insieme a dare struttura ontologica all’uomo, che di per sé è un
ente ingiustificato.
Se
c’è un poeta italiano al quale mi piace accostare Alessandro Ricci, per la
precisione e ricchezza lessicale, oltre che per la comune passione verso la
cultura latina, questo è Pietro Tripodo. Come scrive Flavia Giacomozzi in Campo di battaglia (Castelvecchi, 2005),
“in Pietro non c’è […] alcun ‘snobismo intellettuale’, ma solo estrema cura e
ricercatezza”. Lo stesso vale, a mio parere, per Alessandro Ricci, seppur
diversissimi nell’organizzazione ritmica e sintattica della strofa,
compattissima e tendente all’endecasillabo in Tripodo, spezzata eppure quieta
in Ricci.
da I COLLOQUI DI ELPINTI
“Coup
d’idée, Edizioni d’Arte di Enrica Dorna”, Torino 2015
GIULIANO
Allora
Giuliano, dopo
una
notte insonne ma non
inquieta,
all’alba quando
ogni
tenda del campo
gli
parve una duna come
ben
oltre le sabbie,
infinite
a perdita d’occhio, lisciate
dal
levante che le invadeva, le issava
in
un mare di chiaro:
là:
percorrendo
piano il perimetro
senza
il contegno del capo,
rispondendo
con un sorriso
al
saluto quasi commosso
delle
guardie di turno,
insonnolite
all’ora del cambio
–
saluti e sorrisi così simili
a
quel lontano silenzio vibrato
nell’aria
ferma, così diversi
dall’uso,
così
nuovi
–, pensò alla consapevolezza
e
ai sussurri, a quella morbida
e
rassegnata complicità,
pensò
alle navi
che
s’era bruciato alle spalle
i
cui fumi forse si mescolavano
al
velo gentile dell’enorme
giornata
che si gonfiava,
ad
altri pochi momenti,
in
un solo ricordo adunati,
invadente
ma non spietato,
senza
rimpianti.
Poi,
pensando
a tutti
i
suoi uomini che di lì a poco la tromba
avrebbe
svegliati, si disse piano
che
suoi erano pure l’errore e la colpa
del
destino che li attendeva, ma non
del
suo, cui mancava
appena
qualcosa,
un
gesto,
per
la piena armonia.
I
CAVALLI DEL NEMICO
Un
dolore fermo, non acre, forse nel mezzo della corazza,
li
aveva scartati tutti. Alcuni non gli parevano
sconosciuti.
Al doppio segnale dell’ennesimo
attacco
era sembrato inevitabile
scontrarsi
un’altra volta
con
loro, ma non era
successo.
Di tre
o
quattro
catafratti
invece
ricordava
chiara-
mente
la furia e la destrezza nelle prime
fasi
della battaglia, la velocità
delle
fughe e i reiterati
assalti.
E le ferite leggere
che
gli avevano inferto: pochi graffi
quasi
rimarginati, se non proprio
invisibili.
Uno
dopo l’altro, li aveva osservati con attenzione.
La
fila era stata lunga: di molte,
alte
clessidre,
eppure
erano le bestie
strappate
ai vincitori.
Si
chiese allora sgomento quanti cavalli del suo
esercito
decimato fossero già nel campo persiano,
inadatto
forse
a
contenerli tutti, quanti nemici
li
avrebbero ridomati, addolciti,
addestrati,
infine caracollati
al
decisivo assalto, al disastro,
al
macello finale.
La
filza degli animali catturati, ben più umani
dei
pochi prigionieri così meno afflitti,
sembrava
finita.
Nel
vuoto dopo l’ultimo scalpiccìo,
apparvero
nella pianura gialli e sfocati roghi
molto,
molto lontani. E s’udirono,
ma
non appena, strazi e lamenti:
dei
piagati, dei moribondi e,
come
un’eco,
dei
morti.
Così
tramontava quella giornata terribile.
Quanto
male, misto a quel sordo
vuoto
nel petto,
s’accaniva
con l’impazienza.
Fu
dal buio che s’allargava, a un’irruzione di gelo nel ritardo,
quando
emersero i due mancanti: erano stati loro, più loro
di
chi li aveva montati, a colpirlo nel petto,
e
vide finalmente l’asta a due punte
che
l’aveva trafitto:
il
primo era un cavallo chiaro, morbido e triste, quasi
luttuoso.
L’accompagnava, serpeggiandogli fra le zampe,
un
gatto vecchio e ostinato: nella bocca sdentata,
in
una presa insicura, la carogna d’un ratto
troppo
grosso, ridotta a poltiglia
sanguinolenta.
Poi l’altro: un puledro aspro e
impaziente,
avido
ancora di zuffa, cui s’accodava, a distanza,
a
fatica, forse per caso, un bianco
cane
tremante.
LA
SERA
I
“Le
fiaccole a rovescio, l’olio
che
sfrigola e non cade
dal
cielo della tenda, quante
fiammelle
guizzano all’ingiù, là
su
vedo molte calvizie di comandanti,
dei
migliori veterani, qualche
semplice
legionario intorno
al
mio letto, la resa
così
sofferta dei medici,
il
bacile del salasso, mosche
ronzanti,
il molosso a catena e
al
margine del quadro il
pianto
muto d’un’ancella che credevo
svogliata
o ribelle e mi sbagliavo,
più
al centro la pozza del sangue
che
uno schiavo deterge.
Ma.
Ma non trovo,
non
trovo me che lo colo:
nella
volta io
non
sono dipinto,
manco.
‘Svellere
il giavellotto’,
amarne
il cavo: quello
hanno
detto e fatto gli amici
con
morbidezza, di questo avverto
solo
un brusio, quasi
suono
– cembali da quale
dove?
– da parte
a
parte purissimo, piuma,
su
e giù,
che
accarezza i suoi spiragli
e
che m’induce
da
vita a morte
senza
dolore.
Che
c’è di vero in tutto questo?
Hanno
issato uno specchio
enorme
che mi esclude,
privo
solo di me, per rispetto
di
me? Forse
ho
ben meritato
di
loro, e temono ch’io guardi
il
mio corpo trafitto?
Ma
no, sento che l’hanno coperto
di
soffice lana, sono
semplicemente
cieco, e se le pupille
sbiadiscono
in albume, come si dice
che
accada, il cuore crescendo
le
sostituisce, fonde
memoria
e invenzione, tutti
i
granelli della clessidra,
dipinge
gli aspetti
di
uomini e cose, liscia
i
contorni, quasi
li
tocca.
Più
lui,
più
lui di me dunque v’invita
a
calici ricolmi, a festa piena,
alla
mia smania, alla mia idea
di
gioco.
Non
vi riesce questa ch’è,
o
non è, così ennesima
una
finzione, un mero atto?
Lo so, siete ancora
troppo
viventi, non potete
seguirmi,
grazie
lo
stesso. Ma se
restate,
come
mi
sembra, a somma distanza
dall’allegria,
mummie
tristi,
impalati
tormenti,
vi
chiedo
d’uscire di qui. A rivedere
il
giorno, l’aria,
i
cavalli”.
II
Come
al solito il suo,
non
fu un ordine perentorio. Cipressi
di
rito o di sepolcro, loriche
impolverate,
spade
scheggiate
nei foderi, rudi
sgomenti,
rimasero tutti.
Parve
a Giuliano invece
d’essere
completa-
mente
solo,
con
quei brani di sé, stati
o
mancanti,
che
una nostalgia sorridente,
sottilissima
e quieta,
non
gli volle tacere.
E
in quella buia
e
lampeggiante tenda
a
Giuliano rivenne il bianco
cavallo
addormentato nell’horto, fra
il
suo risveglio di ragazzo un tempo
e
la vista all’alba
del
Ponto, trasparenza fra
trasparenze,
un addio
dopo
l’altro come l’ultimo scettico,
sfiorato
sguardo
dei
molti amici poco prima
della
battaglia. I giusti amori:
i
cani Mario e Duilio,
soffici
negli occhi più che
nel
pelo, due
giovani
donne che non
l’avevano
amato, volate
di
volo azzurro ogni volta che le
guardava:
suoni delirati, un non
esserci
mai per loro. E rare
folate
d’incontinenza
negli
inguini delle matrone, e l’onta,
e
i sudori; ma
in
quelle mischie d’impudicizia, azzanni
viperini,
l’altra,
altissima
quota delle lontane, accecanti
ali
per sempre: che implacabile
sua
devozione, così sparsa,
così
persa.
E allora la conoscenza
e
il dolore. O all’inverso la sofferenza
e
il capire, e l’arrendersi, e il non
odiare.
Così, imperatore deriso,
ripensò
agli inganni evaporati
ai
quattro capi
del
mondo e alle speranze
terribili:
distratti, stordite
dalla
stanchezza
e
dal fuoco, alle partenze,
agli
arrivi d’esagerati
tragitti,
senza una pazienza
o
un riposo, in mezzo
a
caterve d’uomini privo
d’una
carezza, una parola,
una
vigilanza, una cura. Ma
la
foresta fu sua,
o
il mare.
Suoi? suoi come?
suoi
quanto? suoi quando?
Gocce
pari d’acqua oleosa.
E
tutto gli cominciò intorno
a
girare insieme: testa, corpo,
mondo…
Che intorno
a
che? Non come i molti,
folli
galilei, lui
non
l’avrebbe
saputo
mai.
Mehr
Licht... Perché
la
luce
s’irradia
oltre
All’alba
del mattino dopo – 26 o 27 giugno del 363 d.C. –, Ammiano Marcellino, che aveva
assistito alla morte del suo imperatore (e che avrebbe descritta nelle sue
‘Storie’), mentre osservava l’opera paziente dei medici imbalsamatori (il
cadavere avrebbe dovuto vincere calura e distanza per essere inumato a Tarso,
in Cilicia) e cercava di ricordare le volte in cui Giuliano gli aveva detto di
sentirsi morire, quando citava sorridendo un’epigrafe funeraria sull’Appia o
chissà dove: “Sono morto mille volte, ma così mai”, ne sentì la voce bussargli
piano alle tempie, mentre fuori uccelli partivano e soldati arrivavano nei
pressi della tenda a deporvi un’impronta o una lacrima, subito riarsa in quella
sabbia desertica:
Mehr
Licht… Perché la luce s’irradia
oltre
l’ostacolo? Lo fa anche il pensiero?
l’amore?
l’anima?... Io non devo
alcun
pollo ad Asclepio: devo
me,
nessun oltre
me… Je vois un port rempli de
voiles et
de
mâts… Non viverti, non
t’esaltare:
consider Phlebas, who
was once
handsome and tall
as you: fa’ scivolare
questi
tuoi
versi estremi
nel
cavo della
ferita.
Poi
muorine,
a
loro insieme.
Per
tutto il giorno, camminando piano nel campo sotto un sole stranamente velato,
mentre gli ufficiali del genio davano ordini quasi sussurrati ai soldati che
smontavano le tende, Ammiano sentì ripetersi quelle parole, fino ad impararle a
memoria. Vi riconobbe Platone, ma non chi parlava in quella, o quelle lingue
strane.
Alessandro Ricci, nato il 14 agosto 1943 a Garessio (CN), un “paesone
al fondo” dell’Alta Val Tanaro, dopo la laurea in lettere alla Sapienza, con
una tesi su Beppe Fenoglio, sceglie di fare l’insegnante.
Nel 1972
partecipa alla realizzazione del film di Vittorio De Seta Diario di un
maestro (è il vero maestro che deve preparare i ragazzini interpreti
del film). Da allora, lavora anche come sceneggiatore.
Alcune
sceneggiature, scritte in collaborazione col regista Claudio Bondì, diventano
film per la televisione e sono pubblicate nel 1980 dalla ERI in un volume dal
titolo La storia a misura d’uomo, con introduzione di Giulio
Cattaneo. L’ultima sceneggiatura è tratta dal poemetto De reditu
suo del poeta tardo-latino Claudio Rutilio Namaziano; il film, con la
regia di Bondì, esce nel 2003 col titolo De reditu – Il ritorno.
Fumatore
accanito, Ricci è morto di tumore ai polmoni il 27 marzo 2004 a Roma. Riposa,
come volle, accanto al padre, nella nativa Garessio.
Ha pubblicato
in vita due soli libri di poesia: Le segnalazioni mediante i
fuochi (1985) e Indagini sul crollo (1989), ormai
introvabili. Un terzo, I cavalli del nemico, da lui preparato, esce
postumo nel maggio 2004. A cura di Francesco Dalessandro, sono state pubblicate
due raccolte d’inediti: L’arpa romana (2007) e L’editto
finale (2014). I colloqui di Elpinti è un’antologia
delle sole poesie di argomento storico. L’accompagna il saggio, L’antico
e il tempo, di Stefano Agosti.
Ringrazio Stefano Guglielmin per l'accurata acutezza con cui contribuisce alla conoscenza della poesia di Alessandro Ricci
RispondiEliminaGrazie Fabio.
EliminaAnalisi acuta, 'illuminante', ricca di preziosi incitamenti all'approfondimento di un poeta alto come Alessandro Ricci, ma da molti sconosciuto. Apprezzo molto il riferimento a Fabio Ciriachi, profondo conoscitore della poesia di Ricci e a Pietro Tripodo. Non a caso Stefano citi "Campo di battaglia", un saggio con una accurata e incisiva nota introduttiva di Gabriella Sica nel quale Flavia Giacomozzi(sua allieva) pone lo sguardo sulla poesia italiana degli anni ottanta nel secondo novecento. Di Alessandro Ricci ho avuto il gran piacere di leggere in primis L'arpa romana e l'Editto finale. Ne scrissi anche una recensione sul blog di Sebastiano Aglieco "Compitu re vivi". Soltanto in un secondo momento ho avuto modo di leggere I colloqui di Elpinti e trovo quantomai opportuno il tuo accostamento a un altro poeta alto come Pietro Tripodo, anch'egli purtroppo scomparso prematuramente, il quale a sua volta è stato un grande e acuto conoscitore della poesia di Beppe Salvia. Ricci, Tripodo, Salvia, poeti appartati e schivi, ma grandi. Ciò mi consola molto, rafforza ancor più in me la convinzione che il messaggio poetico, quando è autentico, fa lunghi voli, ma poi centra il bersaglio. Grazie Stefano e auguri per il tuo nuovo bellissimo libro! Rosa
RispondiEliminaGrazie Rosa. Quanto dici mette in luce il movimento della poesia romana nella sua fase più pregnante.
RispondiEliminaSegnalo anche, a proposito de I colloqui di Elpinti, una dettagliata recensione di Antonio Devicienti su "Carteggi letterari".
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