Nel
sito della biblioteca Isontina, dice bene Giovanni Fierro quando legge, nel
verso incipitario de La consuetudine dei
frantumi (Fara, 2013) di Fulvio Segato, una dichiarazione di poetica: “L’odore,
il corpo, i luoghi, il tempo”, in specie il tempo che non torna e al quale
soccorre la memoria, pervadono in effetti questa silloge, premiata alla III
edizione del Faraexcelsior. E accompagnata da un commento dei giurati, fra i
quali spicca quello di Giuseppe Carracchia, il quale rileva “un giro sintattico
ampio, scandito da incisi e giustapposizioni calzanti, e un verso mediamente
lungo e descrittivo, le cui inarcature contrastano perlopiù debolmente la
sintassi”. Questa scelta di moderata tensione deriva appunto dal primo piano
dato alla volontà di dire, per sé e per gli altri, la verità intorno al tempo
che fugge. Tempo che subisce una messa in scena emotiva, sempre attraversata da
una leggerezza che si muove tra Pascoli e Saba. A farne da emblema è la campana,
evocativa di un altro tempo, sempre vivo nella memoria: “la tua bocca / non può
dire, lo fa la campana, ci spiega la storia / la storia che andavamo al fiume a
bagnarci” e lo fa, come scrive Segato in un’altra poesia, con un “suono
leggero” e lontano. Il tempo andato, insomma, non preme angosciosamente il
presente, bensì lo accarezza, gli sta vicino, dandogli un senso. La vita,
sembra suggerirci Segato, per essere sopportata abbisogna di queste due
dimensioni; la prima, il passato, porta l’eterno fanciullo che è in noi,
addolcendo il presente. Il futuro, in questo libro, passa invece di rado ed ha il
nome del vento o nessuno.
Come
molti poeti del Friuli Venezia Giulia, Segato si vuole testimone del
territorio, parla per la comunità di appartenenza, ne condivide i tremori. Specie
per quelli che non ci sono più e che hanno lasciato i segni del loro passaggio,
anche i più minuscoli. Ed è proprio sui dettagli che l’autore triestino si
sofferma: “Sono le cose minime, catturarle, che ci permette di dare la misura e
il peso del vivere, non solo di quello personale. – spiega a Fierro
nell’intervista, in coda alla recensione – Attimi che ci appaiono istantanei ma
che dobbiamo fermare e decifrare, trascriverli, per poi lasciarli continuare
nel loro fluire. E vanno accuditi con tenerezza, perché fragili come vetro e a
volte riflettenti come specchi”.
I
testi, che racchiudono più compiutamente quanto detto finora, mi sembrano le
sei parti che compongono “Lettere che ti scrivo”, dove l’io femminile
destinatario diventa non solo un’occasione a cui raccontare i misteri della
vita, ma sembra prendere corpo, acquistare un’identità ben precisa eppure dal
valore universale, come le figure montaliane negli Ossi e nelle Occasioni. E
come in quest’ultimo libro, ne La
consuetudine dei frantumi, gli interni dominano la scena, stanze attraversate
dall’odore inquietante dell’oblio ma anche, nel contempo, luoghi familiari dove
trovare un proprio centro: “Non potrò più immaginare di / essere in alte parti
che non sia questa, / questa parte del mondo intero”.
Fulvio
Segato scrive anche in un limpido dialetto (uscirà quest’anno, per Samuele
Editore, Sta mia difesa, con
prefazione di Fabio Franzin) e forse lì, nella lingua della terra, il verso
risulta ancora più libero di coniugare la parola con il corpo, sotto il segno
della comunità delle anime cari (“Pozada su un mureto, / la bici, de piera
abagliante del Carso / e sudado andar a sentarme / fra de voi, Mario, Tina, /
Giordano tartaion e un Claudio / picio picio. E rider e parlar seri / finchè el sol no fossi sparì /
e tuto intorno diventava incognita”) e delle amicizie, come si legge nella
splendida poesia dedicata a Pierluigi Cappello, “L’aviator”: “Se pol svolar
solo cussì, sentadi, / no gavemo le ali nostre, no nassemo / coi ossi sbusadi,
no gavemo el beco gnanche, / cussì solo se xe aviatori, / in zima a la punta de
quela pagina / a quadreti che la svola / e tuti quanti che i varda dove che la
cascherà. / E i ridi”.
L'odore scavato
Questo
odore scavato che circola
fra
strade rioni
salite
di porfido disassato
si
forma con calma
passando
lentamente
sulle
mura
sui
tetti
sulle
piccole pozze che si stanno asciugando
sugli
occhi che si riflettono dentro
e
cercano
poi
qui s'accomoda,
vicino
alla mia sedia - con il suo silenzio-
scavandomi
le ossa
scavandoci
le ossa,
illudendomi
di essere più leggero
dell'aria
-
l'inganno del volo,
ma
fa solo una sosta
prima
di riprendere il suo giro
prima
di bussare alla porta accanto
d'infilarsi
in un letto fra lenzuola pulite
che
hanno quel leggero profumo di viole
di
viole
che
ci siamo portati dietro
con
noi dietro
tanto
tempo fa.
Nato in quegli anni e lì disperso
Sono
nato in quegli anni e lì disperso,
-
il fiato dell’affetto ha fatto
rugginose
le biciclette, quelle mai
pedalate,
quelle lasciate negli angoli
le
parole sospese sono rimaste lì
e
da nessuno più usate.
Ho
visto forse passare il santo,
-
ci sono ancora i suoi segni
e
se c’è un pozzo qui vicino
è
lì che bisogna cercare,
cercare
quegli anni dispersi
in
cui siamo nati, con le mani
nell’acqua
scura quel presente
riportare
a galla,
e
piano bagnarsi le labbra,
berla
a sorsi quell'acqua
ricomporre
le frasi, ridirle,
come
se non ci fossero solo
queste
pietre, dure e bianche
e
senza luce e il netto lacero
del
confine scavalcato , con le mani
coprirsi
gli occhi oppure disegnare nell’aria
quello
che si volle e non abbiamo fatto,
dispersi
come eravamo in quegli anni
in
cui nascemmo. Coprirsi gli occhi
con
le nostre mani nate con noi.
Anche qui da noi
Anche
qui se soffi con le spalle al vento
o
se gridi o se ricordi dei nomi
a
voce alta nulla succede, niente
ti
ritorna indietro in nuova forma
o
colore, o come la vedi adesso,
nel
momento in cui metti le mani
davanti
alla bocca come un imbuto di latta.
E
se ti volti - se adesso ti volti -
è
l'aria che ti riempie la gola,
che
ti spinge sulle spalle
e
la fronte - quasi volesse fermarti
per
far passare tutti gli altri
-
quelli che non vedi,
e
qualcuno che non vedrai mai -
che
fanno parte del già successo
senza
peso come le cose morte,
un
piccolo taglio col temperino
sul
lenzuolo ben tirato.
***
Vedi
che le prime avvisaglie
ci
furono, le cassette vuote, la mia
e
anche la tua, di idiomi vuote
come
lo sono i buchi nei tronchi
dove
si nascondono per terrore o
per
sfamarsi creature minime,
ma
loro poi uscendo
fanno
parte di tutto quel che vediamo,
che
è cosa senza parola, senza sillabe o versi,
impastata
col viola e bruno e ruggine.
E
noi non siamo
senza
dirci, chiamarci, nominando
e
quel bianco che resta, quel bianco
che
acceca è quello che non abbiamo
detto
- ha costruito questo posto
dove
non stiamo, senza eredi
così
spogli, infreddoliti dal metallo
su
cui appoggiamo le fronti.
Ma
forse è solo così che deve andare,
così
che si va in una casa vuota,
in
una stanza qualunque, distesi in un letto
che
non è nostro, e nostri non sono
i
vestiti piegati, il libro aperto sulla sedia.
E
guardiamo il soffitto bianco,
abbiamo
le nostre braccia, le ossa,
gli
incavi sudati dietro il ginocchio,
senza
nessuna colpa e ancora senza
nessun
rimorso,
abbiamo
cinque anni e tutto
deve
ancora cominciare.
Un cavallo rosso fatto con la
plastilina
Un
cavallo rosso fatto con la plastilina,
duttile
docile, messo in centro alla tavola,
quattro
alberi con poche foglie in controluce
luce
e raggi dalla finestra, la debole
luminescenza
di una lampadina quando
si
fa scuro e una mela verde e brillante,
che
rotola se toccata appena col palmo,
e
una figuretta, sottile, sopra tutto,
più
avanti del cavallo, della mela,
ma
non più grande solo più vicina,
più
vicina per riconoscere il viso, gli occhi
quello
che c'è di liquido oltre gli occhi,
così
da impastare e diteggiare una gonna,
o
una giacca o un cappello,
nominare
qualcuno per poi metterlo
ad
arcione, farlo andare, farlo correre
e
perdersi fra gli alberi che son diventati bosco
che
sembra di sentire l'odore di umido,
perché
è passato un temporale
ma
ora è lontano e si odono appena
i
colpi del tuono che scompaiono
e
un ultimo tremare dei vetri.
Velocità dell'erba.
Con
tutta dentro questa velocità
con
essere dentro a sé il mondo,
nella
parte minuscola dell'universo
che
è erba, che è passo nell'erba e
grano,
piede che calpesta e s'infanga
parola
che dice del fango e della terra
asciutta.
Terra spaccata guardandola
dall'alto,
sembra pianeta appena nato,
erba
in fili che sarà famiglia e poi fossile,
uccelli
fra le chiome dell'erba che ritroveremo
nei
sassi antichi aprendoli, effigi di pietra
e
più avanti l'orma di piedi antenati,
un
intreccio d'erba lavorato, un dono
d'amore,
più avanti con i piedi
calpestando.
Da
Sta mia difesa (in uscita presso
Samuele Editore)
L' aviator
P. Cappello
Adesso
legio de uno che voleva
diventar
un aviator. Me domando cossa
che
vol dir esser aviator, de quei coi ocialoni,
col
motor a elica davanti o de quei che i pilota
i
areoplani de carta che se fazeva a scola,
quando
stacavimo le pagine de mezo
al
quaderno, quele dopie e se sponzevimo
co'
le grafete. Xe questo voler esser aviator?
E
cossa altro senò?
Se
pol svolar solo cussì, sentadi,
no
gavemo le ali nostre, no nassemo
coi
ossi sbusadi, no gavemo el beco gnanche,
cussì
solo se xe aviatori,
in
zima a la punta de quela pagina
a
quadreti che la svola
e
tuti quanti che i varda dove che la cascherà.
E
i ridi.
L' aviatore
Adesso leggo di uno che voleva/
diventare un aviatore. Mi domando cosa/ vuol dire essere aviatori, di quelli con gli
occhialoni / con il motore ad elica davanti o di quelli che pilotano/ gli aeroplani di
carta che si facevano a scuola, / quando staccavamo le pagine nel mezzo / del quaderno,
quelle doppie e ci pungevamo/ con le graffette. E' questo voler essere aviatore? / E
cos'altro se no? / Si può volare solo così, seduti/ non abbiamo ali nostre, non
nasciamo/ con le ossa cave, non abbiamo nemmeno il becco / solo così si è aviatori,
/ in cima alla punta di quella pagina / a quadretti che vola / e tutti guardano dove
cadrà. / E ridono.
Fulvio
Segato è nato alla fine degli anni cinquanta a Trieste dove vive.
Negli
anni ottanta ha pubblicato le sillogi "Io, Narciso" e "I Canti
della Fenice".
Nel
2013 pubblica "Vocativi in eco" (Edizioni Helicon) primo premio
Casentino con nota di Silvio Ramat e "La consuetudine dei frantumi"
(Fara Editore) primo premio Faraexecelsior.
In
narrativa nel 2014 "Cadono i cormorani e altri racconti" viene premiato e pubblicato con l'Editrice Progetto
Cultura.
E'
stato finalista e vincitore in varii concorsi letterari nazionali: Gozzano a
Terzo d'Alessandria, Città di Massa, Giuseppe Malattia della vallata a
Barcis, Laurentum a Roma, Casentino a
Poppi, Borgognoni a Pistoia e più volte il Leone di Muggia.
Con
la plaquette in dialetto triestino
"'Sta mia difesa" vince il
primo premio inediti al Gozzano 2014, e l'intera silloge verrà
pubblicata a breve per la Samuele Editore con prefazione di Fabio Franzin.
Suoi
testi in dialetto triestino sono stati pubblicati nel numero 18 della rivista
di cultura poetica "Smerilliana" di Enrico d'Angelo.
E'
presente e recensito nell'Almanacco di poesia della Puntoacapo editrice.
Alcuni
suoi testi sono pubblicati sulla rivista "Poeti Contemporanei"
diretta da Elio Pecora.
E'
presente in riviste letterarie su alcuni siti web.
fulvio08@libero.it
Fulvio non solo è un bravissimo poeta, come hai giustamente sottolineato, ma anche una persona di umiltà e disponibilità rare. Questo lo aggiungo io perchè non è un commento critico, ma mi piace sottolinearlo.
RispondiEliminaFrancesco t
Non a caso, me l'hai presentato tu.
Eliminami incanta..
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