Libro
pervaso dalla rivelazione demoniaca e dalla verità dell’ombra, contrapposte al
mondo dispiegato e luminoso della filosofia aristotelica, Poesie del terrore (La Vita Felice, 2014) di Saverio Bafaro ci
riporta nel luogo senza tempo della paura, che nasce quando l’io comprende
d’essere costantemente in un limbo slabbrato (irrequieto, sghembo, oscuro,
brutto, dice l’autore), uno spazio asimmetrico e vorticoso, in cui l’identità
si agita, ignara “della sua genesi e apocalisse”. Siamo sospesi tra due vuoti,
direbbe Conrad, nell’età dell’ansia, aggiungerebbe W. H. Auden; se non fosse
che la poesia di quest’ultimo è tutta intrisa di pessimismo storico, laddove Bafaro
interrompe ogni legame causale con il divenire, per concentrarsi sulla
condizione dell’esistente a sé preso, prescindendo dalla possibilità di
qualsiasi salvezza, sia terrena che celeste. “Tu sei il tarlo che sgranocchia
il cuore infestato” scrive in una quartina metafisica dominata da un agente
corrosivo, “il tarlo”, che può essere il tempo distruttore ma anche la natura
stessa dell’io, pervasa da Male, altrettanto metafisico.
Epigono
di Lautremont, Bafaro ci consegna una sequenza di illuminazioni forse guidate
dallo stesso intento adolescenziale di Maldoror: assassinare Dio, farlo a pezzi.
E Dio, qui, è anche l’Auctor, la poesia, il gesto cortese, ogni segno che la
tradizione riconosce armonioso e bello.
Tutto
interessante e scritto con buon orecchio, sulla falsariga dei maestri
ottocenteschi e forse memore dell’heavy
metal e del fumetto dark, con la solennità profetica di chi rivendica la
vendetta non per un maltrattamento subito, ma per la stupidità del mondo (“Al
Mondo / la mia peggiore delle doléance” recita il primo distico), e tuttavia,
se vale l’idea che fra vita e opera ci sia continuità, in specie quando
parliamo di poesia maledetta, mi sembra che qualcosa qui non quadri. Non
conosco Saverio Bafaro, ma dal suo curriculum vedo che ha fatto studi
importanti, in ordine con quel “Mondo” che quest’ultimo libro vorrebbe
gambizzare. Penso a Baudelaire, Rimbaud, Nerval, Ducasse, tanto per citare i
più noti, e ci vedo pidocchi e sangue vero nelle parole, sangue che scorre
prima sulla strada e poi diventa poesia. In Poesie
del terrore ci leggo invece un canto addestrato, frutto di buone letture,
che recupera immagini già viste, con pipistrelli, Bestie e putrefazioni, un
canto che cerca l’effetto (ed evidentemente lo ottiene viste le lusinghiere
recensioni e il recente premio “Ponteldilegno”).
Naturalmente
sarò in torto io, che penso a una poesia contemporanea che finalmente si liberi
del sublime demoniaco – è questo che trasmette Bafaro – per rifondare
l’identità a partire da uno spaesamento radicale ma non mistico, lontano da
vendette (“Pagherete / il mio sacrificio” minaccia una voce verso la metà del
libro) e dal gotico romantico; una poesia che ci racconti il buio e la paura
con immagini nuove, non consumate da una tradizione alta, inavvicinabile sia
per il genio dei maestri e sia perché oggi viviamo irretiti da linguaggi e
orizzonti di senso differenti.
Se
invece l’autore, che si sta specializzando in psicoterapia, voleva raccontare i
mostri che abitano chi è affetto da malattie nervose (e quindi in parte
presenti anche in ciascuno di noi), allora qualche segnale doveva darcelo, qualche
momento di stacco dal registro dominante, una stratificazione delle esperienze,
una pluralità di voci, che avrebbero aiutato il lettore a orientarsi in questo
inferno; se così fosse stato, il già
visto avrebbe avuto un senso perché tutti sappiamo che cosa sia l’archetipo
e in quali forme s’incarni. Così come Bafaro ce lo consegna invece, il libro non mi convince, malgrado sia accompagnato da alcune pregevoli tavole dell’artista Piero Crida, nate
appositamente, e da una prefazione partecipata di Roberto Deidier.
Estetica non-aristotelica
Noi che
abbiamo scelto il Brutto
e letto
al contrario il libro dello Stagirita
conosciamo
i risvolti
dell’armonico
divenuto sghembo
del calmo
divenuto irrequieto
del
limpido divenuto oscuro
dell’ordine
divenuto caos
del
simmetrico non più tale
delle proporzioni
volutamente saltate
***
Le case
attendono
più in là
della notte
basse
lungo i binari
sanguina
l’occhio
della
sola finestra accesa
come un
lume maligno
Le case
attendono
più in là
della notte
basse
lungo i binari
schiere
di serpi scacciate dalle chiese
contorcersi
e sputare verdi bave
Le case
attendono
più in là
della notte
basse
lungo i binari
le ruote
dei vagoni-fantasma
sfrecciare invisibili e
crudeli
***
Esiste un
sorriso insano
– oltre
la soglia del dolore –
impresso
sul volto
come un
assurdo promemoria
del tutto
ignaro
della sua genesi e
apocalisse
***
È
l’attimo in cui
accoltelli
il mio corpo
come
colpendo su fette d’arancia
ed io
credo nella lingua oscura
non
essendo ancora approdati
sulla spiaggia inviolata
***
L’Oceano
Questa
notte l’Oceano
veste i
panni del Mostro:
bluastra
creatura svenatasi
nel suo
stesso ventre,
immense
noie
trasudate
da pori invisibili
urlano
senza forze
un orrore
accolto
nel gigantesco inganno
***
Lucciole
La mano
mortale della notte
ha
spalancato il palmo
per
disperdere malvagia
gli
antichi gioielli
lasciati
cadere
con cura
sinistra
tra le
spighe scapigliate.
Fino allo
spegnimento
urlano
voce
flebile e
inaudita:
l’elettrica
fratria
delle lucciole tradite
***
La pianta del basilico
Tanto
odorosa
la pianta
del basilico
cresciuta
alla luce
del mio
mare,
un poco
meno
la testa
seppellita
nel vaso
orbite
riempite
di terra
bruna
estratte
dal Sogno
e date in
pasto ai vermi:
«Mangiate
piano l’amore integro,
mangiate
piano l’amore vero!»
Dentro e
fuori
vedo ogni
giorno
in
segreto
lo
strazio e il fiore
la
dipartita e la vicinanza
la mia contromossa
ai fratelli assassini
***
Occidente
Le aurore
inorridite
nella
parte dove
il Sole si uccide
Saverio Bafaro nasce a Cosenza nel 1982. Vive tra l’ Umbria e Roma. Ha pubblicato: Poesie alla madre (Rubbettino, 2007); Eros corale
(2011) disponibile in formato e-book sul sito www.larecherche.it; Poesie del terrore (La Vita Felice, 2014) – finalista Premio
Pontedilegno 2015.
Sue opere sono apparse, inoltre, all’interno di antologie poetiche,
di riviste letterarie come Poeti e Poesia,
Fermenti; di rubriche poetiche come
“Lo Specchio” de La Stampa e di blog come Poesia2punto0,
La poesia e lo spirito, L’Estroverso. Fa parte della redazione
della rivista di scritture poetiche Capoverso
e collabora con il sito Postpopuli.
se mi posso permettere.. cercare nell'altisonanza delle bave verdi, dei vermi e di certi aggettivi, di parlare del buio, pare quasi un modo di convincersi di esserci riusciti.. il buio, invece, sa farsi sentire anche parlando di stelle, se c'è...
RispondiEliminaper il resto hai già detto tutto tu e, per quello che qui ho letto, concordo..
centrato. Ma forse sono in torto anch'io.
RispondiEliminaSaluti
L'ombra, il buio e' una cosa seria.
RispondiEliminaQui è una bubbola manierista priva di svolte inacettabile per chi crede come il sottoscritto , la poesia sia grimaldello superiore di senso e condizioni.
Da rivedere e (semmai ) rileggere in contesti più autonomi. Se ne è in possesso.Per il resto non mi piace..
Laddove il precedente Poletti mostrava gli esiti di una sua ricerca (per quanto di difficile comprensione) filologica e linguistica qui stagnamo nel facile ingorgo e nel cuore nulla accade. e tutto scorre già avvertito.
Grazie per la tua meritoria e strasordinaria opera di ricognizione e ricerca.
Apparte Bafaro i cui testi proposti, lo ripeto non mi piacciono.
Cari saluti.
Blanc è una palestra e a volte serve anche, per chi fa l'esercizio, a segnalargli un passaggio da migliorare
RispondiEliminaUn'ottima palestra.
RispondiEliminaSenza le tue segnalazioni sarebbe difficile orientarsi in questo ambitto tanto autorefenziale.
Grande Stefano!!!!
Grazie!
EliminaLa recensione mi sembra troppo dicotomica rispetto a un’idea del “male” – evidentemente contrapposta al “bene”: piuttosto manichea in questo, molto più di quanto i testi non autorizzino. Inoltre non occorre affatto il riferimento diretto all’”esperienza”, come si auspica alla fine dell’articolo – se ho ben compreso la richiesta del recensore, e penso di sì - in quanto appunto l’esperienza va, al contrario, evocata sublimata trasfigurata nell’essenziale e non già attraverso ulteriori segnali di riferimento autobiografico. L’io poetico non è mai autobiografico, voglio dire. Si tratta sempre di un “altro” dall’io meramente anagrafico.
RispondiEliminaSe legge interamente il libro, le risulterà più chiara la dicotomia.
EliminaL'io poetico non è autobiografico solamente quando diventa posa, altrimenti lo è fino in fondo, fino alla morte, solo che non lo sa.
Il filone del perturbante e del rischio del disorientamento psichico rappresenta un tema poeticamente assai fertile; il problema è però tradurlo in un codice non artefatto, imbolsito da clamori enfatici e convenzionali, ma ancorato a un vissuto della cui veridicità sappia testimoniare. Guglielmo Aprile
RispondiElimina