È bello leggere un libro di un giovanissimo esordiente, Giuseppe Nibali, accompagnato da una postfazione precisa e competente di un altro poeta nuovo, Bernardo Pacini. Il siciliano Nibali, ci spiega Pacini, si muove nell’aspro e nell’arso della canicola siciliana, facendo tesoro dell’insegnamento “implacabile” di Bartolo Cattafi, un poeta che in effetti, come Nibali, perfezionò “l’arte della sottrazione”: “Togliamo anche / l’acqua l’aria il pane. / Giunti all’osso buttiamo / fuori della vita / l’osso, l’anima” scriveva Cattafi in “Tabula rasa”, proponendo un ermetismo materico, di contro a quello rarefatto fiorentino. La scrittura siciliana, d’altro canto, si riconosce anche da questa spigolosa tragica movenza, da Verga a Bufalino, da D’Arrigo a Consolo, sino alla poesia di Angelo Rendo, classe 1976, del quale scrivevo, a proposito di La medietà, “raramente un’opera prima sa fondere l’urgenza biografica nel solido di una scrittura essenziale, smussata intorno alla forma-periodo e venuta a galla perfettamente asciutta dopo aver attraversato il diluvio dell’interiorità.”
Il
tema cristologico attraversa il libro apparentemente sottotraccia, ma invero in
una triangolazione analogica che fonda il libro stesso: il padre di Giuseppe,
Salvo, fu poeta, tanto che lo potremmo pensare quale primo maestro di metafora
e di responsabilità. Tra i due si istituisce infatti un dialogo segreto, fra
colpa e liberazione, che si muove parallelo a quella trinitario, dove, in
Giuseppe, è la scrittura stessa ad essere lo Spirito Santo, il sacro legame con
il padre, che sotto questo profilo diventa Padre, causa prima. Il sottotitolo del
libro, affinità elettive, dice questa
relazione decisiva, per combinazione chimica, naturale, e per cultura, per
condivisione di un progetto, quello di essere uomini e non caporali, “uomini
senza padrone – scrisse Salvo Nibali – che sanno / ai Saraceni strappare una
croce una brace / per morire”. I Saraceni di oggi Giuseppe Nibali non li
nomina, ancora non è pronto a rivelarne pasolinianamente i nomi, ma del poeta
di Casarsa sceglie la strada più intima, esistenziale, mettendo in esergo una
citazione in friulano che ci dice, in estrema sintesi, il pensiero tragico che costituisce
nel profondo Come Dio su tre croci: “Vuei
a è Domènia / domàn si muore” (“Oggi è domenica / domani si muore”). Ed è bello
anche questo legame fra il profondo sud e il profondo nord, due terre di
confine, che hanno sempre dato molto alla cultura italiana.
Da COME DIO
SU TRE CROCI
Faccia chiusa
e
lo strascico vedovale
che
mi regalava il sole e la chiesa
nei
giorni che mancavano al tuo nome
gli
occhiali della resa
inforcati
sul mutismo
sul
Cristo, il bambinello
il
fango crollato sul letto
un
bacio un vento
una
parola sola ancora
cruenta
sul ventre cercato come il seno
dal
tuo figlio
poi vera come ai primordi a palmo
a
palmo risalisti i mesi
i
rosari e i comò di gioielli
su tutto si stenda la materna croce
e bene in
vista.
A
Mariuzza
Brucia gli occhi
questo
esplodere
l'erosione
che a notte
richiama
ai sudari
gli
altari freddi come balconi
e la tua libertà che aspetta
che aperta ancora trema
Tuo un giorno d’isola pura
Che
stringerai ai rosari
–
sicura – Nel vestito della domenica
Due
labbra serrate, neanche una bestemmia.
Ti vedo in vita
in
vitreo andare in cerca
sulle
basole sconnesse
che
dall’arsura del paese vanno
ai
monti incanutiti
Un’insegna
introduce i ricordi
la
ruggine dei fratelli sui muri diroccati
dalla
chiesa uno sbuffo
chiuso
in una parola da rosario
“ora pro nobis” – il tuo cattolico viandare –
E
donaci un vangelo crudo:
“a
cu da – a cu leva lu distinu
e nun ci pari mai lu nostru dunu.”
Non di te, mai di te
crocefisso che squadri
noi
penosi dietro ai muri
tutti
sporchi di pensieri
senza
spalle dove appendere
quelle
voci, quel colore
di
gesso.
Siamo noi adesso
a chiodarci i polsi
alle croci – noi ladroni
con la noia domenicale
che copre la televisione
spegne l’urlo al Golgota
e non vogliamo deposizioni.
INEDITI
Forse meno
della vita Di tutta la mia Anna
vestita coi Gioielli
dell’infanzia, m’interessa
una svista sul cemento, il tuonare dal giardino
qui davanti ché c’è un merlo alla ringhiera, forse due,
o te, o me a rinunciare col becco a tutto il futuro.
Sul muro a un passo lì dalla catastrofe si svolge
all’occasione una fontana.
E ci beve e non sente tutta la rovina. Che violenza
l’avere – come noi – solo piccole ali e scendere i pozzi
per risalirli.
Poi il merlo ritorna, nel neo della sera, magari
– mi dico – diretto alla Maceria e col becco, ma
spaventa e gonfia e scappa via.
Tutto questo rumore
umano che ti canto
è
il dolore bambino dei giorni nel sorriso
da
rivista, col rossetto ora mi parli sicura
dei
treni e hai la mano a coprire la luce del
viaggio,
dei baci alla fronte nel segreto delle vie.
Io
faccio tutto per dirti, per chiamare lo spicchio
di
sole sui tuoi occhi e penso sia fisso in te
il
bene che si muove per il mondo.
Come
ti chiudi a tenere il reggiseno nel volo
dell’acqua
o sui balconi dove si svolge una
solitudine
che non senti ma spaventa,
spaventa
chiunque, anche gli altri (ed erano molti)
a
buttare il dolore dalle ringhiere, e sporti
anche
noi, amore, in questo alveare guardiamo
insieme
la partita, ora io sono tornato,
ma
forse è più importante la partita, non rimane
altra
metafisica, neanche la finzione
della
risposta, della domanda:
«ti
disturba questa storia?»
«No, aspetto ancora tutto il tempo E poi
dopo, altro tempo, per abbracciarti. Tu rilassati Ti porto qualcosa, qui sul
balcone, un’insalata di mare Ma divertiti, guarda la partita, ché ha ripreso a
piovere, e c’è un silenzio perfetto, non dobbiamo annaffiare il giardino, si
sta bene così oggi, i bambini sono a scuola, dopo magari, più tardi, sarebbe
bello fare l’amore».
Giuseppe Nibali è nato a Catania nel 1991. Dopo avere conseguito la Maturità presso il
Liceo classico “Don Bosco” di Catania nel 2010 col voto di 87/100, si iscrive
in Lettere Moderne presso l’Alma Mater Studiorum, Università degli studi di Bologna
dove si laurea nel novembre 2013.
Iniziando a
collaborare con giornali periodici e quotidiani già da ragazzo, oggi vanta
collaborazioni con il settimanale “Prospettive” e il bisettimanale “Il mercatino”; con il mensile dell’associazione
Mettiamoci in gioco e con quello dell’ Associazione etnea di studi
storico-filosofici, rispettivamente “Prospettive giovanili” e “Timeo”; Nel 2012 entra a far parte della
redazione del quindicinale “Avviso ai naviganti”, promosso dalla Fondazione CEUR e inizia
l’attività di corrispondente per la pagina culturale del quotidiano La
Sicilia. Nel 2013
scrive un programma radiofonico per l’emittente siciliana: “Radio voce
della Speranza”,
intitolato “Spes Publica” di cui è autore e voce.
notevoli, si, se si tiene conto della giovane età ...probabilmente le letture affrontate e l'esperienza prematura unita alla sensibilità intellettuale hanno agito in sinergia provocando un 'eruzione avvincente perchè, soprattutto negli inediti, si lega alla quotidianità in modo incantevole ...
RispondiElimina(non mi disturba per niente:-)
in effetti curriculum e capacità invidiabili per i suoi anni.. :)
RispondiEliminabelli questi versi:
"qui davanti ché c’è un merlo alla ringhiera, forse due,
o te, o me a rinunciare col becco a tutto il futuro."
dove d'istinto si legge 'forse due o tre' :) o almeno, io l'ho fatto..
preferisco comunque gli inediti per ritmo, tono e modo ed è difficile immaginare come potrà evolvere tanto saper fare.. spero di avere il tempo di vederlo..:)
vivrai almeno cent'anni pere cui avrai senz'altro il tempo per vedere l'evoluzione di questo giovane poeta :-)
EliminaGiovane e siciliano (e) bravo! Da isolano 'conterraneo/conterrone' gli auguro tanta buona poesia (soprattutto quella che si 'sente', anche quando non si scrive).
RispondiEliminaP.S.: saluti e auguri di buone feste a Stefano e a tutti i lettori.
Per Stefano: se vuoi, quando vuoi, mandami il tuo nuovo indirizzo mail.
giesse