Dal numero di dicembre 2014 di "Diari di Cineclub" della
Federazione Italiana dei Cineclub, riporto questo interessante articolo di Enzo
Lavagnini su The Italian. Buona lettura.
Si
avvicina il centenario de “The Italian”, regia di Reginald Barker, scritto e
prodotto da Thomas H. Ince (uscito sugli schermi americani nel gennaio del
1915).
Ispirazione
riconosciuta, sia per Mario Puzo che Francis Ford Coppola per le ambientazioni
de “Il Padrino”, “The Italian” è un film muto conservato dal 1991 presso la
Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti per il suo particolare valore
artistico e sociale. Si tratta di un'opera davvero ragguardevole, ed andrebbe
riproposta e studiata, sia per le rare ed innovative capacità di racconto
cinematografiche sia perché consente al contempo di comprendere meglio
l'immagine che degli emigranti italiani aveva l'America di allora; immagine che
da questo film spartiacque in poi si è radicalmente modificata, cominciando
quanto meno a contingentare rappresentazioni fatte solo di macchietta e
maniera.
La
storia è davvero essenziale, emblematica di tante altre, e l'italiano del
titolo è ovviamente un emigrante; cos'altro potrebbe essere, in quei primi anni
del secolo scorso nel corso dei quali milioni di connazionali varcavano
l'oceano in cerca di fortuna?
Ecco
la sinossi: il gondoliere Beppo ama Annette. L' America è quello che gli serve
per guadagnarsi il rispetto sociale che consentirà al padre della ragazza di
dire si al matrimonio. A New York Beppo trova da fare il lustrascarpe grazie al
boss irlandese della zona in cui abita, Corrigan: non fa fortuna, ma può
comunque far venire Annette a stare con lui. La ragazza lo raggiunge,
innamoratissima, si sposano, hanno un figlio. La loro condizione economica però
era e resta precaria. Al punto tale che il latte pastorizzato prescritto dal
medico e necessario per il bambino diviene una spesa davvero ingente per le loro
finanze. Per giunta Beppo viene derubato. Cerca l'aiuto di Corrigan che
cinicamente si nega. Beppo non ha soldi per il latte, finisce addirittura in
carcere per qualche giorno per rissa, nel mentre il figlioletto muore.
Disperato, Beppo torna al suo lavoro di lustrascarpe, oramai senza più ragioni
per vivere. Gli si presenta però subito l'occasione per la sua “vendetta”: da
un giornale scopre che il figlio di Corrigan è molto malato e che un qualunque
rumore potrebbe ucciderlo. Mentre sta per compiere il delitto, si accorge che
il bambino fa con la mano un gesto che faceva sempre anche suo figlio. Desiste,
scappa. Va al cimitero a piangere sulla tomba del suo bambino.
La
prima impressione sul film, relativa alla parte “italiana” è quella di trovarsi
difronte ad un vero, ancorché “affettuoso”, scempio a base di eccessive dosi di
folklore per giunta davvero volutamente confuso e disinformato: come è stato
notato, l'idilliaca ambientazione è quella di una Venezia fuori dal tempo,
finta (girata infatti a Venice, California), mal riprodotta, situata in mezzo
ad improbabili colline e vigneti, attraversata da asini ed ovini, abitata poi
da contadini vestiti alla maniera sarda, e con Beppo che fa il gondoliere
ovviamente sempre allegro e per giunta suonatore di chitarra (vestito però come
un siciliano).
Si
è insomma al cospetto di quella tale, almeno apparentemente, insormontabile
quantità di affastellati luoghi comuni, che però costituisce inevitabilmente
gran parte della descrizione indifferenziata che il cinema “americano” fa
all'epoca della comunità italiana agli “americani”.
Come
da una tale congerie di ben esibite “italianerie” venga fuori, nel corso della
narrazione, un film significativo ed importante, e certo affatto banale, è cosa
che lascia davvero il campo alla sorpresa. O che, meglio ancora, fa riflettere
sulla costruzione ingegnosa che lo sostiene.
Scritto,
prodotto ed accuratamente supervisionato da quel gigante del cinema
hollywoodiano che è stato Thomas H. Ince, il quale appare molto più autore dello
stesso regista, a cominciare dai titoli del film (dove il nome del regista non
c'è proprio), secondo un ben architettato schema “The Italian” si riscatta
infatti decisamente dal cliché nella seconda parte, la parte ambientata in
America – a New York, nel Lower East Side- , da quando cioè l'ex gondoliere
Beppo mette piede sul suolo americano.
Qui
accade come se il racconto precipitasse d'un tratto da una favola a tinte
pastello fin dentro la più cruda realtà. Cambiamento repentino di registro che
conferisce ancora maggior forza al verismo del racconto nelle strade di New
York.
La
variazione nel racconto avviene sia con una recitazione naturalista,
soprattutto quella del protagonista, George Beban/Beppo, che con la descrizione
fotografica inclemente, diretta, non mediata della grande città, frettolosa e
senza anima, dei suoi abitanti elettrizzati dalla fantomatica ricerca del
successo: strade che colano di ectoplasmi, di anime emigrate, vestite con panni
che sembrano uniformi da lavoro, finite, nel caso degli italiani, dal paese del
sole dritti dritti in una città a chiazze bianche e nere: enorme, gelida,
crudele e disorientante. Una città in cui bisogna soltanto cogliere l'attimo ed
afferrare la fortuna al volo, se passa. E se non passa, sopravvivere.
In
questo modo, con questa incalzante e brutale sequenza narrativa, lo stereotipo
arcaico dell'Italia, appena descritto dallo stesso film, comincia a cedere
dalle fondamenta: quel mondo definito, rassicurante, conosciuto, non esiste già
più: la realtà è un'altra cosa. Quel vecchio mondo è solo una cartolina
illustrata dai bei colori sgargianti che si smaterializza per far posto al suo
rovescio: l'indefinito, il non rassicurante, lo sconosciuto: i frutti
contemporanei e selvaggi della metropoli.
Con
questo scarto narrativo, il mondo in cui abita l'italiano tutto gondola e
chitarra, ingenuo e operistico, -il suo naturale palcoscenico- viene relegato
nell'album dei ricordi. E' un mondo bello, ma andato, come nelle favole. Un
mondo che non appartiene al reale.
Cliché
nel cliché, nel gioco di ricalchi e rimandi che fa Thomas H. Ince, è
interessante davvero soffermarsi sul fatto che “The Italian” del film non è
affatto un italiano: per interpretare un italiano ci vuole qualcuno che ne
replichi gli atteggiamenti più consueti, quelli più “riconoscibili”: qualcuno
che questi atteggiamenti li guardi appunti da fuori.
Infatti,
George Beban, il protagonista, scelto da Ince, si cala in questo “personaggio”,
come si calerebbe in un qualsiasi altro ruolo. E' un bravo attore, piuttosto
noto, cresciuto sulle tavole dei palcoscenici del vaudeville di San Francisco.
Beban fa dunque la sua adeguata “full immersion”, passando settimane ad
osservare gli operai italiani impegnati nella costruzione del tunnel tra
Manhattan e il New Jersey e in tal modo, imitandoli, si “specializza”, per così
dire, nel ruolo dell'italiano, per questo film e in altre opere che seguiranno.
All'epoca
il “ruolo dell'italiano” per certo doveva corrispondere a precise
caratteristiche, anzitutto somatiche, con i capelli, gli occhi e la pelle scuri
e poi tutto un corredo fatto di gesti caricati, primitivi, teatrali, eccessivi.
Ma
come appaiono gli “spaesati” emigranti italiani intorno a quegli anni nei film
americani coevi, mentre cioè Rodolfo Valentino è appena sbarcato dal piroscafo
a New York e si guadagna da vivere ballando, mentre appena pochi anni prima Joe
Petrosino ha ingaggiato una lotta senza quartiere alla Mano Nera composta da
italiani che taglieggiano altri italiani?
Nell'immaginazione
comune ed anche per gli sceneggiatori, l'“italiano” era un “personaggio”
sempre dentro la propria comunità, in relazione autentica solo e soltanto con
la propria famiglia, quasi mai in grado di integrarsi, quasi mai disponibile a
fidarsi delle istituzioni locali, diffidente, con un perenne senso di perdita
del legame comunque inscindibile col
paese d'origine, con le sue tradizioni, con la religione, con il cibo, con la
musica, con la lingua. Ed aveva anche una certa, naturale, predisposizione alla
criminalità; questo, come pregiudizio molto diffuso.
Era,
l'italiano, un emigrato, un disperato senza futuro, spesso senza arte né parte
(e se l' “arte” l'aveva, doveva comunque adattarsi ai lavori disponibili) e,
allo stesso tempo, incredibilmente, il rappresentante di quella terra favolosa,
a buon diritto orgogliosa e piena di sole. Lasciava, con tutta la malinconia
del caso, una terra bellissima, ma povera, ricca “solo” di storia, di arte, ma
arcaica, destinata ad essere solo un museo.
Aveva,
l'italiano, per convenzione, attitudine al melodramma. Viveva di passioni
smodate, di forti amori, di grandi amicizie, di famiglie incrollabili, di
fedeltà, di onore, di tradimenti, di riconciliazioni; e quando subiva “male
azioni” si vendicava, anche con ferocia inaudita; il coltello a serramanico, l'
“italian stiletto”, sempre a portata di mano, la “vendetta” -parola italiana
che finisce a buon diritto nel vocabolario americano (come ci ricorda “V for
Vendetta” dei fratelli Wachowski ), quasi fosse
davvero una “specialità” italiana- col suo carico sempre fatale, come unica
soluzione per mettere riparo ad un torto subito. L'unico modo per pareggiare i
conti. Bagaglio sanguinario che, nel pregiudizio imperante, definiva i sempre
più numerosi membri della comunità italiana come non proprio raccomandabili.
La
vera forza de “The Italian” sta nel mettere in disparte con un sol colpo questa
grande quantità di stereotipi sugli italiani. Li evidenzia e subito dopo li
rende poco credibili. Li mostra e già li archivia, allo stesso tempo: fa capire
che sono, possono essere, retaggi del passato. Soprattutto quelli meno
“accettabili” socialmente.
Quando
nella narrazione si arriva al capitolo della “vendetta” di Beppo, “The Italian”
distrugge col resto anche questo luogo comune dell'italiano non placato altro
che da quella. Lo fa per amore del plot o per dare giustizia ad una comunità?
Ad ogni modo accade.
Succede
sul finire del film, quando Beppo si introduce furtivamente nella bella villa
del boss, dell'irlandese Corrigan, il quale gli ha negato l'aiuto che poteva
salvare il figlio: la villa è piena di servitori in livrea e con ricchezze ben
in mostra, con un medico in doppiopetto che si prende cura del figlio di
Corrigan.
Beppo
è accecato dall'odio, un odio che qui diviene anche “sociale”, ed ha un solo
proposito: la camminata è lenta, il corpo ripiegato su se stesso, le movenze un
poco animalesche, viene da temere il peggio: è davanti al bambino che dorme.
Beppo vorrebbe e ora potrebbe compiere il suo delitto, per brutale istinto, e
consumare così la sua “vendetta”; “replicare” quello che proprio tutti si
attenderebbero da un emigrante italiano nelle sue condizioni di spirito, come è
anche troppo facilmente prevedibile dal cliché.
E
invece no. Ecco invece che accade qualcosa di nuovo, che non ti aspetti in un
italiano da stereotipo, qualcosa che apre una gamma più complessa di sentimenti
in un personaggio finora storicamente unidimensionale: un piccolo gesto del
bambino che sta per sopprimere gli ricorda con nettezza un gesto che faceva
anche suo figlio. Beppo improvvisamente si immobilizza. Di botto non è più uno
stereotipo. Prende coscienza della propria unicità. Ora si vergogna di se
stesso, dei suoi stessi istinti ancestrali. Non sa più capacitarsi di
quell'orrendo delitto che stava per compiere: è come se avesse osservato un suo
doppio che agiva per conto suo: cerca, confuso una distanza dalla scena che ha
visto. Capisce piuttosto solo una cosa: che non troverà mai pace. Uccidere e
così vendicarsi non gliela darà.
L'unica
cosa che gli resta è tornare alla tomba del suo bambino, quello è il suo posto:
tornare a piangere il suo dolore, che nessuna vendetta potrà mai placare. Non
si pone nemmeno il problema di uscire dalle tenebre, vuole solo considerare
quella morte, vuole solo stare lì.
Ora,
nella tremenda solitudine della sua vita, chino su quella tomba, “The Italian”
è un uomo come tanti altri, non importa da dove provenga: come tutti deve
affrontare la vita coi suoi carichi fatali, le sue disperanti difficoltà; in
fondo, il Nuovo Mondo gli ha dato, come a tutti, sensazioni eterne, millenarie,
che dovrà vivere appieno e in profondità. Non c'è Nuovo Mondo che ne tenga al
riparo.
E'
solo, in una terra che è di tutti, dove tutti sono soli: ciò lo rende
paradossalmente già compartecipe del sogno americano, agli occhi di chi guarda.
Dietro quella sofferenza, c'è un altro giorno e -forse- un altro uomo. Di
sicuro dietro quella tragedia, che gli si legge sul volto, c'è ora una
“immagine” nuova dell' “italiano”.
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