Seeds
(Chelsea Editions) di Adam Vaccaro organizza l’esperienza autobiografica in due
fuochi, in due semi: il primo luminoso e fortemente segnato dal mito delle
origini, il secondo conficcato nel buio della città, in quell’opaco dove
sopruso e ingiustizia sono di casa. Nato a Bonefro, Molise, il poeta vive da
quasi cinquant’anni a Milano: due patrie di sangue e sudore, eppure di linfa
diametralmente opposta. Se infatti l’infanzia contadina incontra la violenza
intrinseca alle culture arcaiche, (“guardavo scannare i maiali / con allegra
tranquilla innocenza / lanciavamo stecche appuntite di ombrelli / contro
civette crocifisse alle porte” ), la vita metropolitana custodisce quella
lontananza dolorosa dal centro del senso, che porta ciascuno a una solitudine
spaesante, nell’ “aperto inferno”, in quello “immenso spettacolo lunare /
accerchiato da una vita accanita”, che spinge ciascuno a rifondarsi nel privato
amoroso, “ a ripartire da te / da questa
punta di miele mattina / per viaggiare lungo gli orli / dell’orrore”, per
sopportarli quegli orli, armati del coltello-amore. Se nella comunità
contadina, la natura è zolla dura ma anche orto del bendidio, “tra voci perse ruscelli
e uccelli” e le case raccontano la vita di fame e latte, nella società urbana
cova “l’odio feroce”, la violenza, entro “sommersi / viali di pizze stracci
fumi e giarrettiere”. La città moderna, infatti (già lo sapeva Baudelaire), è
diventata selva, disordine artificiale dove regna l’hobbesiano homo homini lupus.
Riassumendo:
i due semi che Vaccaro cerca di rivitalizzare con la sua poesia sono, uno, la
memoria felice di un’infanzia cresciuta nel cerchio buono del paese e, due, la
relazione amorosa, l’unica salvezza entro le tenaglie gelide delle città
industriali. La scrittura, come “un piccolo graal”, può forse “aprirsi e
vendicarsi della morte” perché noi, in qualsiasi latitudine e condizione
viviamo, non siamo che gazzelle costantemente in pericolo. Questo annuncio,
incipitario nel libro, è la chiave antropologica con cui leggere i due fuochi
antitetici, campagna e città, infanzia età adulta, gioco e lavoro; nessuno di
questi è paradisiaco eppure non per questo risultano equivalenti.
Sono
molto belli versi che ci descrivono “l’ortogiardino” dove “brillano rose fiori
di zucca e pomi / doro” al riparo delle siepi, facendo “rifiorire l’attesa / il
progetto, la gioia”, per quanto sia ben chiaro che la terra è bassa, dura
zolla, secca. Ma altrettanto efficace è il verso quando racconta la
città-labirinto, dove puoi trovare enclave premoderne, come “Quintocortile” (e
non è un caso se proprio lì, ogni anno, si svolge una giornata di letture
poetiche organizzata proprio da Vaccaro) o quando dal suo grembo infernale
escono figure tragiche come Clitennestra, assassina del suo protettore. Fuori
da mito, tuttavia, ce lo spiega bene il poeta, la morte violenta non è che
gesto solitario e disperato entro una logica che fagocita il bene e il male in
nome del profitto o della sopravvivenza biologica.
Le
ultima sezione del secondo seme, intitolata “Nilo maggiore e minore”, allarga
lo sguardo sulle malefatte dell’occidente e alle guerre giuste dei differenti monoteismi, nati dall’astrazione
ontologica, dalla rarefazione della carne in puro spirito totalitario. Qui il
sarcasmo, soprattutto verso i costumi turistici nostrani, si fa bruciante e non
risparmia nemmeno i poeti che si compiacciono dei loro “lumini accesi”, mentre
nuotano beatamente “nel mare delle cose // appesi alle code dei saldi.”
La
penultima poesia, “Meta!” condensa tutte queste tematiche, le fonde nel
crogiuolo del ritmo e della forza immaginifica, e se qualche volta l’intento moralizzatore
sfoca l’armonia creativa dell’insieme (“questa madre che impotenti / s’ostinano
a voler violentare”), la qualità stilistica e conoscitiva del libro rimane
intatta, a testimoniare l’esperienza di un poeta che prende posizione nel
mondo, che crede nella funzione civile della scrittura, nell’etico prima che
nel estetico, e che intende tenere aperta la comunicazione con il lettore, a
costo di perdere, qualche volta, il sacro fuoco della creatività, subordinato
alla necessità del messaggio. Ma questa abbassamento del canto appartiene a
molti poeti lombardi, così come una certa passione civile di radice
illuministica. Sotto questo profilo, anche Milano ha seminato la parola
terrestre di Vaccaro, trovando in lui una terra ancora bagnata dal sole molisano
e da una tenerezza mai vinta dal grigio dei suoi cieli inquinati.
SEMI
I parte
Che
sia questo un piccolo graal
simile
a un seme che può forse
aprirsi
e vendicarsi della morte
del
male stupido che ci invade
e
delegittima la vita quale
gazzella
dall’occhio attento che
si
abbevera al ruscello e ascolta
rumori
di foglie secche e vento
convinta
di tenere a bada così
i
pericoli che incombono
e
come occhi silenziosi e
non
visti di ragno tessono
(l’ortogiardino
curava
mio nonno un luogo un
giardino
per me d’incanti e fatica.
Il
mio braccio – mi disse – si sposa
qui
con questa terra e polla d’acqua
e
ne fa bellezza e frutti che nessuno
può
sapere fuori da quel cancello
là
in fondo se non sale quest’erta
di
sassi e spine e non sa che qui
brillano
rose fiori di zucca e pomi
doro
che al riparo di siepi di un orto
giardino
appeso al mio dito con ali
di
foglie gira gira intorno al mondo
sognando
l’infinito
(Lo scalpellino)
Ricordo
tra tutte le pietre dure della vita
quella
che briciola su briciola graffiai
da
ragazzo e che ora pare
riposi
architrave di questa casa
Fu
quel giorno col dito nel sangue
che
venni folgorato dalla verità del dolore
folle
fuggendo alla ricerca della gioia e
quella
pietra diventò l'architrave della mia vita
(biciclette)
frotte
di biciclette nel sole annegate
imbiancate
tra polvere e sassi arrampicate
sulle
colline molisane spietate e ricche
di
cicale stordenti in coro ininterrrotte
al
cigolìo di freni selle e pedivelle
tra
ansimi e perle silenti di sudore
Sentenzio
sciamando in cima tra sogni
castagni
e quercioli col cuore balbettante
nei
calzini gridò tra risate e pernacchie
a
quell’impasto di luce e fatica un modo
a
suo dire d’imparare a sudare le regole
del
piacere s’una forma di piacere delle regole
In
discesa a testa in giù come siluri dalla guerra
ormai
finita al sol dell’avvenire cui nemmeno Sentenzio
sapeva
che dire mentre i padri scappavano in cerca
di
fortuna e schiavitù a noi sembrava bastare
quella
scodella di polvere luce e sassi bianchi
fino
a quando
ci ritrovammo muti
attorno alla testa rossa
scomposta
da un invisibile sasso – impietoso sasso
incastonato
nel piacere di una nuvola bianca
di
calzoni corti e biciclette anni ’50
(feroci
innocenze e oltre
guardavamo
scannare i maiali
con
allegra tranquilla innocenza
lanciavamo
stecche appuntite di ombrelli
contro
civette crocifisse alle porte
e
arrostivamo feroci zoccole finite
disperate
in gabbie fischiando
un’uscita
cercando da fiamme d’inferno
eppure
già (di)versi cantando
m’illumino d’immenso
e
nessuno può dire se fu quel piede fondato nella terra e
nel
letame che diede una spinta a sogni d’assalto al cielo
o
s’aprì in quei primilampi di parole un oltre
possibile
nel
vortice sempre nuovo
sempre vecchio
di questi decenni
pur avendo già un grido nel
cuore
che
poi la curva ridiscende
ed è subito sera
II parte
Nell’aperto aperto Inferno
Coltello necessario
(immenso spettacolo e lunare
accerchiato
da una vita accanita
che
sguarnita e inarresa annusa
come
un orso ferito
al cuore
ma
conviene ripartire da te
da
questa punta di miele la mattina
per
viaggiare lungo gli orli
dell’orrore.
Amore
unico
coltello necessario
a
fare dell’orrore un ventre aperto
(Quintocortile
Milano infila tunnel del metrò
per rincorse di istanti veloci
che sommati fanno un niente
per farne montagne di macerie
tra sogni di un perduto verde e
incanti di incontri che a settembre
fumavano salsicce e bandiere rosse
parentesi in attesa di ragazzi bravi
a fare il gioco delle coppie con siringa
Milano ora fila sogni disfatti su uno spiedo
sapiente che cucina mucchi di denari
ricchezze povere di dolori e pensieri
Milano infila eppure ancora cortili uno dentro
l’altro
che ritrovano in fondo – ancora visibile – il tempo
Quale bellezza
Abbagliato
imberbe e senza parole
rimase
dalla bellezza trafitto e
reso
palloncino panico e afflitto
gonfio
solo della tonda domanda
se
la bellezza era questa sconfitta
che
taglia alla gola le solite parole.
Poi
imparò dai più grandi – Dante etc. – che
ogni
scuro squallore e viso sfigurato da
dolori
e orrori più atroci ti sfidano
ad
accendere segni che come amante
rovescia
in luce la fragile clessidra
della
bellezza che ti apre al mondo
E
si volse alla bellezza che toglie
parole
a chi ne ha paura e si chiude
o
ama chiudere nel suo sacco il mondo
scegliendo
tra potere e bellezza il polo
che
insiste non si arrende e resiste
tra
la morte e la vita che continua
META!
*
se tu vedessi, amore mio, come splendente
è qui il Mito, come sorridente e trionfante
esplode qui, tra gli orti di Meta l’immagine
del Caos, la sua frondata Fonte e la sua Ombra!
…………………………
*
si
sono arresi dunque al silenzioso caos
emergente
da un’origine nascosta
di
energia. Si sono arresi come pupille
spalancate
da un bagliore non più
capaci
di compiere il dovere
di
rendere ragione. A imitazione insana di
un’incontenibile
miscuglio di levità e
grigiore,
d’acquiescenza e insofferenza, di
dolcezza
e di violenza, da questo Cono
che
ha smesso di fumare e fino al mare
si
distende insensato un miscuglio
di
scatole chiamate case, informi
insiemi
di cose che vagano affollate tra
brandelli
di vita verde che non si arrende
*
Così,
dalla finestra, la casa
specchiava
lo stato delle cose
così
invase
dalla sospensione
che
la corsa affannosa che la casa
correva
nell’insieme
squarciava
lumaca nel vento
del
tempo-lampo
che non accompagna
e non fa in tempo
a
costruire una mente
Qui su Blanc un'altra nota.
Ottimo Adam !
RispondiEliminaBuon Natale Stefano :-)
è un po' che leggo e rileggo.. perché con qualche testo fatico.. altri invece mi hanno subito catturato al piacere.. in particolare il primo e 'lo scalpellino'..
RispondiEliminaBuon 2015 a entrambe!
RispondiEliminaanche a te..
Eliminagrazie!
Eliminami permetto (da non totalmente profano) una qualche critica alla forma di queste poesie. Non voglio dilungarmi, né osare paternali a chi, anche solo per l'età, potrebbe tacciarmi di essere irrispettoso; ma quella presenza, in fine di verso, prima dell'accapo, di preposizioni, congiunzioni, addirittura articoli, mi sembra indice di una certa mancanza di cura. la forma non è mai tutto, ma la troppa libertà finisce per svilire la bontà insita in questi testi, barattando l'accettazione della prosaicità di buona parte della poesia odierna con l'orgoglio della vera poesia, che non scende (o non dovrebbe) a patti con il gusto contemporaneo
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