La regina di Ica
(Il ponte del sale, 2012) di Daniela Raimondi è un libro bellissimo perché
capace di parlare di morte, di malattia e di violenza non in astratto o con
piglio moraleggiante, bensì con la ricchezza metaforica e il mistero con cui
Garcia Marquez ci racconta la vita e la morte a Macondo in Cent’anni di solitudine.
“Rubavo
la saliva ai passeri” dice di sé la regina di Ica, mummia regale della civiltà
Nazca, in Perù, e “ora riposo. Sterile, perfetta”. L’immagine lapidaria fa da
totem al libro e dialoga, con fili quasi invisibili, con un totem della cultura
contemporanea, un’icona maledetta perché suicida e per la scia di lutti che ha
disseminato accidentalmente in seguito: Sylvia Plath. Con queste due matrone
dell’altrove, Daniela Raimondi costruisce un discorso sulla morte e sulla
malattia, sulla famiglia e le sue crepe, ma anche sui legami e la speranza,
sulla volontà di vivere che pervade gli esseri malgrado tutto sia indirizzato
alla sfacelo, tutto, come scrive Leopardi nel Canto del gallo silvestre, abbia come unico oggetto il morire.
All’altro vertice del triangolo metafisico c’è Dio, in incipit Padre
onnipotente, a chi chiedere “una morte bella”; nella chiusa, magnanimo
benefattore che concede la vita, i “suoni tranquilli del mattino”. A parte
questa presenza, che rimane nella cornice del libro, e qualche altra rara
apparizione maschile avvolta in un alone mitico (il figlio Patrick nato dopo
una corsa sorvolando i continenti; Nicholas, il figlio suicida della Plath, che
“ogni sera tornava caricando sulle
spalle / il cadavere di un cervo”, Ted Hughes, marito di Sylvia, che l’andava a
trovare, ancora nubile, “con i tasca / pesci vivi, oroscopi e poesie”; Diego
Rivera che sigillo le stanze private di Frida Kahlo, imprigionandoci le cose e
le tracce degli amori vissuti), La regina
di Ica è un viaggio nella natura complessa del femminile, alla sua forza ambivalente,
che tiene le briglia al cielo, partorendo, accudendo i malati, sacrificandosi
in nome di una parola libera (come la poetessa afgana Nadia Anjuman,
assassinata dal marito) ma anche all’inferno, soprattutto all’inferno,
governando la morte altrui – come faceva fino al 1952 la “femmina accabbadora”
preposta in Sardegna, nel segreto fuorilegge degli affetti familiari, a donare
una morte quieta al malato, stringendo “tra le gambe la testa moribonda”– ma
anche la propria, come appunto la Plath e la sua sfortunatissima rivale,
quell’Assia Wevill suicida e matricida con il gas, in un gesto simile alla
poetessa americana.
“I’m
fragile – Please Handle Whit Care” scriveva quasi in principio di Ellissi (Raffaelli, 2005), il suo primo
tardo libro, in una poesia dove la madre depressa dell’amica Helga, “la
domenica, tre pillole nella gola”, mette “un arrosto nel forno”: immagine in
cui si specchia, in una poesia de La
regina di Ica, la testa di Sylvia Plath dentro la bocca del forno, che “è
un animale buono, / lo sbadiglio di un cane sdentato”. C’è dunque una coerenza
profonda nella scrittura di Daniela Raimondi, uno scavo continuo dal silenzio
mortale delle cose, per ricavarne un suono che sia condivisibile, qualcosa che
dia un senso all’insensata corsa verso il nulla di ciascuno, come ci confessa
in un corsivo preludiale di quest’ultimo libro: “la pagina che scrivo è per
colmare il buio, il nero-nero che porta solo morte.” Ed è una pagina di luce,
un lungo “viale di magnolie che ci riporta a casa”. In senso antropologico,
quale via del ritorno che risolve l’esilio originario (e una poesia di Inanna – Moby Dick 2006 – lo dice con
chiarezza: “Tornerò alla sorgente di tutti i fiumi. / Con le unghie scaverò la
terra / per ritrovare il primo battito”), ma anche, per lei che si muove tra l’Italia e l’Inghilterra da decenni,
in senso biografico. Poesia come spazio reale, da abitare autenticamente. Ed è
qui che lo stile soccorre ad arredare le stanze, a popolarle di oggetti,
animali, persone, vestendole di un amorevole realismo, magico non per
intervento divino, bensì per il potere demiurgico della parola, che vivifica il
mondo, altrimenti neutro, freddo, lontano.
La
regina di Ica 1
i.
Rubavo
la saliva dei passeri,
una
malinconia di muschio e acacia.
La
parola cantava
raccoglieva
il vento, il seme, il polline.
A
ogni luna moltiplicavo
l’offerta
del grano e delle rose,
ma
il vento ogni volta moriva.
In
me cresceva la frattura del sangue,
e
il gelo,
un’ampolla
di vetro soffiato.
Oh
le mie mani di cenere,
mia
lingua poverissima!
Lasciavo
nel mondo
una
foglia d’argento, echi
terra
rossa
e
il germe della mia povertà,
due
fanciulli dalla bocca vergine.
Di
quei giorni ricordo solo
un
caos di sogni e lune bianche
la
scarsità dell’acqua,
la
cura minuziosa dei giardini.
C’era
una scia di luce conficcata nella carne
e
in fondo agli occhi
un
cielo siderale.
ii.
La
morte è stata piccolissima:
una
seta sul viso,
la
carezza rovente della sabbia.
Hanno
svuotato il corpo,
estratto
le mie viscere.
Brillavano
fredde
e contorte come serpenti.
Ho
visto la forma esatta del cuore.
È
un muscolo fatto di fiato e sangue.
Solo
un organo rosso, ridicolo.
Qualcosa,
credetemi,
non
più grande di un pugno.
Ora
riposo. Sterile, perfetta.
Dormo
rannicchiata nell’ombra
le
ossa leggere, il viso verso l’Est.
I
merli mi svuotano gli occhi
ma
non importa.
Il dolore era altro, altra la pena.
Restava
a cuocere nel sole,
estirpata
dal rosso incantesimo.
Intorno
a me i doni per il viaggio:
cocci,
monili, la ciotola di miele
un
tintinnio di giade e lapislazzuli.
Un
uccello ha fatto il nido
nel
buio centro del mio petto.
Ogni
mattino batte le ali
e
canta e canta
là,
dove un giorno era il cuore.
iii.
Il
tempo ha cancellato le impronte digitali.
La
sabbia ha intessuto nella carne
la
sua trama d’oro.
Non
sento la fatica,
pascolo
la mia morte senza nessun rimpianto.
Ora
so che il paradiso non esiste
e
rido, rido.
Senza
più mani o piedi, rido.
Senza
più cuore, o voce.
Sdentata
come una vecchissima bambina
io
rido.
Rido
senza curarmi del disegno oscuro delle stelle,
rido
brillando cieca nella polvere.
Ferma
nel tempo come una pietra nera,
con
i capelli in fiamme,
con
i capelli in fiamme
io rido.
S’accabbadora
2
La
chiamavano quando faceva buio
e
la morte gridava
nel
becco spalancato di un corvo.
Arrivava
vestita di nero,
il
viso nascosto da un lembo di stoffa.
Sotto
il letto del moribondo
avevano
messo il giogo dei buoi
e
sopra il cuscino
immagini
sante, pietre bianche del fiume.
Lei
mandava fuori figli e parenti,
poi
chiudeva la porta.
Nascondeva
i rosari,
le
immagini sacre e i crocifissi.
Infine
abbracciava il corpo martoriato,
gli
offriva il suo povero seno.
Oh
notte d’inverno,
oh
nerissima notte.
Il
pane raffermo nella madia,
le
stelle immobili nel cielo.
I
figli attendevano nel campo.
Intagliavano
cuori di legno,
piccole
croci d’ulivo.
Era
giunto il momento.
Lei
s’accucciava al capezzale,
stringeva
tra le gambe la testa moribonda.
Bastava
poco per terminare l’agonia:
chiudere
la bocca col palmo della mano,
stringere
le narici con due dita.
Oppure
un solo, secco movimento
ed
era tutto finito.
Lei
usciva e annunciava:
‘La
casa è a lutto’.
Ripartiva
coprendosi la faccia
e
senza scambiar saluto.
Non
riceveva compenso
se
non un po’ di farina,
un
gallo dalle piume d’oro.
Lasciava
sul letto un corpo tranquillo.
Sul
volto aveva solo l’ombra di un piccolo spavento.
Qualcosa
che somigliava a un sogno,
forse
un sorriso.
Le
stanze segrete di Frida 3
La casa blu, la pioggia,
un fascio di calle e i quetzal. 4
Un piccone sventra la stanza murata,
strappa la carta dalle pareti.
Il raggio di luce cade su un mosaico di stelle.
Nella grotta segreta splende la lampada di
Aladino:
perle e bracciali d’argento, la seta e il
broccato,
ametiste e cristalli.
L’oro dei Maya trabocca dalla vasca da bagno.
Ci sono biglietti dell’autobus,
il ventaglio, il rossetto,
le piccole mani di Pablo,
un testo di Trotskij e parole d’amore.
Nel
ritratto di nozze, Frida ha il viso di una vergine ebrea.
Alla
sua festa di sposa il re sorrideva.
En
las calles corría una música alegre,
un
canto suave de pajaros y niños.
Nella penombra, c’è l’armatura di ferro
di una regina dalla schiena spezzata.
Su
una sedia, la sua sottoveste di raso
e scialli di lino, il rosso e il cobalto,
le ciprie e i gioielli.
Nell’aria una polvere bianca, una polvere bianca.
Odore di muffa.
Odore di urina.
Un gatto fugge dal vetro rotto di una finestra.
Sul tavolo, c’è il giornale stampato
nel giorno della sua morte
y la foto de un cuerpo de nacar y miel:
i suoi occhi da cerva,
il lenzuolo abbassato sui fianchi
e sotto il lenzuolo la gamba di legno.
Nel fondo delle pupille
Frida conserva il ricordo di un feto senza
polmoni,
il dolore delle anche malate,
la neve a New York.
Ella cerraba los ojos del niño
y la nieve caía,
la nieve volaba en el cielo de Brooklyn.
Uno schizzo a matita.
La donna bionica cerchiata di ferro,
la foto di Georgia premuta sul cuore.5
Il capezzolo rosa e Parigi, la nebbia.
L’amore di Diego.
L’amore e il dolore.
Nella stanza segreta
resta un poco di cenere sul fondo dell’urna.
Se ascolti, senti ancora il respiro,
il suo cuore che pulsa
fra i fiori e la colla della parete.
Alfonsina
vestita di mare 6
Mi
Buenos Aires querida, adesso smetti di cantare.
Alfonsina
vuole dormire,
stendere
le sue ossa fra il buio delle tue case.
Fa’
chiudere le tangherie,
nascondi
in cantina le scarpe coi tacchi,
i
capelli di feltro, le tue fisarmoniche.
Lei
ha aperto la finestra sulla tua selva di luci.
È
nuda sul letto, i seni amputati.
Mi
Buenos Aires querida,
Alfonsina
è tornata ai tuoi porti.
È
tornata sola, come la prima volta.
Un
tamburello batteva lungo le strade
E
dentro la valigia lei portava solo
due
vestiti a fiori, le prose di Ruben Darío.
Aveva
un corpo selvatico
e
in fondo agli occhi
brillava
l’ombra dei boschi ticinesi.
Venticinque
anni e i capelli tutti bianchi.
Una
furiosa meraviglia
che
schiariva la notte intorno al suo viso.
La
parola feriva il suo corpo,
lo
apriva sulle note tristi di una milonga.
Adesso
è leccata dal male,
tagliata
da una lama pulita.
Una
Santa Agnese
coi
seni su un vassoio d’ospedale.
Due
cicatrici le crescono sul petto
grandi,
vive come pesci.
Mi
Buenos Aires querida, ora lasciala dormire.
Domani
stringerà tra le braccia un fascio di rose,
avrà
fra i denti l’azzurro degli oceani.
Solo
poche parole scritte con l’inchiostro rosso
e
poi camminare sul fondo del mare,
i
piedi celesti,
in
apnea.
I. L’amante 7
Jealousy
can open the blood
(Sylvia
Plath)
Il
suo corpo d’ariete mi lava e mi ingrassa.
Ha
l’odore del sesso
il
suo artiglio mi infilza la parte infetta del cuore.
Addenta. Mi inghiotte boccone a boccone:
prima
un dito, poi un occhio, la spalla;
risucchia
un’arteria, il muscolo dolce.
Sua
moglie è la lupa di Romolo e Remo,
il
volo nuziale dell’ape regina.
Depone
bambini grassi sulle rive dei fiumi;
è
la grande madre terra – sempre pregna, pregna.
Per
ogni amore
io
partorisco piccoli gnomi di pietra.
Ogni
volta che amo, impasto una nuova morte.
Non
sono più vera
di
un sogno che bagna il lenzuolo.
Il
fauno mi chiama
batte
lo zoccolo sotto la luna.
Lo
aspetto da sempre,
appesa
a un gancio nel retrobottega.
II. Marionette
I saw the dreamer in her
had fallen in love with me and she did not know it.
That moment the dreamer in me
fell in love with her, and I knew it.
Ted
Hughes
“Vede,
Signora,
io
sua figlia l’ho sempre amata.
Arrivavo
ogni mattina con in tasca
pesci
vivi, oroscopi e poesie.
Ma
la sua bambina aveva nel corpo
lune
insanguinate,
viveva
nell’impronta infangata di uno stivale.
Il
suo odio fermentava con le mele in cantina.
Il
suo odio cresceva, strangolava la casa.
Vede,
signora,
sono
nato in una valle di fantasmi;
un
paese di morti dove la notte
le
divise dei soldati marciano vuote lungo le strade.
E
ogni sera la sua bionda bambina
mi
chiedeva di morire.
Ogni
volta lasciava un cadavere nel letto.
È
che un uomo ha in bocca la fame dei lupi:
ha
sempre bisogno di mordere,
di
succhiare il sapore selvatico.
Il
mio sperma impazziva nei lombi.
Non
cercavo un’amante, lo giuro.
Fu
lei a trovarmi
seguendo
un’orbita errata di stelle,
nuotando
e nuotando contro corrente.
Allargava
i suoi occhi nel buio,
fiutava
il mio odore col ventre.
La
chiamai dalla riva.
Era
un luccio gigante,
una
cornucopia che splendeva
nella
marea del mattino.
Guizzò
nell’aria:
aveva
un feto nell’iride dell’occhio,
si
dibatteva con furia
contro
l’uncino del mio sesso.
Non
ero che un baco senza pupille.
Lei
mi chiuse le palpebre,
mi
avvolse con un filo di bava
nel
suo bozzolo d’oro.
E
a casa la sua bambina bella
cadeva
fra i narcisi.
Si
rompeva in mille pezzi,
pura
e dolorosa come un grido.
Un
crack fra le mie mani, così.
La
vita le usciva da un fianco,
il
sangue tornava alla terra.
Io
non centro, lo giuro.
Fece
tutto da sola.”
IV. Gas
and from our opposite continents we wave and call.
Everything
has happened.
Sylvia
Plath
La
bocca del forno è un animale buono,
lo
sbadiglio di un cane sdentato.
La
cucina è igienica come un crematorio.
Il
gas è una sciarpa di seta,
ha
l’odore pungente delle ascelle di Ted.
Shura
dorme attaccata alla mia schiena.
È
il mio piccolo innesto,
una
farfalla avvolta nel tepore della coperta.
Il
suo respiro è una garza.
Fuori
la luna imbianca
la
potatura senza sangue degli alberi.
Il
prato è cangiante come una pellicola esposta.
Due
pastiglie, perfette come una comunione
e
orbito fuori dal mondo.
Ultimo
volo sullo Zeppelin
contro
l’irriducibile flusso delle maree.
Apro
le orchidee dei bronchi
e
respiro, respiro.
Un
airone mi picchia dentro il cervello.
La
casa è un polmone chiuso.
Il
dolore ha il sibilo azzurro del gas.
L’operazione
i. Odissea Notturna
Un
corpo un numero un nome.
Qui
non ci sono fiori.
Non
ci sono ombrelli, cappotti rossi, bambini.
È
un mondo muto, puro come il sale.
Spengono
le luci.
I
malati scendono nel ventre delle sotterranee.
Hanno
mani bianche, orecchie di carta velina.
Trascinano
lentamente i corpi ricuciti.
Sono
fantasmi sotto le luci azzurre dei corridoi.
Osservano
muti le file di cuori sotto spirito,
la
solitudine dei feti nei vasi di cristallo.
Questa
è una prigione di donne,
un
gineceo di lamenti e corpi sterili.
Le
vecchie rantolano nei loro astucci bianchi,
si
agitano come bambine nei vicoli dei sogni.
Qualcuno
russa. Muove nel buio la lingua di
cenere.
Sento
l’aprirsi e il chiudersi,
l’aprirsi
e
il chiudersi
faticoso
dei
polmoni.
Una
donna grida.
Gli
angeli della morfina hanno calze nere,
mani
preziose.
Le
portano in dono poche gocce d’amore.
L’ago
entra nel braccio come una fiaba
e
la donna si scioglie, è di zucchero.
La
testa ricade soffice come una pesca.
Dormono
le donne magre, gli anemici,
gli
esseri soli della terra.
Dormono
i senza figli, i senza corpo,
i
corpi di cera infilati nei pigiami.
Giù
nel cortile i topi divorano foglie di cavolo,
garze,
croste di pane.
Le
loro code guizzano dentro ai cassonetti.
Vegliano
i portieri di notte,
gli
occhi di scimmia dietro le tende a fiori.
E
vegliano le bocche sigillate degli insonni,
i
cuori inamidati delle infermiere.
[…]
(Homerton Hospital, Londra, febbraio
2007)
La
città dei vivi
Torniamo sempre alle città dei vivi
lasciandoci dietro le porte sprangate,
e avanzi di cibo, le persiane aperte nel vento.
Torniamo di notte,
come le piccole luci dei presepi,
quando i cortili si riempiono di buio
e sentiamo il polso inalterato
immuni alla nostalgia dei nomi,
o al disordine lasciato nei letti dell’amore.
Torniamo soli,
come agnelli trascinati dentro ai fiumi
e cerchiamo la sosta sotto le grondaie
la fine della pioggia, l’odore dell’infanzia.
Di notte i corpi non fanno rumore.
I passi cadono come pezzi di pane nel latte.
E torniamo con le ossa stanche, il cuore azzurro.
Quel che resta
è il cielo chiarissimo delle
stagioni fredde.
Sono gli oggetti di rame,
la gioia dei piccoli gesti quotidiani.
Quel che resta
sono i mobili di noce che durano nel tempo,
le rughe profonde dell’acqua.
Torniamo nell’ora buona e splendida
ad aspettare alzati
l’impronta del sole sul muschio,
il gioco bianco del mattino
sulle lenzuola stese ai balconi.
Torniamo a cercare
le stanze di luce sulle rive del mare,
la tregua nel sonno tranquillo dei figli.
Lontano dal peso notturno dei sogni,
lungo il viale di magnolie che ci riporta a casa.
Note ai testi:
1. La regina di Ica
Ad
una trentina di chilometri dalla cittadina di Nazca, Perù, si può visitare
l'affascinante Cimitero di Chauchilla, una pianura cosparsa di ossa,
teschi, frammenti di vasi e mummie. I
reperti risalgono al periodo tra il 1000 e il 1300 D.C. Fra loro, una mummia dalla bocca aperta e un
ghigno terribile, simile a un’amarissima risata.
2.
S’Accabbadora
Da tempi antichissimi, in
Sardegna era compito di sa femmina accabbadora procurare la morte a
persone in agonia. E S'accabbadora era
una donna che, chiamata dai familiari del malato terminale, provvedeva a
ucciderlo ponendo fine alle sue sofferenze. Un atto pietoso nei confronti del
moribondo, ma anche un atto necessario alla sopravvivenza dei parenti,
soprattutto per le classi sociali meno abbienti. Negli stazzi della Gallura e nei piccoli
paesi lontani da un medico molti giorni di cavallo, questa figura serviva a
evitare lunghe e atroci sofferenze al malato.
S'accabbadora andava via in punta di piedi, quasi avesse compiuto una
missione, e i familiari del malato le esprimevano profonda gratitudine per il
servizio reso al loro congiunto offrendole prodotti della terra. Quasi sempre
il colpo finale era diretto alla fronte, da cui, probabilmente, il termine
accabbadora, dallo spagnolo ‘acabar’, terminare, che significa alla lettera
dare sul capo. In Sardegna s'accabbadora ha esercitato fino a pochi decenni fa,
soprattutto nella parte centro-settentrionale dell’isola. Gli ultimi episodi
noti avvennero nel 1952.
(Informazioni
tratte e adattate dall’articolo le ‘Terminatrici’, dal quotidiano La Stampa del
1/5/52.)
3.
Le
stanze segrete di Frida
Mexico City, 1954. È irremovibile
Diego Rivera alla morte della moglie: la casa di Frida veniva trasformata in
museo aperto al pubblico, tranne per due piccole stanze da bagno che lui stesso
fece murare. Le “stanze segrete” di Frida.
Sigillate nel 1954, e rimaste tali per oltre cinquant'anni, le stanze
murate della Casa Blu sono state riaperte nel 2004. A partire dal 1930, e per più di vent΄anni, nella Casa Blu erano passati gli amici più cari di
Frida e di Diego, artisti rivoluzionari e amanti segreti. Fra questi Lev Trotsky, André Breton, Pablo
Picasso, e con loro, un pezzo di storia artistica e politica del
Novecento.
4. I Quetzal sono gli uccelli mitici
dei Maya.
5. La fotografa Georgia O’Kieffe, la
sola donna di cui si sia trovata prova scritta che fu amante di Frida Khalo.
6.
Alfonsina vestita di mare
Alfonsina Storni
nacque nel Canton Ticino, in Svizzera, il 29 maggio 1892. Si trasferì in Argentina con la famiglia
all’età di quattro anni. Alfonsina scriveva poesie, faceva l'attrice e studiava
per diventare maestra. A 20 anni ebbe un
figlio ancora nubile. Ragazza madre,
femminista e socialista, pubblicò diversi libri raggiungendo molto presto un
grande successo di critica e di pubblico.
Con le sue poesie ha cantato l’amore e la solitudine, ma anche l’ansia
di vivere e la voglia di libertà e di emancipazione. Malata di cancro al seno, si suicidò il 25
ottobre del 1938, all’età di 46 anni, lasciandosi trasportare dalle onde
dell’Oceano Atlantico a Mar del Plata.
7.
L’amante
Assia Wevill viene menzionata
nelle biografie di Sylvia Plath, come la causa del divorzio fra Ted Hughes e la
poetessa americana. È spesso considerata
anche come l’artefice principale del suicidio della Plath. Nonostante Assia Wevill abbia vissuto accanto
a Hughes per sei anni (lo stesso periodo di tempo che il poeta inglese
trascorse con Sylvia Plath), e nonostante gli avesse dato una figlia, è
praticamente assente dalle biografie del poeta e non venne nominata nelle interviste
che Hughes diede durante la sua vita. La
sua presenza fu praticamente cancellata dalla sua storia personale.
Assia nacque nel maggio del 1927
a Berlino, da una famiglia di origine tedesca, russa ed ebrea. Trascorse la sua gioventù a Tel Aviv e in
Canada. Sposata al poeta canadese David
Wevill, la coppia si trasferì a Londra dove Assia lavorò per un'industria
pubblicitaria. Nel 1961, la casualità
volle che Assia e David affittassero l’appartamento degli Hughes in Chalcot
Road, mentre Sylvia e Ted si trasferivano nella casa appena acquistata nel
Devon. Furono invitati dagli Hughes a
passare un fine settimana in campagna e, poco dopo, iniziò la relazione tra
Assia e Ted. Scoperto l’adulterio,
Sylvia cacciò il marito di casa.
Al momento del suicidio della
Plath, Assia era incinta di Ted, ma abortì.
Poco dopo, Ted e Assia si trasferirono insieme ai figli di lui a Court
Green, la casa nel Devon acquistata per Sylvia.
Assia era perseguitata dal
ricordo della rivale. Leggeva con
ossessione i suoi scritti e cominciò addirittura a usare oggetti che erano
appartenuti alla Plath. Il 3 marzo 1965,
diede alla luce una bambina, Alexandra Tatiana Eloise, soprannominata
"Shura". Ma, nonostante questo, non fu mai accettata dai genitori di
Ted che iniziarono una campagna di ostilità nei suoi confronti. La situazione domestica a Court Green col
tempo divenne insostenibile. Assia fu
spinta da Hughes a tornare a Londra con la figlia. Qui visse il resto della sua vita insieme a
Shura, figlia che Ted riconobbe ma che non trattò mai allo stesso livello dei
due bambini avuti dalla Plath.
A Londra, Assia vedeva Ted solo
sporadicamente, vivendo in uno stato costante di ansia e tormentata dal terrore
di essere abbandonata. Si trovò isolata,
dovendo anche affrontare serie difficoltà economiche. Negli anni scivolò sempre più profondamente
nella depressione. Spesso menzionava
agli amici il suicidio come unica alternativa alla solitudine e alle difficoltà
che vedeva costellare il suo futuro e quello di Shura.
Il 23 marzo 1969, Assia Wevill si
uccideva insieme alla figlia di quattro anni in un modo che ricorda molto da
vicino il suicidio di Sylvia Plath. Dopo
aver trascinato un materasso in cucina, sigillò porta e finestra, depose sul
materasso la sua bambina addormentata, aprì il rubinetto del gas del forno e si
stese accanto alla figlia ad aspettare la morte. Il suo suicidio fu ignorato dalla stampa
inglese, che mise a tacere ogni connessione fra la sua vita e quella dell’ormai
celebre poeta.
Daniela Raimondi è nata in provincia di Mantova e
ora divide la sua vita fra Italia ed Inghilterra, paese dove ha ottenuto una
laurea in Lingue e Letterature Moderne e un Master in Hispanic Studies presso
il King's College, University of London.
Ha ottenuto il
Premio Montale per una silloge inedita e numerosi premi nazionali e
internazionali sia per la poesia che per la prosa e il teatro. Suoi testi
sono stati tradotti in spagnolo, inglese, tedesco, ungherese e serbo-croato.
E' stata selezionata per rappresentare l'Italia all'European Poetic
Tournment in Maribor (Slovenia), dove ha ottenuto il Premio Del Pubblico (2012).
Ha pubblicato: ELLISSI, (2005); INANNA (2006); MITOLOGIE PRIVATE (2007); il monologo in versi ENTIERRO (2009); il libro-CD DIARIO DELLA LUCE (2011) LA REGINA DI ICA (2012), SELECTED POEMS (2013) e AVERNUS (2014)
Ha pubblicato: ELLISSI, (2005); INANNA (2006); MITOLOGIE PRIVATE (2007); il monologo in versi ENTIERRO (2009); il libro-CD DIARIO DELLA LUCE (2011) LA REGINA DI ICA (2012), SELECTED POEMS (2013) e AVERNUS (2014)
Credo che le recensioni siano utilissime, non solo ai lettori di poesia, ma agli stessi autori. Mi riconosco in quello che scrivi, Stefano, e sento molte verità in questa tua bellissima nota critica, verità che spesso l'autore solo percepisce nei contorni, che scaturisce spontanea nel flusso creativo, ma che solo l'occhio attento e sensibile del critico può catturare e analizzare in modo preciso e distaccato. Sono felice di essere su questa pagina, e non posso che ringraziarti per il tempo e l'attenzione che hai dedicato non soltanto alla Regina di Ica, ma anche ai miei libri precedenti. Concodo che li unisce un filo tematico che ha cucito il mio tessuto poetico di questi ultimi anni. Grazie e un saluto, Daniela
RispondiEliminaautore e critico lavorano insieme per dare massimo risalto alle possibilità della parola. Grazie a te per la bellezza del libro che ci hai donato.
Eliminaecco qualcosa che sa parlarmi strattonandomi il braccio..
RispondiEliminatornerò a leggere per il puro piacere di farlo..
Complimenti a Daniela e alla lettura di Stefano.
RispondiEliminaFrancesco t.
Ciao Francesco, un saluto e ben ritrovato! Daniela
RispondiEliminaFelice di trovare qui da te Daniela, Stefano!
RispondiElimina"La regina di Ica è un viaggio nella natura complessa del femminile, alla sua forza ambivalente, che tiene le briglia al cielo, partorendo, accudendo i malati, sacrificandosi in nome di una parola libera "
in questo passaggio cogli benissimo quello che anche io trovo essere il punto fondamentale della struttura del libro.
Nel suo percorso che dura da molti anni, Daniela ha sempre cercato di comunicare proprio la voce più fonda del sentire femminile declinato in tutte le sue forme.
Ciao Stefano e bentrovata Daniela!
iole
Ciao Iole, la mia scrittura è cresciuta anche insieme a te, e a te devo molto. Grazie per le tue parole e un abbraccio. Daniela
RispondiEliminaE' bello leggere questo vostro dialogo, care Daniela e Iole, vuoi che siete parte della poesia italiana contemporanea, ma non ne fate uno sgabello su cui pavoneggiarvi (come capita talvolta ai poeti maschi)
RispondiEliminaHo provato almeno 6 volte a commentare questo post da un mobile ma non mi dà esito positivo.
RispondiEliminaHo sempre apprezzato la poesia di Daniela perché temi difficili da mettere in poesia, qui sono scritti in immagini così lineari e leggere che pare irreale. Daniela è sempre molto brava in questo. È un lavoro di grande consapevolezza della propria scrittura e del proprio io. Ammiro molto questo tipo di scrittura.
Complimenti!
Anila
Grazie Anila per il commento. Non so perché a volte questo server impedisca i commenti. Spero non ti succeda più.
EliminaCiao!
ciao Anila, grazie per il passaggio e per le tue belle parole. In effetti non tratto i temi piu' facili, ma sai bene che quando la poesia arriva, lo fa nei modi pi'u' inusuali e imprevisti. Un abbraccio e a presto. Daniela
RispondiEliminaSeguo il percorso di Daniela, ammirata dalla sua capacità e sensibilità tutte femminili di mettere in poesia il dolore.
RispondiEliminaGrazie, Liliana. Sai che la stima e l'ammirazione è reciproca. Un abbraccio. Daniela
RispondiEliminaLa scrittura di Daniela è unica nel panorama italiano. Per quell’ancestrale senso del femminile che la pervade, per lo sguardo sapiente su vita e morte, per la speranza disseminata sulla nostra realtà, malgrado la devastazione, come bene osserva Stefano. E poi, quell’incanto del ritmo e della levità della parola. Un libro questo, che ci parla e vive, da tenere accanto.
RispondiEliminaUn saluto caro a Daniela e Stefano,
Annamari a Ferramosca
Ti ringrazio del passaggio e delle tue parole, Annamaria, e ti mando un abbraccio. Daniela
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