Sono tre i temi, per
evidenza testuale e per autodichiarazione youtubiana, che caratterizzano Ablativo (Einaudi, 2013) di Enrico
Testa: il viaggio, il sogno, la memoria. Tre nuclei in cui l’essere altrove
giustifica in parte il nostro essere qui, svegli, agganciati al presente. “Ora
vivo all’ablativo” dichiara Testa verso la fine dell’opera, dando al termine
una polisemia complessa, che coniuga grammaticalmente l’atto del portar via (e
dell’essere portati via) con l’accezione fenogliana di vestire con semplicità, senza narcisismi.
La vita di cui ci
racconta l’autore genovese in questo libro, premio Viareggio 2013, è costantemente
visitata dal ladro, che sono la fuggevolezza del tempo e il disagio
contemporaneo, pronunciata da chi appunto rifiuta l’orpello narcisista per
vedere nel chiaro della vita sincera. Come fecero Saba e Caproni, per esempio.
E c’è, in quello sguardo laterale, la ricerca del varco montaliano e la
presenza-assenza di una forza metafisica non lontana dal dire luziano. “Lo
stile semplice” testiano entra nelle pieghe delle apparenze, ne svela le
inquietudini, racconta l’esistenza piagata della borghesia, senza giudicarla né
giustificarla. In fondo, questo è esattamente il ruolo che assume il poeta
novecentesco immerso nel mondo sensibile, sulla scia simbolista del secolo
precedente; del poeta che diffida delle ideologie e – vivendo nel XXI secolo – della “vischiosa ideologia” che ne ha
decretato la fine; del poeta che trova rifugio negli affetti familiari, pur
avvertendone la precarietà governata dalla perdita; del poeta spaesato, che
crede nella poesia e nella morte quali tensioni metafisiche capaci di tenerci
fuori dal gorgo del “nulla eterno”. E chi non resiste alla tentazione del
buio,come Virginia Woolf, per esempio, qui magistralmente cantata, diventa
eroe, ma senza romanticismo tragico; piuttosto, il suo “naufragio” è
attraversato da una luce benedetta propria ai martiri e a chi ha avuto il
coraggio di accettare la fragilità umana: “Nel buio che l’accoglie / […] /
brilla qualcosa / che dà luce al mondo”.
La civiltà moderna ha
bisogno di riprendere contatto con la propria radice mortale, con
l’imprescindibile tenerezza della caducità, di cui la tecnica vorrebbe essere
il rimedio, compensandola attraverso l’appendice strumentale. Testa ce lo rammenta,
invitandoci a rimanere nell’immersione quotidiana con l’ingenuità del fanciullino dallo sguardo acuto (tra
Pascoli e Magrelli) , che misura il contorno degli oggetti, non per farli
propri, bensì per giocarsi il senso della vita, la quale rimane rapinosa eppure
ricca di spazi abitabili, autentica nella misura in cui non cerca di dominarla
e invece l’accetta e interagisce con essa, nel bene e nel male. Un sentire che
diventa stile, distante dall’agire tecnico del “ceramista solitario / nel suo
studio”, volto invece ad accogliere l’energia viva degli uomini senza potere per
trasformarla in canto. In questo, Enrico Testa assomiglia a Pierluigi Cappello
de Mandate a dire all’imperatore, in
particolare nella prima poesia della sezione Molo di Alcantara e ne “il tempo: quasi trent’anni fa”.
A governare il tasto
dell’inquietudine è l’ombra, che accompagna il viaggio, il sogno e la memoria,
dando il tremore alle innumerevoli manifestazioni del caduco: l’ombra del “gatto
che insegue la lucertola” del “tramonto sulla vetreria”, lo scorrere veloce
delle nubi, la cui ombra lambisce “le giacche ammonticchiate sui cassettoni”,
l’andare “per misteriosi cunicoli” e pensieri, sapendo che l’ ombra, nella sua
fugacità, ci rammenta appunto quanto sia incerta la nostra esistenza. Questo
variare, questa mutevolezza che si sottrae ad ogni previsione quantitativa, si
traduce nella scelta insistita dell’aggettivo qualificativo, il più adatto a
carezzare le cose senza ferirle pur condizionandone la presenza, come se vivere
significasse lasciare tracce leggere sull’opacità della materia, tracce verbali
che vanno a sovrapporsi a quella lasciate dalla luce e dall’ombra, in una sorta
di concertazione naturale e culturale sul vuoto ontologico in cui siamo immersi.
Ablativo riesce in questo intento,
confermando che la linea semplice ma non
ingenua del Novecento italiano è ancora praticabile, e ci parla,
controcanto del decostruzionismo neoavanguardistico, altra via alleata, io
credo, per combattere l’omologazione e la resa alla povertà relazionale
contemporanea.
Da Ablativo
(Einaudi, 2013)
il
cagnetto alla catena
il gatto
che insegue la lucertola
le
settembrine fiorite sulla riga
il
tramonto sulla vetreria…
Quadretti
in genere.
Ma
allora perché c’inteneriscono
sino
alle lacrime?
Forse
perché lì brilla
qualcosa
di nostro e di perduto
volato
via veloce tra le ombre?
**
leggevi,
da ragazza, i romanzi di Bassani:
il
giardino, l’airone, gli occhiali d’oro.
Nella
sala entrava con l’aria fresco-umida
del
bosco vicino il verde delle acacie
a
tingere il bianco delle pagine
del
colore dell’estate e della gioventù.
Io
non c’ero… adesso però sto con te
-
dalla tua parte -
a
passeggio insieme sul ciglio delle lettere
**
dopo
averlo piegato più volte
sino
a farne una striscia sottile
tenevi
il biglietto del tram
(un
tagliando rosa da 70 lire)
infilato
tra la vera e il dito.
Quando
mi portavi per mano
sentivo
grattare sul palmo.
A
volte ancora oggi
sento
lo stesso raspìo
anche
se la mia mano è vuota
e la
tua è solo cenere
e la
vera sta al fondo di un cassetto
in
attesa dei ladri
**
il
tempo: quasi trent'anni fa
tra fine primavera e inizio estate
il luogo: un'osteria deserta
dietro corso Aurelio Saffi
vicino alla Scuola Ortofrenica.
Gerani rossiin vecchie scatole di conserva
tavolini di lamiera smaltata
e, dentro, ancora il rosso
- anche se più spento -
delle tovaglie di cerata.
Il cibo e il vino non erano un granché:
le briciole dimenticate sul pavimento
invitavano i colombi ad entrare.
Si sentiva vicino il mare.
Allora - in quei primi incontri -
successe qualcosa che solo ora ricordo:
dalla pergola della rosa
scendeva un passaggio di luce
che, insieme a te,
immaginavo così dolce e domestica
da fare anche a meno di me
tra fine primavera e inizio estate
il luogo: un'osteria deserta
dietro corso Aurelio Saffi
vicino alla Scuola Ortofrenica.
Gerani rossiin vecchie scatole di conserva
tavolini di lamiera smaltata
e, dentro, ancora il rosso
- anche se più spento -
delle tovaglie di cerata.
Il cibo e il vino non erano un granché:
le briciole dimenticate sul pavimento
invitavano i colombi ad entrare.
Si sentiva vicino il mare.
Allora - in quei primi incontri -
successe qualcosa che solo ora ricordo:
dalla pergola della rosa
scendeva un passaggio di luce
che, insieme a te,
immaginavo così dolce e domestica
da fare anche a meno di me
Enrico
Testa è nato nel 1956 a Genova, dove insegna Storia della
lingua italiana all'università. Dopo Le faticose attese (San Marco dei
Giustiniani 1988), ha pubblicato da Einaudi le raccolte poetiche In
controtempo (1994), La sostituzione (2001), Pasqua di neve (2008),
L'esistenza. Tutte le poesie 1980 - 1992 (2010) e Ablativo
(2013). Sempre per Einaudi ha curato il Quaderno di traduzioni di Giorgio
Caproni (1998) e l'antologia Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000 (2005).
Tra i suoi saggi: Lo stile semplice. Discorso e romanzo (Einaudi 1997), Per
interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento (Bulzoni 1999), Montale
(Einaudi 2000), Eroi e figuranti. Il personaggio nel romanzo (Einaudi
2009), Una costanza sfigurata. Lo statuto del soggetto nella poesia di
Sanguineti (Interlinea 2012), L'italiano nascosto. Una storia
linguistica e culturale (Einaudi 2014).
Mi meraviglia il fatto che sinora non ci sia stato alcun commento a questa nuova proposta di lettura. Forse dipende dal fatto che la recensione è talmente esaustiva e le poesie così belle che non si trovano parole o che altro?... Ciao, Stefano,e sempre un grazie per il tuo prezioso lavoro, Rosa
RispondiEliminagrazie Rosa. C'è sempre tuttavia qualcosa da dire, senza per forza contraddire. ciao!
EliminaD'accordo! Hai chiarito meglio il mio pensiero, Rosa
EliminaLa bellezza non deve essere necessariamente nuova, che tanto non lo resterà per molto... credo che saper dire la semplicità che più affonda nel malessere, sia un bel dono..
RispondiEliminaessenzialità di una terra che ben conosco.. :)
se dici così, significa che bellezza è sorella della moda, come la morte.
Eliminaoh no.. tutt'altro. devo essermi espressa proprio male, intendevo solo che il 'nuovo' non rimane tale per sempre.. e che la bellezza è bellezza in sé, al di là di ogni moda, appunto.. (perdona la difficoltà nell'esprimere i miei pensieri)
Eliminavoglio rompere le scatole: ma la bellezza in sé, come facciamo ad avvicinarla, noi che siamo mortali? Dio è la bellezza in sé, e infatti ci acceca. Quindi non possiamo vederlo. Mi sa che dobbiamo accontentarci della bellezza relativa. quindi è vero: bellezza e moda sono quanto possiamo godere senza rimetterci la vista. :-)
Eliminaforse un archetipo, un'eco, una specie di memoria del divino, ancora ci abita.. ma non volevo spingermi così lontano.. :)
Eliminaviviamo nel tempo della povertà, dice Hoelderlin, il tempo degli dei fuggiti. compito dei poeti è conservarne le tracce e tramandarle ai mortali. Sei hoelderliniana :-)
Eliminauh.. ovviamente non lo sapevo, che bello..
Eliminaposso metterlo nel curriculum? :))
(insieme alle cicatrici dei dialoghi con Leucò)
:-)
Eliminache bellezza di lettura, caro Stefano!
RispondiEliminaProvo, da lettore che prova a scrivere, ammirazione profonda per “lo stile semplice” del poeta. Grazie
r
la semplciità: un grande mistero. grazie per il commento.
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