Da
qualche tempo, da molto tempo, scrivo in prosa. Due romanzi inediti finalisti
al “Premio Calvino” e uno segnalato nel 2013. Pubblicazioni? Zero. Diamo per
possibile che ai premi concorrano autori inediti e perciò non necessariamente
bravi. Diamo per probabile che io non abbia talento oppure che i poeti, posto
che io lo sia, in genere non riescano a scrivere per tutti e nemmeno sappiano
organizzare la complessità della scrittura narrativa. Di questa mia privatissima condizione non
voglio tuttavia parlare. Mi limiterò invece a presentare il contesto in cui
essa si muove e ad esprimere alcune considerazioni in margine.
Parto
dall’innegabile crisi dell’editoria italiana, evidente anche all’ultima “Fiera
nazionale della piccola e media editoria”; Giovanni Peresson, responsabile
dell’ufficio studi dell’AIE (associazione italiana editori), segnala un calo
delle vendite medie, nel periodo 2000/2013, pari al -35,7%. Federico Di Vita
(autore di Pazzi scatenati. Usi e abusi
dell’editoria italiana, Effequ edizioni), nel sito “L’inkiesta.it”, conferma
i dati: “A fine ottobre si registrava un calo di fatturato annuo
del 6,5% – parliamo di circa 65 milioni di euro in meno rispetto al 2012 –
flessione che giunge fino al –13,8% nei confronti del 2011)” E ci fornisce il
numero di copie vendute in media per ciascun titolo: “Nel 2011 erano 89 (e
anche allora erano poche: parliamo di media e nella media c'è anche Gramellini
– per intenderci), già nel 2012 scendevano a 82 per arrivare alle appena 76
registrate nel primo quadrimestre del 2013.” A questa caporetto, fanno pendant
le cause legali aperte dagli autori per il mancato pagamento delle royalty e degli eventuali anticipi.
A
vivere relativamente meglio sono i grandi editori. In un’intervista uscita
l’altro giorno su “gliamantideilibri .it” tre editor, pur ammettendo il calo
complessivo delle vendite, si dichiarano soddisfatti dei profitti ottenuti.
Gianluca Foglia (Feltrinelli) ricorda le 500 mila copie di Roberto Saviano con ZeroZeroZero e
le 200
mila de
Gli sdraiati di Michele Serra. “Buoni
anche Massimo Recalcati, Chiara Gamberale e la coppia Gian
Antonio Stella e Sergio Rizzo.” Si noti tuttavia che questi sono quasi tutti
libri non-fiction. Dal canto suo Elisabetta Migliavada (Garzanti), ribadisce
che la narrativa non va affatto male: Clara Sànchez con Entra
nella mia vita e Il profumo delle foglie
di limone
è in classifica da tre anni e vanno bene anche Andrea Vitali con Un bel sogno d’amore e Di
Ilde ce n’è una sola. A stare in
classifica (e in testa alle vendite Garzanti) sono inoltre
Sara Rattaro con Non volare via e Vanessa Roggeri
con Il cuore selvatico del ginepro. Addirittura
Michele Rossi, editor della Rizzoli, dichiara che “quest’anno è stato piuttosto
straordinario perché siamo riusciti a guadagnare molto rispetto alla quota di
mercato dell’anno scorso. Noi abbiamo avuto Gianrico Carofiglio, Walter Siti
con il premio Strega, Silvia Avallone, Dacia Maraini. La sorpresa è stata la
trilogia di Irene Cao.”
Accidenti,
mi viene da dire, ma allora la narrativa italiana non è morta! E, a quanto
pare, non bisogna per forza scrivere come Volo o Faletti per vendere. Tra
l’altro, Rossi dice una cosa che merita attenzione ossia che nemmeno il romanzo
storico è morto, tanto è vero che Dacia Maraini ha scritto un libro
su Chiara D’Assisi, “ (che per altro sta andando molto bene) in cui lei, laica,
femminista, atea, si confronta con una figura storica. Usciranno poi Giancarlo
De Cataldo, che parlerà di Pertini da giovane con Il combattente,[…] Avremo anche un’esordiente: Sara Loffredi con
il romanzo La felicità sta in un
altro posto. È un romanzo storico tutto femminile, […] ambientato tra il
terremoto a Reggio-Calabria nel 1908 e la Napoli dei bassifondi.”
Se
questi sono i dati contestuali, rispetto al mestiere della scrittura occorre
aggiungere che una certa omologazione degli stili è comunque in atto da molto
tempo in Italia: un’Horcynus Orca
(Stefano d’Arrigo) o Il sorriso dell’ignoto marinaio (Vincenzo
Consolo) – siamo negli anni Settanta – oggi non si scrivono perché nessuno li
pubblicherebbe (scrittura troppo difficile) e perché, anche chi volesse
tentare, ha tempi di consegna troppo stretti, inconciliabili con la
progettualità del capolavoro. Meglio allora una scrittura piana, con poche
subordinate, un lessico non superiore alle 7000 parole, sentimenti e identità
ben riconoscibili e sulla soglia dello stereotipo, storie forti in cui
l’immedesimazione con l’eroe o l’antieroe sia garantita. Sotto questo profilo,
la responsabilità dell’omologazione è dei grandi editori, che, in tempi di
crisi, non vogliono rischiare, preferendo il noir, il poliziesco, il
sentimental, l’autobiografia del personaggio noto (purché scritti in un
italiano sorprendente ma non spiazzante, vivace ma non libero di crescere a
dismisura; per tornare a quanto appena accennato: potrebbe mai uscire, oggi, un
romanzo come Vita e opinioni di Tristan
Sendy, gentiluomo, di L. Sterne? Oppure, per restare in Italia, il Calvino
di Se una notte d’inverno un viaggiatore?).
I piccoli editori seguono a ruota, patendo la concorrenza delle majors e, per
supplire la mancanza di capitale e di idee, obbligando gli autori a comprare
numerose copie.
Suggerimento:
i principali editori (quei cinque o sei che monopolizzano il mercato)
potrebbero finanziare i piccoli affinché questi ultimi scoprano nuovi talenti
da immettere successivamente sul grande circuito. Anziché rubarsi la stessa
fetta di mercato, i piccoli editori assaggiano i gusti e lanciano proposte,
anche sperimentali; i grandi editori, poi, le sostengono, dando visibilità
maggiore e possibilità ai nuovi autori di formarsi con la calma necessaria,
senza bruciarsi nell’opera prima. Su quest’ultimo aspetto concorda anche
Michele Rossi nell’intervista già citata: ““A mio avviso la risposta allo stato attuale
del mercato sta […] nel non sovraccaricare autori esordienti di responsabilità
che non hanno, come invece abbiamo fatto negli ultimi anni, distruggendo un
bioma delicatissimo, perché se si promuove ogni titolo lanciandolo come un
successo annunciato, quando poi non succede, si finisce con il bruciare degli
autori, tagliando una foresta primaria che non ricrescerà più. “ Ripeto: questa foresta nasce in genere sul
terreno fertile ma incerto dell’editoria minore, che non ha sufficiente
capitale e cultura manageriale per promuovere i libri che stampa.
Esiste infine una responsabilità delle
agenzie letterarie, che spesso mancano di incisività e progetto, limitandosi a
prendere atto delle condizioni critiche del malato e a proporre le medicine che
troveranno uno stomaco già preparato a riceverle. Credo che un agente dovrebbe
avere una propria idea sulla letteratura, dovrebbe credere in essa e
promuoverla. Se la pentola non ha lo standard di qualità che ti sei prefissato,
dico io, non metterla in catalogo. Se ti interessa, difendi la tua scelta con i
clienti, convincili a investire. Per fare questo, fuori di metafora, bisogna
conoscere benissimo i propri autori. Bisogna averli letti e aver discusso con
loro le singole pagine. Bisogna essere convinti che quel romanzo che hai messo
in catalogo non è soltanto conforme ai gusti del mercato, ma è, prima di tutto,
un romanzo su cui tu scommetti come intellettuale prima che come imprenditore.
Trovare responsabilità degli autori è certo
possibile, ma mi sembra evidente che essi siano la parte più debole del
processo, un processo produttivo-distributivo che oramai non ha più nulla di
artistico, se non per accidente, anche a causa della managerialità dei
direttori di collana, ragionieri prima che intellettuali, lontani anni luce da
un Vittorini o un Calvino, tanto per citare uomini e soprattutto un’epoca in
cui la scrittura aveva il compito di riorganizzare la cultura nuova,
antifascista e progressista. Forse oggi, sotto questo profilo, le cose sono
molto cambiate? Ricordo quando scrisse Pasolini in Scritti corsari: “Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò
che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. […] Il Centro ha
assimilato a sé l’intero paese” ha imposto cioè i modelli ”voluti dalla nuova
industrializzazione, la quale non si accontenta più di un ‘uomo che consuma’,
ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo.”
Anche l’editoria adotta questa logica, devastante perché annulla la specificità
di ciascuna area socio-economica e nega il pensiero antagonista, identificando
il bello con il consumabile, e il valore estetico con la valore commerciale. La
deriva si argina non scaricando sul mercato la mancanza di idee e di coraggio,
ma rifondando la funzione intellettuale della cultura come lo fu l’Einaudi dei
“Gettoni” e la Feltrinelli degli anni Sessanta.
Ciao gugl,
RispondiEliminasono Federico di Vita e ti ringrazio della segnalazione. Mi preme però indicare che esiste – da un anno – una nuova edizione di "Pazzi scatenati" uscita per l'editore Tic ( http://e-commerce.ticedizioni.com/libri/15-pazzi-scatenati-di-federico-di-vita-9788890644030.html ). Lo dico perché si tratta di un libro in cui hanno una certa rilevanza i dati, che sono più freschi nell'edizione più recente.
grazie per la segnalazione. Rimando ai lettori il link che segnali.
Eliminaottima disamina.
RispondiEliminama credo che mai le grandi case editrici si faranno carico di supportare il lancio di esordienti. e non si tratta solo di rischio economico, ma intellettuale. che non esiste praticamente più, come dici tu stesso nel post.
forse solo Adelphi assolve a questa funzione.
beh, esordienti ci sono in tutti i grandi editori. prova a verificare.
RispondiElimina