Sin dal titolo, Bruciare
l’acqua (Edizioni della Meridiana, 2008), Alessandro Polcrì evidenzia la
sua postura di credente eretico, che sfida il numinoso, pur temendolo, pur
amandolo. Un ossimoro frequente in chi crede per necessità interiore e vive la propria
intelligenza come se fosse la leva capace di farlo sprofondare nel nulla in
ogni momento. Forse per questo, il fuoco
e l’acqua del titolo vanno letti con tutta l’ambiguità propria ai simboli: il
fuoco dell’inquisizione (della violenza) è anche il fuoco della purificazione
(della salvezza) e l’acqua della benedizione porta nelle pieghe la morte per
diluvio, tanto che potremmo pensarli incrociati come i legni del Cristo sul
Golgota, cifra del viaggio narrato in questo libro, viaggio sì dantesco, ma in
orizzontale, e non nel deserto dell’espiazione, bensì dentro il recinto della
casa, della domus romana, per la
precisione, dall’esterno al cuore, dalla zona liminare (Fauces) a quella Exedra, che
costituisce la meta ultima in cui la pace, pur parziale, si dà nella
conciliazione dialogica fra anima e pensiero, fra eternità e caducità.
In quella porta infernale raccontata nel primo capitolo, Polcrì entra
spesato, diviso in corpo che va e coscienza che lo segue, lo interroga, agendo
in uno spazio reso vivo dalla luce e dall’ombra, necessarie entrambe a dire del
tempo la sua duplice maschera: la seduzione del futuro e l’orrore di cui è
fatto il passato; ma anche: la paura del non-ancora e la quieta certezza del
già-accaduto e del mai-più. Di nuovo la figura del doppio, degli opposti che si
cercano senza annullarsi, emblemi dell’inspiegabile, presenza pervasiva e
polimorfa in questo libro.
Lo
stile non fa volutamente i conti con l’ombrosa selva esistenziale messa in
scena, con le crepe del vivere: l’autore adotta infatti una sintassi alta,
tonda, raramente franta da cacofonie (spesso ottenute con inserti di lingue
altre: l’inglese, il latino…) o a-capo irregolari. Polcrì insomma crede nella
lingua, nella sua alta funzione morale e civile; ma, essendo un moderno, la
crepa la mostra lo stesso, anzi ci si incista, dando al messaggio il compito
più gravoso: quello appunto di portare le stimmate, di mostrare i chiodi; senza
tragicità, piuttosto con ironia. La si vede per esempio nella nominazione di
funzioni corporali poco cortesi: “ è come ricondurre / tutto il raro fiato
esterrefatto / al naso dopo uno starnuto / o ringhiottire il filamento di uno
sputo” e nell’antisublime di un
passaggio come questo, dove all’anima “spetta il lambire, lo struscio, / il tip
tap / che s’appropria della superficie”.
Anche
il mito non è escluso da questo viaggio; ecco allora l’abbraccio della dea,
forse Afrodite amorosa, e Poseidone, dio del mare e dei terremoti: due divinità
in cui acqua e fuoco convivono e perciò perfetti per accompagnare l’io tremulo
in questo avanzare verso il cuore di
tenebra dell’incontro con se stesso, alla fine salvifico, ben lontano
perciò dell’inquietudine immedicabile dei moderni senza dio, come Conrad o
Beckett, ma non per questo impraticabile, se chi lo intraprende affonda le
radici nella tradizione cristiana.
Da
Bruciare l’acqua (Edizioni della
Meridiana, 2008)
V.
Traccio un cerchio
sul bianco
foglio come usavano
in antico
i geomanti sulla
rena
e butto lì parole e
le assedio col pensiero
per dar loro una
forma che tenga.
Fuori del segno non
c’è
commistione di
verbo e di significato
ma solo il guazzo
fonico prenatale,
un tempo sì
angelico messaggio,
ora solo
chiacchiericcio della mente,
occhio che si apre
e non guarda,
scarpa slacciata
infedele al passo
che si ostina ad
avanzare,
labbro leporino che
si oppone
al continuum della
voce modulata,
incisivo
sbriciolatosi
per troppo ingordo
morso
su cui la lingua
indugia
distratta dal suo
vero corso,
albatros che canta,
malgrado l’amo nel
suo becco
resto di un pesce
sfuggito all’inganno.
umbrifera violenza
Non ti domandare a
che valgano
gli spazi scuri tra
le zolle della terra
dove mai la luce
s’intrattiene di passaggio,
antri voti vote
polle che risuonano
strano al cieco
colpo del vomere,
si ribaltano e si
mischiano vani,
l’acqua li schiva
ma li sovrasta la lucertola
protesa al baldo
raggio del sole.
Solo il seme
seminato vi si lascia vivere
per poi ergersi al
di sopra
gettando roco
l’ombra che discaccia
il freddosangue
viso di quell’ospite
osteso sul vuoto
senza forma
che ha generato silenziosa la vita.
Sotto la coperta della terra il corpo
è raggiungibile dal pensiero e dalle lacrime
Cos’è più forte di
una perla d’acqua
penetrante tra le
spanne del catrame
strame sopra quel
carcame ribollente?
Cos’altro può
diventare il corpo,
incarnita e debole
gerla,
se non, dentro
l’urna ancora calda
degli spasimi
mondani,
una gorga di sodale
umore
dove tutti buoni o
cani
diveniamo acque
silvestri?
Non tremeremo più
sotto la luna
allo scrollarsi al vento d’una canna.
memoria
Si ricorda forse il
ramo
del flusso che lo
ha attraversato
poi che il vento
s’è acquetato?
o la riva del fiume
trattiene ancora
tracce
della carezza delle
acque?
resta all’abbraccio
dell’onda
memoria del taglio
perpetrato
dallo scafo
passeggero?
e l’asfalto appena
penetrato
dallo zoccolo
conserva
forse pura quella
forma?
e tu, che mi sei
compagno,
quando sollevi la
tua testa dalla gogna
ti rammenti mai di esser nato schiavo?
passeggiata su una superficie
B
Terra invisibile e
confusa
è quella che
sottostà del piede
alla pianta che si
spande sulla neve:
l’occhio non la
penetra
sfugge alla luce
che rimbalza briosa
sul clangore del
bianco,
ma il sasso vi
s’acquatta
coperto dal
mantello sensibile alle suole:
io lo fendo e lo
imprimo di una traccia
che si scioglierà col primo sole.
from soul to body
Mi auguro di
trovarti mansueto al colpo,
di vederti ritto e
fiero di fronte all’ondata,
di ascoltare le tue
parole d’acciaio
temprate
dall’esperienza del dolore;
mi aspetto che tu
abbia della corsa
una visione
completa
e del macabro
rituale una nozione minuta;
non temo che ti scosti
dal ciglio della strada
che hai progettato
per te medesimo,
né che poi ti perda
nel fitto dei tuoi
umori giornalieri;
ti intravedo sulla
cima
colpito da furiose
libecciate
che neppure a te il
tempo risparmia,
a te fermo e
industrioso e muto
come le api nella
affollata arnia mute.
Se colpo ci deve
essere
non temo che tu sia
incerto
dove accettarne il
vibrato
così che calmo ma
esperto
tu opponga a quella
atroce insistenza
del tuo fianco il
lato
mai veramente
stanco.
E quando ti
volgerai intorno
a cercare il
contatto dei miei occhi
per tentar di
condividere la mole
che ti ha reso puro
sarò dove meno te
lo aspetti
ombra sul muro
nascosta sulla soglia del sole.
Congedo
Ho cercato di te
tutte le immagini
che ho potuto,
sei stata ogni
evanescenza:
l’ombra che passa,
l’ultimo smalto di
luce
sull’occhio del
morituro,
la scritta erosa
sul muro millenario
e la cifra
cancellata
sotto le parole
vergate
sulla lista della
spesa;
l’esile vita di una
goccia
che toccando nella
pozza
il fondo motoso si
disperde
come fiamma invano
immersa
a bruciare l’acqua;
ma sei sempre
rinata altro,
altrove nascosta,
accennata appena
quando hai voluto
concedere
di te un qualche
sprazzo
della veste con cui
adorni
le tue carni
misteriose
che non lasciano
orma
o traccia e non
segno di passaggio
ma solo un’eco
spirituale,
un maestrale di
spiriti gentili,
di illuminanti
amnesie
e di fiotti di
energia
che doni a chi non
sa
di ricevere, né può
saperlo;
cosa sei e non sei
è tua esclusiva
padronanza:
solo il mare
possiede vera
la percezione della
riva,
chi approda invece
è accompagnato
dalla corrente
proprio dove
il tocco dell’onda
sulla sabbia
è palmare, estesa,
sensazione preclusa
al piede che incide
e non carezza;
quanto a me posso
tagliare il tempo,
non altro, che mi
resta con coltelli-parole
lame fendenti nel
corpo vuoto del giorno,
ma a te sola spetta
il lambire, lo struscio,
il tip tap
che s’appropria
della superficie
senza mai
manometterne
la pura pellicola invisibile.
Alessandro Polcri (Arezzo, 1967).
Vive tra New York e Sansepolcro (AR). Si è laureato all’Università
di Firenze in Letteratura Italiana del Rinascimento. Ha conseguito un PhD in
Letteratura Italiana alla Yale University ed è ora professore associato di
Letteratura Italiana alla Fordham University di New York. È redattore
di Interpres (rivista di studi quattrocenteschi) e
condirettore della rivista Italian Poetry Review e di Ungarettiana collana
di poesia, traduzioni e saggi. Oltre ad avere curato alcuni volumi di saggi e
avere pubblicato numerosi contributi di àmbito rinascimentale (tra cui saggi su
Pulci, Boiardo, Ficino, Folengo, Cosimo de’ Medici, Martino Filetico, il
dibattito sulla Magnificenza a Firenze), è autore del volume Luigi
Pulci e la Chimera. Studi sull’allegoria nel “Morgante”, Firenze,
Società Editrice Fiorentina, 2010 (menzione speciale al Premio della Modern
Language Association Aldo and Jeanne
Scaglione Prize for Italian Studies, 2011).
Si occupa attivamente anche di poesia contemporanea: oltre al
libro di poesie Bruciare l’acqua (prefazione di Alberto
Bertoni, Firenze, Edizioni della Meridiana, 2008, finalista al Premio
Mario Luzi 2009) è presente nella antologia Poeti italiani negli States (numero speciale della rivista In
forma di parole, XXX,4, 2010). Con una selezione di inediti dal
nuovo libro è stato finalista al Premio Bazzanopoesia 2010.
Bellissime poesie, brillanti anche del suono puro della lingua toscana (e non è merito di Polcri), ma merito suo, e rilevante, è di renderci chiara ogni difficoltà interpretativa di certe emozioni complesse, nelle quali il tono è molto alto.
RispondiEliminaCristina Annino.
mi è "sfuggito dalla penna" ammettere il piacere che da ogni volta la lettura critica di Guglielmin, che anche qui ripropone la sua acutezza. grazie.
RispondiEliminaCristina Annino.
grazie a te, Cristina.
RispondiEliminaSì, è vero: è sempre alta la qualità degli autori proposti ed illuminante, oltre che attenta, la presentazione di Stefano Guglielmin.
RispondiEliminaColgo l'occasione per rivolgere un caro saluto ad Alessandro Polcri.