Vivide meditazioni
La poesia è un mondo che è anche
la maniera di costruire quello stesso mondo: ecco un virtuale (non breve)
sottotitolo di Meditazioni sul poetico, complesso e affascinante libro di
Antonio Prete.
L’universo dei poeti esiste
perché i poeti esistono: non è banale dirlo.
I versi, in genere, concedono
molto e poco alla descrizione.
Molto, perché la loro creatività
consiste in un esprimere per via di parola, poco, perché il loro rivolgersi a
un oggetto è del tutto originale.
Faccio un esempio.
Descrivere un sentimento è arduo
e pure, in apparenza, facile: l’interiorità umana è ricca di molteplici tratti
intrecciati, ciononostante si trovano nel linguaggio, senza difficoltà,
vocaboli che si riferiscono a sensazioni, emozioni, eccetera.
Il poeta, per Prete, sta come nel
mezzo: adopera le parole essendo ben consapevole della magmatica complessità
dell’esistere.
Non rifiuta la logica, la supera; non usa uno strano e incerto
idioma, è preciso fino all’intransigenza.
Leggo a pagina 84:
“La parola nostalgia comincia a
sfumare dall’ordine clinico all’ordine di un sentire che, se è ancora turbato,
ha tuttavia elementi di affettiva, e talvolta dolce, rammemorazione. La
nostalgia da malattia diventa sentimento”.
Le parole sfumano e, modificandosi, rappresentano
e sono la nostra vita.
Il poeta, più che al
rappresentare, punta all’essere e, anche se talvolta sembra schivo, non si
dimentica mai degli altri, al contrario, partecipa con intensità a un esistere
che avverte quale tendenzialmente coincidente con una lingua multiforme,
aperta.
Leggo a pagina 133:
“Allontanandomi nel viale, tra le
piante, il libro tra le mani: come lo straniero. Come lo straniero che non sa
ancora quanto irrevocabile sia l’addio appena consumato”.
Non pochi pensano che gli uomini
siano sempre un po’ forestieri sul pianeta Terra:
il nostro autore, però, si
riferisce a ben altro.
Ogni addio è irrevocabile come
ogni gesto, poiché lo scorrere del tempo rende unici tutti gli istanti.
Ma “lo straniero” non lo “sa
ancora”: tuttavia quando scrive (e quando il lettore legge), lo sa.
Una mancata conoscenza e il suo
contrario si riflettono reciprocamente in poche righe.
Affiora un’ambivalenza che non
affonda le sue radici in un cortocircuito logico (la forma è piana e
comprensibile), bensì in una vivida modulazione della scrittura come della
vita.
Leggo a pagina 138:
“Il “luogo” che si cerca ha
rifrazioni infinite, sta innanzitutto dentro di noi e ha il ritmo del ricordo,
o anche del sogno”.
Siffatte “rifrazioni infinite”,
come, in genere, tutti i riverberi, sembrerebbero a prima vista incapaci, da
sole, di definire uno spazio, nondimeno, se abbiamo abbandonato certi rigidi e
impoverenti canoni, scopriamo che è
proprio così e che “innanzitutto”, l’umana interiorità non è priva di
luminosa ampiezza.
Il “luogo” è anche “ritmo del
ricordo” e “del sogno”: occorre riconoscersi appieno in tutti i propri aspetti
per comprendere davvero la natura dell’esistere.
La poesia, dicevo all’inizio, è
un mondo che è anche la maniera di costruire quello stesso mondo e,
aggiungerei, consiste in un’invenzione
che è un vedere meglio quello che c’è già,
in un soffermarsi con affettuosa e creativa consapevolezza sugli attimi persistenti e infiniti di cui si compone
la vita.
Le “Meditazioni” di Antonio
Prete, per via del loro pregnante soffermarsi su temi generali e specifici, su
singoli poeti e su numerose opere, per via della loro partecipe complessità
capace di sciogliersi in intensa empatia, mostrano, in maniera chiara, una
volta di più, che la poesia è anche una forma di vivida conoscenza.
Marco Furia
da Antonio Prete, Meditazioni sul
poetico (Moretti & Vitali, 2013, pp. 187, euro 16,00)
Un tappeto per il passaggio dell’ombra verso il volto, dello
straniero verso il tu. Risonanza nel silenzio dell’io, di una voce che mostra
l’invisibile che unisce l’io e il tu, il vivente che è riverbero di confini,
trasognata appartenenza all’impossibile.
Nell’espressione “lingua materna” si dispiega un’esperienza
affollata di voci e gesti, di scoperte e incantamenti, di malinconie prive di
nome, di attese spaventate dai fantasmi dell’inaccaduto. Esperienza di un tempo
che, in un certo senso, non è ancora tempo: al di qua, dunque, della scansione,
del traguardo, del passaggio. Tempo senza orologio, immobile: ma, in quella
immobilità, si aprono ventagli di suoni, sinopie di ricordi, inseguirsi di
voci.
Nella metafora ci
sono tracce dell’intesa tra il vivente e il linguaggio. Per Vico la tentata
riduzione del mondo ai sensi, e la descrizione delle cose a partire
dall’universo corporale, sono i due movimenti con i quali il linguaggio si
costituisce, la conoscenza si forma. Il corpo come recinto di una mutazione del
vivente sensibile nel vivente linguistico, ma anche come opaca transenna che
divide l’enigma della physis dalla
sua morfé, dalla sua apparenza, dal
suo mostrarsi, e separa l’energia dell’universo dalla sua lingua. Le “cose
insensate” da una parte e il senso e la passione dell’uomo dall’altra si
incontrano nello specchio del corpo. Ma in quello specchio si riflettono anche,
in una vertigine d’angoli e di colori, le figure sfuggite all’oblio.
Anche la parola di Char come quella di Leopardi (uno dei
suoi “ascendenti”) è sorvolata da stelle, “der
sternüberflogene wort”, per usare le parole di Celan. Ma non c’è in Char
una crittografia stellare, un enigma stellare: nessuna devozione da
decifratore. L’elemento astrale è sulla terra, sulle acque, nei colori delle
albe. Le stelle dormono sopra i cespugli e sopra le sabbie. Non sanno del
destino, sanno della fatica dell’uomo.
Di Yves Bonnefoy potrei dire quello che Nietzsche diceva di
Leopardi: amo i poeti che pensano. Infatti la poesia di Bonnefoy è un pensiero
che mentre evoca presenze interroga i confini stessi del pensiero. Mentre
ospita un albero, una pietra, uno spicchio di cielo, un colore scrostato di
pittura, si spinge sulla soglia dell’invisibile, leggendo le sue ombre. Mentre
ascolta un passo nella sera, un rumore di vento o d’acqua, mentre accoglie
figure provenienti da un sogno, cerca un radicamento nel qui, nella opacità
della terra. E allo stesso tempo libera l’ala dell’altrove, il pensiero
dell’impossibile. E tutto questo accade nel ritmo aperto, da adagio
meraviglioso, del verso. O nel ritmo di una prosa che ha portato la tradizione
francese dell’essai, del saggio,
verso forme nuove. Verso forme in cui la descrizione di un’opera d’arte è
racconto, il ricordo è meditazione, l’analisi è evocazione di figure e di
luoghi, insomma la scrittura è esercizio di una libertà inventiva estrema, ma
anche discreta, quasi confidenziale: esperienza che mette in campo un sapere
conoscendo la fragilità del sapere, la sua debolezza dinanzi alla presenza
insondabile del vivente.
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