Mi scrive di recente Giuseppe Cornacchia: "Sono stato sollecitato da alcuni post recenti su “Nazione Indiana” circa la neoavanguardia, la sua eredita’ e lo scontro col lirismo-paroliberismo. Ho dunque avuto modo di rivedere le mie noterelle teoriche costruite negli ultimi anni. Vorrei adesso organizzare un articolo formale in modo da non perdere il lavoro. Credo dunque sia il momento giusto per rispondere alla tua lettera aperta su razionalita’ scientifica e pensiero della poesia che mi indirizzasti qualche anno fa, tramite la rivista “Atelier” n.50, del giugno 2008."
Colgo l'occasione per ripubblicare quella "lettera", poi uscita, in altra veste. in Stefano Guglielmin, Senza riparo. Poesia e finitezza (La Vita Felice, 2009)
Razionalità scientifica
e pensiero della poesia (lettera a Giuseppe Cornacchia)1
Caro Giuseppe,
vorrei proporti alcune mie considerazioni, nate
intorno al tuo intervento al convegno su La responsabilità della poesia. Di
cosa siamo poeti?, organizzato qualche anno fa da «Atelier»2.
Mi preme soprattutto esplicitare il nucleo verità e scienza, da te appena
accennato eppure fondamentale per comprendere la differenza fra la razionalità
scientifica e il pensiero della poesia.
Entrambi condividiamo l'assunto
dell'epistemologia post-positivistica secondo la quale nessun sapere ha
l'esclusiva sulla verità. Mi viene in mente in particolare la posizione di Karl
R. Popper a proposito dell'oggettività della scienza: essa, afferma, «non è una
faccenda individuale» bensì riguarda l'«amichevole-ostile divisione del lavoro»
degli scienziati, «e quindi dipende, in parte, da tutta una serie di condizioni
sociali e politiche, che rendono possibile questa critica»3.
Vorrei approfondire ulteriormente - non tanto a
te che ben conosci la cosa, ma ad un potenziale lettore in cerca di risposte -
la posizione del filosofo austriaco appunto perché tiene aperta la relazione
fra conoscenza e linguaggio, ma in un'accezione assai differente da come la
istituisce il poeta. Allora, posto che l'oggettività sia espressione della
democrazia (la «società aperta», che difende la libertà di scelta individuale
dalle chiusure totalitarie), bisogna ora chiarire quale logica la fondi.
L'unica valida - scrive Popper, capovolgendo la procedura induttiva che fonda
il criterio di verificabilità - è la «logica deduttiva», nella quale «se le
premesse di una deduzione valida sono vere, deve essere vera anche
la conclusione»4. La confutazione mira a mostrare la contraddittorietà
delle conseguenze e cioè: se le conseguenze sono false (inaccettabili dal punto
di vista logico) vuoi dire che false sono anche le premesse. In questo senso,
l'esperienza (il vedere, il toccare ecc.) non è il punto di partenza della
conoscenza scientifica, bensì il punto d'arrivo. L'avvio è sempre
proposizionale, attraverso un procedere per enunciati elementari, aventi la
forma di «asserzioni singolari non autocontraddittorie» (es. in via x abita y;
il treno è partito alle 10,40 ecc.)5.
Il principio di falsificazione popperiano,
tuttavia, non si limita ad affermare che «una teoria è falsificata soltanto se
abbiamo accettato asserzioni-base che la contraddicano»6, bensì
ribadisce la necessità di scoprire «un effetto riproducibile che confuti la teoria».
Insomma, se esiste un evento falsificante rispetto ad una teoria e se abbiamo
individuato asserzioni-base che contraddicono l'ipotesi di partenza, allora la
teoria è scientifica e questa costituirà un passo ulteriore delle conoscenze
umane verso una verità oggettiva mai raggiungibile completamente (per questo
egli preferisce parlare di «verisimiglianza»)7. Quanto invece non
rientra in questa procedura non è scientifico, bensì appartiene alle verità
dogmatiche o metafisiche: verità certamente sensate (cioè che noi possiamo
comprendere perché logicamente ineccepibili), ma che non possiamo confutare e,
dunque, definire scientifiche. È per questa ragione che Popper nega lo statuto
di scienza sia al marxismo e sia alla psicoanalisi, essendo appunto apparati
proposizionali che hanno un'impostazione di tipo teologico o, quantomeno,
«teistico», e ciò impedisce di individuare un evento o un'asserzione-base - un
«falsificatore potenziale» - capace di confutarle8.
La questione, per la poesia, è sostanzialmente
differente: essa infatti - almeno per il modo in cui la intende una certa
tradizione giunta a compimento nel Novecento - non risolve né pone problemi,
non decostruisce fenomeni e nemmeno li ricompone logicamente. La poesia dunque
non ragiona (cioè non lega elementi noti per produrre l'ignoto, che pure era
presupposto nella formulazione del problema), ma pensa direttamente
l'infondato, che è l'uomo stesso nel suo essere qui, davanti al foglio bianco,
in una tonalità affettiva imprescindibile, ma anche imprendibile nella sua
radice e che il linguaggio trattiene nella rete multipla delle sue
regole. Ciò che il poeta conosce è la vertigine di quel trattenere senza
proprietà, che è pensiero ossia dialogo sguarnito di protezioni con la parola
che avanza, che chiama alla responsabilità dello stile. E dunque scrivere
poesie non significa additare qualcosa che si ritiene vero, conoscendolo
attraverso il doppio cappio della nominazione e del metodo, e nemmeno, più
semplicemente, consiste nel tradurre il mondo «a chi non capisce o non ha la
sensibilità» per farlo9, bensì si concretizza nel lasciar-essere ciò
che siamo nella sorpresa che questa esposizione comporta, uno stare dis-locati
eppure adesso e qui (qui nella mia città, con l'acqua che manca, oppure che
abbonda, con mia moglie o senza mia moglie, con un libro in mano oppure nel
bosco, con la paura del nucleare o con l'entusiasmo per la sua possibilità
complessiva). La poesia mette al mondo questo incontrarsi multiplo di
possibilità, mosso e patito dal poeta, sorta di «apparecchio sensibilissimo»
che, come scrisse Antonio Porta, percepisce «il movimento nel suo stato
nascente»10. In quanto auctor, tuttavia, egli conosce una
tecnica per conservare tale complessità; ed è a questo livello che la
conoscenza strumentale incontra il pensiero poetante, giacché lo stile altro
non è che la formalizzazione rigorosa di una sostanza mobilissima, di una
nuvola linguistico-retorica il cui impasto tiene corpo e mondo, affettività e
ragione, passività e desiderio, ma anche il tramandarsi delle tradizioni entro
il cui orizzonte (plurale) noi operiamo.
In questo senso, non si tratta di superare i
padri o di rinnegarli, come infatti tu stesso affermi, giacché loro non ci
privano di nulla: io, infatti, sono qui, adesso. Non mi manca antropologicamente
nulla, se non il senso definitivo per cui sono qui, adesso. E allora scrivo e
magari leggo i padri, per sentire il loro tremore, la loro stessa fiducia o
sfiducia nella parola. Così facendo scelgo una tradizione e poi necessariamente
(con fatica, ci ricorda Harold Bloom nell'Angoscia dell'influenza) cerco
di liberarmene, per sopravvivere in quanto autore. Sotto questo aspetto, la
conoscenza, in poesia, viene a coincidere con la ricerca della propria voce e
della sua radice, a partire dalla consapevolezza che questa cresce nel ceppo di
una tradizione mai definitiva, e sguscia sulla pagina attraverso il corpo e la
tecnica, le cose fatte e da fare, gli amici e i nemici vivi e morti.
Da parte mia, apprezzo molto il tuo tentativo di
cercare la tua voce, indipendentemente dalle tendenze di comodo. E sono certo
che la poesia «sicuro dal punto di vista delle eccezioni»11 ne sia
il frutto necessario. In verità, è come se tu avessi scritto una poesia in
latino o in aramaico, oppure avessi steso alcune note sul pentagramma o usato
l'alfabeto morse o scelto il sistema gestuale: in ogni caso la questione,
per la poesia, non è quella di mostrare la dimestichezza con un codice, ma
piuttosto, come scrive Montale, di dire quello che il codice che sto usando non
è programmato a dire. E dire l'indicibile significa proprio dare voce a quello
scarto indomabile eppure atteso, carico di futuro, dovuto probabilmente alla
meraviglia di ciascuno di noi di fronte alla propria presenza ingiustificata,
che ci muove verso la domanda sul perché siamo qui e non altrove. In questo
senso, il problema che pone il tuo testo è lo stesso del Montale della Casa
dei doganieri, quando scrive che «il calcolo dei dadi più non torna»,
soltanto che tu trasfiguri lo stupore per questa verità (che è di matrice
umanistica), in «template» di matrice
informatica. Dal punto di vista della polis (prospettiva dalla quale un poeta
non può prescindere), occorre chiedersi: «In che senso la tua scelta è vincente,
rispetto a quella dei padri? Quale instabilità dell'ovvio mette in gioco? Che
forza ha nel presente e come lo apre, come gli consente insomma di essere ciò
che è?». Tu potresti rispondermi sottolineando il fatto che non è il codice ad
interessarti, bensì la possibilità «di scrivere "metallico"» ossia
con «la pesantezza, la "piattezza" del discorso puramente deduttivo»,
eliminando «del tutto la componente umana»12; io invece ribadisco
che è proprio questa componente ad essere l'imprendibile che ci scarta dal
modello, che ci tiene nell'aperto di una gettatezza già sempre situata e
irripetibile. Credo dunque che poesia sia conoscenza nella misura in cui
rilancia queste domande, le gioca nel singolo testo, si gioca in quanto
possibilità che non incancrenisce, estasi diveniente che si spazializza in
differenti dimensioni (grammaticale, retorico-stilistica, semantica,
immaginativa, simbolica ed etica), adunandole in un corpo testuale, che «non
trova riparo», direbbe la Szymborksa, un corpo che, come scrive Franco Rella, è
«limite e oltranza [...] confine e sconfinamemento»13.
note
1 giuseppe
cornacchia (1973) lavora come ricercatore in Inghilterra. Variamente
impegnato e segnalato su carta e su web, co-gestisce dal 2002 il
portalino nabanassar, di cui è fondatore e webmaster. Ha pubblicato
Aladar (Pistoia, Ass. Cult. Press 2003), Nabanassar - atto unico (Ass.
Cult. Press, Pistola 2003), Ottonale (in Sei Autori. 3 x 2, a
cura di Alessandro Ramberti, Rimini, Farà 2006) e Vampirnacchia — molti
scrìtti letterari 1996-2002 (Lulu 2007).
2 Gli atti del convegno uscirono su «Atelier» n.
24, dicembre 2001.
3 karl R.
popper, La logica delle scienze
sociali, in aa.vv., Dialettica
e positivismo in sociologia. Dieci interventi nella discussione, trad. it.
A. Marietti Solmi, Einaudi, Torino 1972, p.114. Si confronti inoltre karl R. popper,
Conoscenza aggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, trad.
it. Arcangelo Rossi, Armando, Roma 1975, p.186: «L'oggettività, anche della
matematica intuizionista, si basa, così come l'oggettività di ogni altra
scienza, sulla criticabilità delle sue argomentazioni. Ma ciò significa che il
linguaggio diventa indispensabile come medium dell'argomentazione, della
discussione critica». Invero, la scienza contemporanea ha abbandonato lo stesso
paradigma di "oggettività conoscitiva". Si pensi alle acquisizioni
sulla complessità, in particolare le riflessioni di werner heisenberg, jacques monod, ilya
prigogine, edgard morin, e fritjof
capra relative al rapporto ordine/disordine, caso/necessità, scienza/arte/filosofia.
Ancora più radicale è il pensiero di paul
K. feyerabend, che
riconosce la possibilità della scoperta scientifica proprio nella trasgressione
dai metodi codificati, con ciò negando «l'idea di un metodo fisso o di una
teoria fissa della razionalità», compresa quella popperiana. Scrive infatti il
filosofo che la conoscenza «non è una serie di teorie in sé coerenti che
convergono verso una concezione ideale, non è un approccio ideale, non è un
approccio graduale alla verità. È piuttosto un oceano sempre crescente, di
alternative reciprocamente incompatibili (e forse anche incommensurabili)».
Io., Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, trad.
it. Libero Sosio, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 21-29.
4 karl R.
popper, La logica delle scienze
sociali, in aa.vv., Dialettica
e positivismo in sociologia, op. cit., p. 116.
5 karl R.
popper, Logica della scoperta
scientifica. Il carattere autocorrettivo della scienza, trad. it. Mario
Trincherò, Torino, Einaudi 1995, p. 74.
6 Ibidem, pp. 76-77.
7 «Lo scopo della scienza è la verità nel senso
di migliore approssimazione alla verità, di maggior verisimiglianza. [...] La
ricerca della verisimiglianza è uno scopo più chiaro e più realistico della
ricerca della verità», per questa ragione «possiamo spiegare il metodo della
scienza... come il procedimento razionale per avvicinarsi maggiormente alla
verità» (karl R. popper, Conoscenza aggettiva. Un
punto di vista evoluzionistico, op. cit., pp. 84 - 85); «Le nostre teorie
congetturali tendono progressivamente ad avvicinarsi alla verità; cioè a
descrizioni vere di certi fatti o aspetti della realtà» (Ibidem, p. 66);
e ancora, con piglio quasi romantico: «Noi siamo cercatori di verità, ma non
siamo suoi possessori» (Ibidem, p. 73).
8 Si tratta del celebre «criterio di
demarcazione», il quale non è «netto», ma ha «esso stesso dei gradi. Vi saranno
- continua popper in Congetture
e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica (trad. it.
Giuliano Pancaldi, Bologna, II Mulino 1972, p. 437) — teorie ben controllabili,
altre difficilmente controllabili, ed altre non controllabili affatto. Quelle
non controllabili non rivestono alcun interesse per gli scienziati empirici.
Possono essere ritenute metafisiche». Si veda inoltre karl R. popper, //
mito della cornice. Difesa della razionalità a della scienza, trad. it.
P. Palminiello, Bologna, II Mulino 1995, pp. 115-122.
9 Sostiene cornacchia,
infatti, che «il poeta non propone, ma rende quello che il mondo già
dice, traducendolo a chi non capisce o non ha la sensibilità per distinguerlo»
(giuseppe cornacchia, La
responsabilità della poesia. Di che cosa siamo poeti?, «Atelier» n. 21, p.
16).
10 antonio
porta, /( progetto infinito, a cura di Giovanni Raboni, Roma,
Fondo Pier Paolo Pasolini 1991, p. 14.
11 Riporto la prima strofa così da chiarirne
il lessico e la struttura. «template / class fixed_population / { / public: / typedef
human* conscience; / typedef const human* common_sense» (giuseppe cornacchia, Ottonale, op. cit. p.104 -
105).
12 giuseppe
cornacchia, La responsabilità
della poesia. Di che cosa siamo poeti?, op. cit., p. 18.
13 franco rella, Ai confini del corpo, Milano,
Feltrinelli 2000, p. 80. Anche il verso della Szymborksa, tratto dalla terzina
«Ora certa, ora incerta della propria esistenza, / mentre il corpo c'è, e c'è,
e c'è / e non trova riparo»), è citato da Rella nel medesimo libro (p. 203).
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