da COSTELLAZIONE
ANONIMA
1953–1973
4
e più oltre,
vedo me, uomo
la
sua agonia di animale
di
sentore mortale
di
mente s-centrata
che in una stretta si uncina e
sulla sabbia
fiotta il “Verbo” semplice,
gira sul proprio sangue e si
inginocchia
a vedere la finale malevolenza
di sé, uomo sbilanciato dalla
voragine
desolata della terra promessa.
Milano 1961
**
Ritenendo che una vita vale
un’altra
nel mio laboratorio combino
alchimie contro
leggi della scienza e natura:
asserita visione delle
inssolente legge
del vano aguzzino vistoso
soggiogato alla propria
alienazione;
se mi lascio fare e parlare
riesco a pormi al muro
e annullarmi / bianco delitto
prendimi a calci, buttami nel
fondo
della vampa e staziona il
presente
incolume
alle origini.
*
Sono
—
questo il punto / idea connettivo —
l’unto dell’acqua
l’insettivoro petrolio
sigillato da eruzioni
pozzi sotto il fondale,
l’oceano grasso
di corpuscoli, plancton che
funziona
con premura per i crostacei
per il pesce cui serve ad
altro pesce
e avanti secondo l’inevitabile
alimento
e grossezza — coriaceo
predatore, secco
rogo di pinne dorsali e
pettorali
su peduncoli o trampoli
da suggerire tracce di membra
e la spina un tubo
di cartilagine: il coelacanth
non
estinto.
**
L’insettivoro incendio allo
zero
compila un miasma—afrore di
cadute
nel pugno visibile mette
insetti
—io
l’incendio che brulica la
specie
spermatozoi
come la mantide predatrice
che progenita divorando.
*
Polvere dovunque su tutto
polvere su ciascuno
su me un cadere continuo di
polvere dal soffitto
sul letto tappeti bottiglie
dalle pareti
che mi serrano nella morsa del
mio futuro cadavere
già sepolto sotto il cumulo di
polvere di questa
polvere che rassodata nello
spazio gira su sé stessa
e intorno il sistema
termonucleare come me cadavere
che rigiro su me stesso e
spostato di quel tanto
dal mio centro intorno me
stesso:
costellazione
anonima.
da LE VIZIOSE AVVERSIONI
1951–1996
Preliminare:
Carica arrivi di felina
antichità e ti accosci
nel sofà;
anche a me apri
la dimora in cui già
qualcuno
vi sbatté dentro un
figlio
a me simile.
Parigi
1952
**
6
e come nella Bibbia impalmo
nella sinistra
la mammella sinistra,
nella destra la carezzevole
concisione;
nella bocca inghiotto la
mammella destra
e tu dici che lo sperma ti
nutre,
esatto.
“come carne e uova”—
12
voglio inserirti nel sistema
circolare
della mia origine arborizzata
ma ancora
auspicante d’intemperanze,
come io esigo includermi nel
tuo
usurpando nel triangolo il
sole che a ruota
gira illuminando—
**
Il vento sibila tra lo steccato
e sbatte
il bucato appeso sul cortile,
i vetri sporchi.
Non so cosa fare; chiudo gli
occhi e fumo;
vorrei telefonare alla
ragazza; voglio
mettere il capo dentro il vaso
di terracotta e urlare
il fallimento della mia
divisione di uomo o denudarmi
sulla scala del fuoco e
lasciare che il vento
a bocca di lupo geli
questo corpo martirizzato—
ogni oggetto animato o
inanimato è donna,
la fogna luminosa dove sta in
agguato il mio sesso
di
topo ossessionato.
**
Non è il bruco che per corte
altitudini buca
il bozzolo che m’importa—è la
seta
che le fascia i fianchi
il reggiseno sganciato: rogo
di seta
crepitante nel colmo della
camera
il giradischi urla sul letto,
il tavolo
(col mio resoconto)
sbarra la porta
e
secco nudo
sul linoleum non so decidermi
. . .
*
Seguo quelle che
entrano nelle auto:
queste
ambulanti
gettano una lenza che di
preciso acchiappa
lungo i marciapiedi, o di
profilo sostano
accese dalle vetrine.
L’insistenza dello sguardo
sapiente di soldi
un ondare di natiche
il bisbiglio che non intendo
sono
l’invito. Non ne usufruisco;
ho moglie
e altro, mi dico—ma ecco
ce ne
è sempre una che mi mette in panico.
da PARADIGMA
1950–2000
L’assenza
Dall’oltresuolo
viene mio nonno, il grande
assente
che mi fu padre e visse
anarchico
numerosi anni tra la iuta
colma di cereali per un’oncia
alla settimana
di olio e riso—dolorosamente
giganti
i diti contorti all’insù
sbucano dalle scarpe
con ciuffi di bambagia per
conservarli nel male;
incarnato
nel cancro
si scheggia le nocche per
abbattere al muro
la bieca lingua che gli
raschia la cornea
(il
cranio lucido ghigna
alla
cancerosa che ancora lecca l’assito
spruzzato
di canfora
. .
. l’afrore mi pizzica le narici)
Tramite la mente patita e
l’orto
lasciato alle gramigne del mio
essere
ritorna a casa—questa
è dovunque un ridotto di
mutati oggetti
senza fiato, e di quest’uomo
forte
sento le ascelle acute di
tabacco stringermi
nella mai riscattata
sicurezza.
1954
**
1
La finestra incornicia la
torre
carnivora di poiane—
dietro la casa cresce l’orzo e
la faina
in cucina con la collana
d’aglio, il ciuffo di spighe
e il lunario, questa sonda
d’imprecisi giorni
della giovinezza.
Un
compagno mi striscia di verde la blusa
mi schiaffa nel letame,
concime per il pensiero fertile;
guardo con interrogazione i
compagni e gli anziani
sorpresi e vili.
La lesciva non cancella il
verde d’erba,
la sentina guasta la mente che
si abbuia, e mi sigilla
fossile.
**
Sul fiume Delaware il
temporale
rotola dalle crepature,
capovolge
melma dalle colline
violenta le mezze-vive
piante che arsicciano di carne
e gli scoscesi razzolati dal
tedioso bollire
della pioggia; il canale
intenso di fiamma precipita il
castoro
zampa nella trappola
allo stagno d’alluvione sotto
il bosco di muschi
e nidi allagati; poi uno
strisciare
nelle frasche e la faccia cupa
al vetro . . .
questo, l’avvento del già
autunno che sfolla
la mente ormai usa alla
violenza
degli atti—non parola
o mano che ascolti il polso di
chi si spegne
ora—e delle scaltre azioni
che gigante mi assurgono agli
occhi
di chi, come il castoro
che non sa e non può
presentire alla diga,
soggiace alla bufera che brama
potenza,
non amore ragione o senso,
così l’insistenza dell’acqua
con involuto fine svuota il
bosco.
1961
Fungo amletico
1
Addomesticarti
imperfetto discendente dell’atroce
sbaglio che ci persegue
2
è un bulbo
il cuore non ancora
artificiale—un giorno, così
fuori luogo,
unicamente migliorerà
3
niente nessuno riesce a
calcolare la mente
disturbata
da ciò che il sangue vi filtra
dentro
4
la lumaca quanto la testuggine
è lento orgasmo
5
la dimora contenente la
nascita
è la stessa—ottusa fissa
intrisa di ripetizioni
in
cui da sempre si vive
20
tutto si decompone
—
fungo
amletico
uomo spostato: ogni azione
risulta in fallimento
21
il mare accoglie le ossa
ma il neutro me stesso
sciama in cubicoli
di sonno grave
32
per la tua negligenza d’un
tratto
termina la mia storia—
perché mai una fine così
ebete.
1960–1970
**
Cara Sonia Raiziss,
sabato
19 marzo 1994, nella melma
di pozze, di sedimenti e di
arbitrii
il miasma ammorba la serata
quanto la colma
quietamente macera, quanto il
turbare dell’io
schianta la faccia e stempera
la memoria.
Il marchio che certifichi
mentre dormi nei sogni
della giovinezza è il marasma
in te moribonda che cedi alle
radici masticate,
morte—mort—muerte—death:
exactly a year ago in the morning you left life
while I was rushing to bring it back precisely
as you were turning it away
sbavando libidine a un bivacco
acceso di rose.
Sai, il mese della neve si
chiude
appena il gelo consolida la
ghiacciata
per i territori dove mi
sollievo
da un luogo all’altro,
cercando qualcosa
usurpando persino il mio
posto, perché è così
che il gelo del tuo sabato si
abbina alla fanghiglia
perché è così che si ghiaccia
ogni cosa.
Ormai indosso la fatica come un
abito—
è la pratica dei giorni svegli
con te defunta alerta
minacciante
se dopo dodici ore al giorno
dall’alba al tramonto
sono stanco, sventagliato
dagli alberi e allucinato
di afflizioni senza rimorsi,
dopo la colpa e dopo la sera
quando sono il corpo che
sprofonda
per risalire con il mattino.
19 marzo 1995, un anno
dopo
**
Salgo all’intaglio dell’altura
che scende
e sale a scalinate verso il
marmo circolare del sepolcro
circolante di venti mortuari,
e da qui balzo da un salto
all’altro seguendo ramaglie,
ciottoli, piedi di donne
scarpe avvilite tra ciuffi
d’erba
e piante lacustri di
sottobosco attorno la collina
con la prora spaccata del
monumento al mare—
è così che inciampando nello
sterco d’uno zotico
proseguo arrogante, fingendo
il nulla
per non menomarmi come
superstite
della perfidia delle tribù
infime.
Vittoriale
degli italiani, 1996
**
a
Luigi Fontanella
Nota — la mente stermina
nell’atmosfera desertica
dell’asfalto
con il vapore, il bollore in
sospensione
all’altezza della fronte;
vedi—l’acqua persevera
e penetra da uno strato
all’altro nel penetrale del
sottosuolo
così compatto e così capace di
purificarla goccia
per goccia lentissima a salire
alla fonte
di pietra; dovrei riflettere
il perché.
Come
definirti ora
che defluisci con le onde
della sera innestata
ancora alla vampa del sole che
adagio
si abbassa sulle piante stese
tra le case
e le rocce,
come
esclamare aspramente la vergogna
intanata come l’embrione del
male
perenne nelle corsie del
sangue;
ti hanno declamata “dolce”
io ti chiamo “sublime,” il
chiasso della terra
il mostro del vivere in mezzo
al verde brutale, acido
il silenzio nel silenzio del
silenzio.
1997
**
Fedeli alla stessa privazione
con la testa che smemora tra
la folla
si attende l’imprevisto;
la centralità dello sguardo si
narcotizza
nello spacco magnetico della
tua figura
la sola imprevedibile solidità
d’un mondo ignoto—seguimi
per dedicarti alle stagioni
che oltrepassano senza
modificarti
ed insieme ritroveremo la
ruota dei sensi,
dimenticati, perché già previsti.
15 febbraio 2000
**
Ascolta—
questo uccello antico ancora
sboccia di piume
e con mutezza nella gola
efficace ti arrossa
le guance su quel terreno
d’erba
rasa al sole che ci bolle le
ossa quasi liquefatte
addosso lo sfondo drammatico
di biacca calcarea
frastagliato a guizzi
nel rettangolo d’acqua acidula
di vespe;
so come aprirti il sangue a
sgocciolare purissimo
dal mensile ferimento alla mia
bocca,
come violarti
propizia al mistero di voler
essere violata
e come esaltarti per l’uccello
che t’impazza nel profondo,
so quanto vuoi l’urto
il bruciare che ti stravolge
le viscere e nella mente;
che io capisca la perfetta
lineare denudazione,
che io con fervore ami
la serenità e le offerte
dell’adolescenza prolungata
senza inquinarti l’acqua
salina
la saliva
la densità del fiotto
albugineo che ustiona
e il sangue che splende
oscuramente e profuma
del fiore compatto dalle cosce
a perpendicolo.
8 giugno 2000
da ULTIME
(2000–2005)
**
a
Giovanni Raboni
In rue de l’Arbre Sec ti
osservo
a seccare il becco di merlo
felice
slavato dall’acquata recente
a rantolare “frères humains”
dallo splendore
della gola che ti prosciuga e
che soltanto io ascolto
strozzarsi di paura testarda
ti cercavo nei secoli di
vicoli viscidi
della tua città che derubi a
coltellate
e t’incontro finalmente sulla
forca d’antan
in questa via, al Caveau
François Villon,
che ospita il tuo gradito
compagno di sventure
alfredo de palchi.
Parigi, 29 giugno 2003
**
Spinto al calvario che si
compie
nella signoria medievale del
palazzo
su per le scale
tu nel resoconto di donna
intuisci
che in me rivisito
il cielo torrenziale che
sbianca di schiuma
il macero dell’infossato vivo
da “resistenti” ignobili nella
fossa,
melma che a mano e vanga scavo
per esumarlo dalla coscienza
di vomiti
e quel giugno 1945
incenerirmi in questa assise
di musi storti
che a centinaia salgono
sanguinari le scale –
è possibile
che questi figuri di ingiurie
indemoniati dal mio “sarcasmo,
risolino insolente
e sguardo bieco” quando mi si
vuole fucilare
si impersonino dei loro
clichés perfidi dentro l’animo
mio di “rozzo” ragazzo
travolgente.
Verona, 13 dicembre 2003
da FOEMINA TELLUS
2005–2009
**
Younger than springtime, am I?
a ottanta
la mia giovinezza che ha il
florido
colore del cadavere
ripristinato
a te che sei eterna
grida la gioia
non l’orgoglio di trascinarsi
alla caverna che abbaglia
per il bagliore della tua
presenza
maligna malevola malefica.
11
dicembre 2006
**
per il mio compleanno
di errori
Martedì 10 dicembre 1926
l’anagrafe è un deposito di ceneri
dove venerdì 13
per la seconda volta
io, carta da bollo o da gioco,
urlo al mondo la truffa
fino alla fine della finalità
là che aspetta di segregarmi
al reticolato di denti
sgretolati.
13
dicembre 2006
**
Ti ricevo a schiaffi
per stanarti i denti marci
dalle mandibole
a calci sugli stinchi per
crollarti
in mucchio di ossi
nel tritume che si apre in una
voragine
domini la rissa
alla concezione che benedice
in nulla d’ogni gesù
e che abbaia quello d’ogni
cane
condannati alla brutalità
non prima di beffeggiarti
sputarti nelle occhiaie il
veleno
e per sempre rinnegarti per
sempre.
24
dicembre 2006
**
l’obeso pezzente in cui ti
spacci
con tavolino a drappo rosso
sul marciapiede di casa mia
stridente scocci i passanti:
“un centesimo,
nessuno dev’essere affamato”
ed io che stravolto so cosa
intendi
ti reputo un volgare
becchino
che sfido di correre
senza fissa dimora per
deperire
come deperiscono i passanti
che pagano un obolo di dogana
per calarsi nella tua
chiavica.
7
luglio 2008
**
a
Roberto Bertoldo, alla sua onestà
Di sabato notte
scendi dall’ultimo piano
e controlli chi esce e chi
rientra
sostando al piano appena
sospetti
che un inquilino aspetta
la tua presenza
sdentato, biascica litanie
al crocifisso alla cabala alla
mezzaluna
all’ultimo istante chiede
perdono
per aver tradito tutti
e incassato ricchezze
rovinando famiglie
e aziende in crisi
così alla domenica
il palazzo dorme di inquilini
reduci da Wall Street,
a mezzo giorno scendono in
mutande
e salgono con il giornale per
leggervi
gli annunci funerari e varie
notizie
mai a corto di brutture
la sola giustizia che ho io
sei tu che lo spacci senza
perdono
e senza aspettare una
risposta—
te la dò io che nulla mi
appartiene:
entra nei palazzi e
liberaci dal male.
20
luglio 2008
Le déluge
Nota dell’autore
**
La voce di questa breve
silloge, dà concretezza all’aldilà (se
l’aldilà, con il suo
inferno, esiste) e senza timori prorompe in
accuse definitive verso
il mio paese di nascita, i suoi piccoli
uomini grondanti
malvagità, e le vicende grandi e piccole che
hanno fatto la mia
storia.
Dopo oltre sessant’anni
di angherie e di ingiustizie politico-legali
e politico-letterarie,
il rigurgito mi è venuto spontaneo: un testo
al giorno, dodici testi
del mio lascito. Senza rancore, senza
cattiveria,
ma con una continua sete di giustizia.
**
Aggiusto la mira delle sassate
alle finestre
alle teste disorientate dei
carrettieri
e dei preti con il potere
della crudeltà
raccapriccio dell’esistenza
nei pagliai e nei tuguri,
la tua benedizione dal portale
di cotto
Giuseppe Girelli prete Bepo
zoticone
così tanto insozzi
che ti spaccio alla tua
personale inquisizione
usando insulti da pulpito
corde al collo e chiavistelli
ai testicoli
e sfoderarti la pancia
all’ultimo urlo
che voglio udire
in questa immensità di silenzio
con la mira della sassata
eccoti a bocca spaccata tra
gli ossami
a sentenziare le donne che mai
riposi di predicare veleno
cristiano—
che il tizzo del tuo involucro
di fanghiglia
sperperi urli atroci
per la mia sassata che fa
giustizia
precipita nel baratro
che il cranio scoppi laggiú
sulla pietra
del Bussé il canale
per sempre il tuo inferno.
23
giugno 2009
**
Tu sei Sandrini Giovanni
l’immondo Nanni —
usi il convincente potere
sulla donna per fotterla
fisicamente e moralmente senza
dannarti o danneggiarti
anzi la plebe mala carne da
stritolare ti considera fortunato
e ti sostiene con ammirazione
soltanto lei colpevole la
colpita e con questa sicurezza
morale sparisci mentre lei
attende la nascita di tuo figlio
che per tutta la vita ti
assomiglia
neghi la paternità ma rifiuti
la prova del sangue
la negligenza documentata ti
punisce nell’inferno terrestre:
beni immobiliari e fondi
bancari di uomo e padre naturale
periscono nel buco nero della
bancarotta purtroppo non
per mia intenzione
la certezza è che non mi
manchi nemmeno in quest’altra
dimensione
e da qui mi concedo di
infliggerti la giustizia delle donne
desiderate: di girare intorno
alla mia eternità morsicandoti
continuamente il cazzo.
24
giugno 2009
quanta rabbia in questa silloge...
RispondiEliminapiovono sassate!
(meglio ripararsi!:-))
ne ha ben donde :-)
EliminaStefano,
RispondiEliminagrazie per questa preziosa segnalazione. Conoscevo di De Palchi solo alcune singoli poesie ed in effetti non lo avevo mai approfondito.
Direi pure che non si sentono nelle ultime i suoi anni seppur parlino anche della sua età. Il linguaggio è fuoco, è colmo di energia e mi pare al passo con questi tempi ardui.
Nel frattempo ho comprato "Paradigma. Tutte le poesie:1947-2005" e continuerò la lettura.
Buon weekend,
Marco
ottimo Marco. Direi che de Palchi può entrare nella tua "poesia condivisa".
Eliminaciao!
Nel 2010 o nel 2011 a Stefano Guglielmin chiesi se il suo blog Blanc de ta nuque avesse spazio per me. Proposta da suicida sapendo delle centurie di “defunti” e rari vivent in agguato. Mi sorprese la risposta senza forse, ma, si vedrà, scuse utili per troncare subito lo scempio. Assecondando il mio desiderio Guglielmin attese di “postarmi” il 5 aprile 2013, coincidendo per caso la pubblicazione bilingue di Paradigm: New and Selected Poems 1947– 2009.
RispondiEliminaPrima d’allora non chiesi a nessun altro fautore di blogs e siti di mettermi in mostra, inviai però messaggi feroci, accusando a destra e a sinistra i seguaci nei miei confronti della presunta “scelta ideologica”: poliica di malcostume letterario e di viltà. Il minimo indizio d’ingiustizia verso chiunque mi accanisce. Mai nessuno si azzardò di negare, almeno di ribattere le chiare maledizioni depalchiane. Soltanto donne, che intendono più dei maschi, espressero la loro opinione dandomi ragione.
Mi sorprese. Forse conosceva qualcosa di me, in giro, contro il sottobosco e la giungla. Stefano Guglielmin che ora generosamente mi ospita si chiede se lasciai l’Italia per ragioni politiche e geografiche. . . Per ciascun motivo che si voglia pensare: con sei anni di prigionia politica mi trovai in mezzo la strada, spaesato, nullatenente, ancora adolescente invece di ventiquattrenne e straniero in una Italia della “scelta” obbligatoria come al tempo del fascismo. Scelta? la libertà era la stessa di quella dei facchini della precedente ideologia, e soltanto valida per facchini e tromboni della “scelta ideologica”; infatti, non dovevo andarmene liberamente, senza docuenti non sarei potuto scappare, a Vercelli dove ero ospite la questura non mi rilasciava il passaporto per non aver fatto il servizio militare. Al distretto militare, l’ufficiale ascoltò la mia situazione ma ripetè certe leggi delle quail menefregavo. Risposi: non indosso stracci, riportatemi pure in prigione. Indubbiamente considerato psicologicalmente non idoneo al servizio militare, l’ufficiale mi scrutò stupefatto, e con un gesto di mano mi indicò di andarmene. . . Entro pochi giorni arrivai a Parigi e così via per cinque anni in giro attraverso la Spagna e l’Europa . . . poi l’America. Dal viaggio iniziato a Vercelli ritorno ogni anno al Paese Italia.
Il mio antiquato computer mi lascia finalmente visitare Blanc de ta nuque. Arrivo con difficoltà, per ignoranza elettronica, all’inizio dove la mia cariatide di profeta nel deserto illustra le prime righe d’introduzione. Passo ai messaggi delle scrittrici che suggeriscono si iniziasse un dibattito sulla poesia dalla presenza della mia. Non avverrà. Come spesso accade le donne con intelligenza e sensibilità hanno la coscienza precisa, e non scambiano il meglio per il peggio. Io che non so nulla di tecnica fotografica non mi azzardo a criticare laotografia, direi bella o brutta. Eppure in questo blog incontro pure chi m’invita a comporre di corsa poesia contemporanea per assicurarlo che non sono fermo agli anni 40. Fosse curioso si accorgerebbe che i miei decenni di scrittura pubblicata arrivano al 2010; fosse un serio lettore, il Carso di Ungaretti––come altri grandi del passato––lo leggerebbe per la poesia e non per conoscere la zona distante ormai un secolo dalla zona in cui si abita, Per quante chiacchiere si facciano, il medievale François Villon, iniziatore della poesia moderna europea, è superbamente contemporaneo e più a propos di quasi tutti gli autori italiani con le loro contemporanee cianfrusaglie. La mia opera è certamente contemporanea, appunto vivente. Ripeto qui che poesia è granello che marcisce nello stomaco del poeta e nella zolla, non nel vuoto. La bravura dell’artista, capace quanto la natura, è di saperla estrarre perché assalisca, calpesti, sconvolga, stravolga, e traumatizzi senza correzzioni vita d’ogni specie e qualità.
A questo punto esorto i “defunti” ad alzarsi al mio altruistico giudizio universale, e svenarsi. . . per saper poi commentare, se non scrivere.
da vivo posso dire che la sua poesia è altrettanto viva (e dunque contemporanea).
RispondiEliminaDa gestore di questo blog, sono contento di avere ospitato lei e la sua poesia.
Il resto non dipende da me.
La giusta delusione di Alfredo de Palchi credo sia da imputare agli amici poeti noti della sua generazione, ossia i vari Raboni, Erba, Zanzotto che non hanno fatto per lui ciò che era nelle loro possibilità, come successivamente non ha fatto Cucchi che pure nelle collane mondadoriane ha ospitato alcuni poeti, che non nomino per rispetto umano, piuttosto acerbi e impersonali. Agli amici bisogna aggiungere i critici di mestiere che per boria, pressapochismo o cameratismo hanno completamente trascurato la poesia di Alfredo. Però non bisogna preoccuparsi di questo, sia perché la fama è questione ridicola dato che non è possibile goderne gli effetti una volta morti, la sola fama, quella postuma, che davvero pesi, sia perché ciò che conta è aver scritto ciò che si voleva scrivere. Questo Alfredo l’ha fatto e direi piuttosto bene.
RispondiEliminami sembra un commento saggio
EliminaCiao Stefano,
RispondiEliminacome ti avevo anticipato nel commento ad Alessandro
Assiri, sono rientrato in questo post dedicato alla
poesia di Alfredo de Palchi.
Mi sembra di non aver mai letto testi poetici
scritti alla fine degli anni 40, primi anni 50 del
Novecento, così lontani dal linguaggio della poesia
nota e canonizzata di quel periodo. La poesia di de
Palchi sembra, sin dai suoi esordi, scritta ieri o
ieri l'altro. E' parola gettata lontano. Parola che
porta materiale bollente che ha bruciato la carne e
brucia ancora. Arriva, questo vissuto in scrittura,
come il materiale incandescente di un geyser.
Osservane lo spettacolo non consola. Ci porta nel
terribile sublime di una natura umana ferita
che trova nella poesia
s-fiato, salvezza, in un certo senso, ma non pace.
Un caro saluto,
armando bertollo
Visto che non arrivano altri commenti saluto con un addio la sezione che mi riguarda.
RispondiEliminaI commenti di Cristina Annino, Rosa Salvia, Franesca Tuscano, Amara, David Butali, Roberto Bertoldo, Carla, Marco Scarpa, e Armando Bertollo, li ho letti con piacere e rispetto per diversi punti di vista e impressioni. Ogni commento lo accetto come riconoscimento della mia serietà artistica.
Invito coloro che gradirebbero ricevere Paradigm d’inviare l’imdirizzo stradale a: katpoet13@aol.com
Stefano Guglielmin, regista della scelta dei testi, penso si renda conto che la mia realtà degli anni 1940 e 1950 era fin troppo realistica e brutale in qualsiasi senso,
Inoltre a Stefano concedo che gli sono più che grato per concedermi una sorta di gratificazione pure con i suoi brevi commenti.
Grazie e cordiali saluti a tutti e a tutte.
Leggo solo ora e mi sento di dire non soltanto la mia contentezza per questa dilatazione in rete che Stefano fa della poesia di de Palchi, ma tutta la mia ammirazione per coloro che pazientemente l'hanno sostenuta e diffusa in Italia, come Roberto Bertoldo, cui sono grata per avermi per primo fatto conoscere questa scrittura, poi Luigi Fontanella e anche Sandro Montalto. L'impatto con la poesia di de Palchi è stato per me deflagrante, una vera lezione di poiein vivo, essenziale, vitale, una parola intessuta di sofferenza ma pure dell'urto con il quotidiano e insieme prodigiosamente carnale e visionaria. Ne ho poi scritto una riflessione pubblicata nel volume di saggi già citato La Potenza della poesia - Introduzione di Roberto Bertoldo, e poi nel 2011 in Una vita Scommessa in Poesia(Saggi in omaggio ad Alfredo de Palchi di Autori Vari a cura di Luigi Fontanella, Gradiva Pubblicazioni, 2011), uno studio dal titolo "Il tremore terrestre. Eros e donna nella poesia di Alfredo de Palchi", di cui riporto un brano iniziale:
RispondiElimina"Si è sempre in ritardo quando un poeta come Alfredo de Palchi, che ha sempre professato con orgoglio di far gruppo ed establishment solo con se stesso, quasi all’improvviso, o quando l’onestà lenta del tempo ha compiuto il suo corso, è riconosciuto grande. Oltre che fuori dal coro, Alfredo de Palchi è sempre stato un solitario instancabile ricercatore di identità e di senso, nel territorio reale del vissuto, sempre dichiarando con schiettezza la propria verità e il proprio credo etico-estetico. E solo da alcuni anni, dissoltasi l’ombra inconsistente dei pregiudizi, la forza”paradigmatica”della sua parola poetica finalmente trova la sua limpida collocazione all’interno del panorama poetico italiano.
Tutta l’opera depalchiana è infatti esemplare per la sua capacità di rivelare la lacerazione del nostro tempo, ma anche per le pieghe misteriose lungo le quali un uomo-poeta rivela le sue personali soluzioni di resistenza, la trincea cognitiva e comportamentale dove l’assedio del tempo può divenire sostenibile."
de Palchi di sicuro non si è fermato al Carso(basterebbe leggere non solo gli ultimi, ma tutti i testi del suo ultimo Foemina Tellus per verificare il suo essere e sentire contemporaneo). Di sicuro -come ci dice Bertoldo- de Palchi continua a scrivere materia viva.