Prefazione
di Paolo Donini
L’acqua è
l’elemento femminile e materno,
l’archetipo iniziale per eccellenza. Ed è con un poema d’acque, scandito lungo decorsi fluviali tra le rive dei
nomi, che Stefano Guglielmin ci aveva lasciato alla sua (fino ad oggi) ultima
raccolta: La distanza immedicata. Nel
frattempo è apparso il poemetto C’è
bufera dentro la madre, ora ricompreso in questo nuovo esito: Le volpi gridano in giardino.
La
raccolta – che presenta una struttura binaria: due sezioni prioritarie, Canti dell’amore coniugale e Canti partigiani, ospitano 2 + 3 sezioni
interne: Canti dell’amore coniugale la
sezione omonima e le Poesie londinesi;
Canti partigiani, la ricompresa Bufera, Mamme vermiglie e Sponsor
river (per inciso ancora il topos,
qui secolarizzato, del fiume)
– la raccolta è dominata dall’emergenza, da uno stato di allerta che
lampeggiando riverbera ora l’emisfero privato, ora quello pubblico; ora la
dimensione individuale, ora quella di relazione; l’area culturale, linguistica
e quella biologica, organica; il piano
concettuale, speculativo e la sua resa stilistica, metrica, morfosintattica,
lessicale.
Va
detto che se c’è, nella vicenda compositiva e editoriale di un poeta, un libro
che apre nella piena maturità una crisi, una presa d’atto e distanze – che non
significa solo disincanto ma approdo a una sorta di innocenza ulteriore,
spuria, compromessa e tuttavia renitente,
recuperata, eppure stranamente (e nuovamente) illesa, certa a posteriori della sua credenza, – ebbene per Stefano
Guglielmin quel libro è, con buona
probabilità, Le volpi gridano in giardino.
La
raccolta infatti traghetta una funzione inclusiva e superante. Il che
significa, quanto a cifra stilistica, la concessione di pieno credito a una
sperimentazione (talora anche a un virtuosismo), crossover rispetto a generi e a registri, ma soprattutto la rottura
del lucchetto della compattezza, quasi sempre apposto a sigillo della certezza
o personalità della voce poetica. Della
compattezza, suggerisce questo libro,
occorrerà sempre più chiedere conto, non fidandosene di per sé, nello
sbriciolarsi degli orizzonti empirici e nell’ibridarsi delle poetiche.
A
questa rottura di un cliché stilistico coincide immediatamente sul piano
tematico lo stridio di un altro guscio che si apre scontrandosi: l’hortus conclusus dell’esperienza
personale, quando va a cozzare con l’indeterminato di una crisi, di un
allontanamento, e quando rivede affacciarsi nel perimetro duale i volti
sfaccettati e conflittuali della polis
– la diade che si lacera commossa per
ritrovarsi di nuovo partecipe in mezzo al mondo.
[...]
Uno stilnovismo laico, terrestre, anche sincretico
(non rinunciando nella crudezza a un afflato mitico e disordinante), modula
l’affermazione iniziale circa la cifra della
donna: in cui mai cercai casa né prato / ma sprofondo e grido, che si
versa poi nella ricapitolazione delle donne
andate per monossido o corda fissa /… o per malattia, incendio, pozza /ago.
Una galleria di compagne autentiche e imprendibili che si riunisce poi
nell’unica donna scelta dalla verità della vita, inoltrata nella nascita seconda / per la tempra e l'olio a
trent'anni fatti uovo, via maestra /nuova, dove il verso, scritto all’ombra
tutelare della paternità, appoggia il sigillo nuziale a brillare intatto
sull’orlo di un crollo, quando l’amore pur fattosi casa e prato ritorna a un tratto sprofondo e grido aperti nello stravolto ordine domestico.
[...]
Libro in questo senso sentimentale, Le volpi gridano in giardino sin dal
titolo canta sostanzialmente la
passione, per quanto nevrotiche, raggelate, ruvide, irridenti ne siano le varie
timbriche interne: un grido che si fa civile nei Canti partigiani, mostrando sul secondo binario della composizione, l’altra faccia della medaglia, quella che dobbiamo mettere
fuori casa ogni giorno e che spesso mettono altri per noi, nella sopraffazione.
A questo ramo del testo appartengono poesie come Voglio dire, vera e propria ricapitolazione di tracciati
stilistici, dibattiti monologanti e dialettiche infra-testuali, dove Guglielmin mostra, in una pluralità di aperture, interessi, frequentazioni,
assonanze e ripudi, l’agilità della sua ossatura critica, il fiato, la
tecnica e persino l’acrobatica del mestiere dei versi; e componimenti come Incanto, che cede alla vertigine della lista il compito di un
commiato sempre impossibile e sempre dovuto: farsi da parte, cedendo la parola,
non solo nel senso di consegnarla a chi
legge ( o a chi altri scrive), quanto di lasciarla
sola, come in effetti è, nel libro.
[...]
Ho visto
paesaggi interiori
pugnare col grigio deforme
di un umano niente e
poeti ratti raccontare l'oggi
per tratti uniformi, li
ho visti arrancare in quelle altezze.
Sciupare. E ruine
e alme e altre arcaiche moine
rovinare sul testo,
rovinarlo. Ma so per converso
di parole per cui si
muore. Parole sole, senza paesaggio
nell'intrico dell'erto e
del liscio, dove l'eroe s'immola.
E so di banchieri che
asciugano risaie, assetano villaggi.
Io per me vorrei uno
sfondo che non decori
ma dilati il senso dello
stare, un tavolo di frutta
per esempio, e una
figura, che sorrida a morti e vivi
senza strafare. Vorrei
narrare, ma con spiacere
di mamme vermiglie nel
rione degli infetti e di città
imperfette in cui
s'annida l'erosione. E di prigione
vorrei dire, esilio dai
prati, dai nomi, dove sognare
non l'ora d'aria, sola,
ma il guado, e scrivere di te
di quando sfidi rocce e
mulattiere
guardando in valle il
torbido che cresce
di te, quieta, presso
l'acqua dei nevai.
per acquistare Le volpi gridano in giardino vedi CFR Edizioni
oppure scrivere a Gianmario Lucini, gianmario@poiein.it
Ciao Stefano, ciao Paolo,
RispondiEliminache piacere incontrarvi insieme!
Complimenti Paolo per la tua Prefazione!
Stefano, ho letto la tua poesia 'Peasaggi con
poeta' e mi ha suscitato questa immagine:
l'uomo di Giacometti, pensa te.
Sai che i miei interessi trasversali
mi portano a confondere arti e linguaggi.
Il tuo testo sembra la parola che sale
dalla terra e dal tempo. Cerca una verticalità
ardua, perché terra e tempo pesano. La gravità
non ci permette che questa breve, sofferta elevatezza: quella della poesia, quella dell'arte, (o quella del gesto generoso
gratuito, aggiungo). La scrittura poetica,
il poeta, in questo caso, vive, sente, si 'carica', della pesantezza
insita nell'impermanenza del vivere colpevolmente accentuata, nel provocare dolore,
dall'uomo stesso, quando si perde, accecato dall'orgoglio difronte ai suoi 'golem'.
La storia, purtroppo, si ripete. Magari non appare con la medesima forma, anche il male
è fantasioso, ma gli effetti sono sempre quelli:
l'umiliazione della vita.
Ma la scrittura poetica, avverte, dice, cerca uno spiraglio di luce, un paesaggio ancora puro.
Un confronto ancora puro. Ma quando è parola poetica, però, non parola opportunista, 'ratta',
infetta.
Un caro saluto,
Armando Bertollo
caro Amando, non potevi dirlo meglio.
EliminaSu Giacometti, che ho sempre amato, mi hai fatto un complimento.
ciao!
Mi fermo qui, sugli ultimi due versi:
RispondiElimina'guardando in valle il torbido che cresce
di te, quieta, presso l'acqua dei nevai'
perché vedo un calco, un’impronta, un’espressione visiva che ipnotizza, una dichiarazione, un testamento, un'ambizione che spasima come un 'lago' vulcanico a cui tendo. L'acqua, la neve, il lago sono un plurimo linguaggio metaforico sussurrato/rivoluzionario che appartiene a letterature che garantiscono il senso e la salvezza di un possibile rigenerare la sacralità della vita. Il 'torbido' resta nel 'percorso terreno' L'ardore di questo verso mi rimanda a Czeslow Milosz.
Grazie Stefano, complimenti! E complimenti al prefatore!
Leggerò il libro.
Rita Pacilio
Grazie Rita!
EliminaIl lago talvolta salva, dunque!
complimenti per il nuovo libro.
RispondiEliminaall'aspetto iconico (citato) del testo qui presentato, aggiungerei quello sonoro e prosodico. se nella prima parte c'è un senso di consapevolezza del aver visto 'parole sole' e altre 'ruine'; nel salto di verso c'è una pur speranza (così mi pare) di un risorgere che 'non decori', ma che cerca 'uno scrivere di te' (celaniano?). ecco, questo è dato con un salto ritmico (che non so quanto o se voluto) che dà senso al discorso poetico.
bella davvero anche la presentazione di Paolo Donini.
un abbraccio
alessandro ghignoli
grazie Alessandro. A proposito di quanto dici: prima ancora di leggerlo ti ho, senza volerlo, risposto, confermando la tua lettura: vedi il commento che ho scritto a Rosa Salvia nel post precedente.
Eliminaciao!
sì, ho visto! telepatie.
Eliminaun abbraccio e ancora complimenti per il nuovo libro
alessandro ghignoli
mi sono trovata, a mio modo, qui:
RispondiElimina'Io per me vorrei uno sfondo che non decori
ma dilati il senso dello stare' e in quella leggerezza, scelta per guardare, dell'ultimo verso, dove si arriva seguendo la musica del testo che pare proprio quell'acqua grigia e viva che scende dal ghiaccio...
io amo camminare e l'acqua dei nevai è una splendida realtà rarefatta che qui viene coniugata con lo splendido mio amore (mai moglie sarà contenta che la chiamo così :-)
Eliminasono contento che ti ritrovi nel verso che citi. è in sintonia con il camminare. E' un viaggio nel senso dello stare, nel pensare lo stare non come immobilità, ma acquietamento. Quasi un permanere nel grembo della vita. Come nella purezza dell'acqua che gocciola alla fine dei ghiacciai.
un incipit che apre i sensi dove la natura è sovrana...che meraviglia!
RispondiEliminacomplimenti Stefano, condivido questa tua gioia come fosse la mia!
cosa può paragonarsi ai ghiacciai che si sciolgono in quanto a bellezza...?
ogni ghiacciaio, là dove comincia (o finisce) ha una pozza limpidissima e bellissima..
Eliminagrazie per il commento!
...di mamme vermiglie nel rione degli infetti e di città
RispondiEliminaimperfette in cui s'annida l'erosione. E di prigione
vorrei dire, esilio dai prati, dai nomi, dove sognare
non l'ora d'aria, sola, ma il guado, e scrivere di te
di quando sfidi rocce e mulattiere
guardando in valle il torbido che cresce
di te, quieta, presso l'acqua dei nevai.
Una poesia che sfolgora e scivola in profondità attraversando chi legge, senza fatica, per il suo portato di densità. Ne sento potente il ritmo e la fascinosa visionarietà. Le scene così vere e vicine, come fossero le stesse mie vie percorse. Solo la poesia genera queste sensazioni.
Quell'alludere - quel tanto che basta in poesia per non debordare nel descrittivo- alle negatività della nostra vita, è reso prodigiosamente da termini come "erosione", esilio dai prati", "ora d'aria", con tutto il loro carico simbolico del male di vivere. Poi la forza evocativa prosegue con spontaneità - per una specie di contrasto che conferisce automaticamente equilibrio- con il desiderio di annullare l'angoscia attraverso il sogno del guado, guardando al passo bello e vigile della compagna, sullo sfondo abbagliante del nevaio. Chapeau.
Per voracità, Stefano, non ho letto gli stralci critici di sicuro entusiasti che precedono il testo esemplare di questa tua nuova raccolta. Corro a prenotarla. Subito, insieme all'antologia necessaria di blancdetanuque.
un caro saluto,
annamaria
Grazie Annamaria, hai detto qualcosa d'importante intorno alla mia idea di scrittura, ma anche alla natura "fuggitiva" della poesia.
Eliminaun caro abbraccio!
Non sapevo di questo libro, che bella sorpresa, mi piacerebbe leggerlo... ;-) Luisa
RispondiEliminahaciendo tuyo ese animal, a veces pasando por la vida, buscando amar cada nudo de silaba pronunciada, conseguir esa palabra, circulo del corazón, sentir esa pasión, ternura, ese único gesto,voz, contenido, mirada con una principal, sola y única forma que derrama el pensamiento, en el molde del intelecto ¿quién sabe dónde?....ah---si. pero sin introducirme en estos textos...sin tiempo...
RispondiEliminaora però traduci... :-)
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