La competenza
e la meticolosità critico-documentaria di Pasquale di Palmo nel curare I
begli occhi del ladro (Il Ponte del Sale, 2004), ci permettono finalmente
di avvicinare in modo esauriente la poesia di Beppe Salvia, autore che
scelse la morte poco più che trentenne e che ebbe la fortuna di crescere
artisticamente entro l’alveo materno di “Prato pagano” e di “Braci”, riviste
dal confine inaugurale e fondativo, consapevoli entrambe nel celebrare, come
scrisse Salvia, «le giovani parole! / rosa come i fiori di pesco, bianche come
i fiori / del mandorlo», sorridenti e
«allegre come belle fanciulle!». Un
progetto, questo, maturato appunto nella koinè romana sul finire degli anni
Settanta, che aveva in Gabriella Sica la fresca pizia esule dall’etruria, e in
Salvia il giovane randagio che rallegrava le sue quiete stanze con
poesie e disegni: «Suonava all’improvviso a casa mia – ricorda la poetessa in
un saggio del 1994 – e mi faceva leggere le sue poesie, o faceva un disegno sul
mio terrazzo». Poesie che ancora non
possedevano la limpidezza di Cuore, frutto maturo in cui, per dirla con
Claudio Damiani, la lingua «dice la cosa, ma seguendola, amandola,
accarezzandola, con affetto schietto, netto»,
secondo la lezione pascoliana poi forse resa al meglio da Saba, Penna, Bilenchi
e, fuor di confine, da John Keats, poeta molto amato da Salvia e, per singolare
coincidenza, sepolto nel cimitero degli inglesi, alla Piramide di Roma.
Le prime poesie di Salvia, pubblicate
postume con il titolo Estate nel dicembre 1985 presso i "Quaderni
di Prato Pagano" con l’eteronimo di Elisa Sansovino, mettono in scena un
io femminile che pare gemello, per humor nero, alla Becchina di Cecco
Angiolieri, però manierate retoricamente secondo il petrarchismo di un Bembo
disposto a soprassedere al decoro ma non alla levitas. Un singolare
connubio di classicità ed energia bassa, tellurica, quasi, scuote i versi
giovanili di Salvia, capace di attraversare una tradizione complessa e di
lontana radice, sino a fare incontrare Penna («Il mio Garibaldino s’è assopito
/ tra le colme ceste del bucato/ un sole ora l’abbaglia e l’ha destato») con l’arzigogolo barocco («Una di pilastri
in riga muta teoria/ fa vagarmi tra rami falbi / ricordi, amici pensier di
bella briga»), per ottenere ad effetto la
temperie stratificata della calda estate della vita, che infiamma i sensi e
tuttavia immalinconisce. Al centro sta la grazia popolaresca della Sansovino,
«aspra e meticolosa giovinetta»
immaginaria nonché controfigura di un poeta-albatro per caso caduto fra i marmi
di una Roma che già aveva lapidato Pasolini, un albatro temporaneamente al
sicuro nel cenacolo pagano governato dalla Sica.
Salvia tuttavia ha un’inquietudine che
niente riesce a placare, qualcosa che Saba curava con la morfina e altri con
l’alcool. Siamo negli anni in cui, giovane, qualcuno s’illudeva di vincere l’arido
vero infilando l’ago nelle vene affinché brillasse «una febbre sul braccio» capace di scaldare l’anima e di chiudere «i
begli occhi del ladro», quelle «vene che
furono marea» (Milo de Angelis), viatico
della prima generazione davvero orfana del mito, ritratta nella sua angosciosa
umanità da Pier Vittorio Tondelli in Altri libertini. Eppure, ciò che a
prima vista sorprende in Salvia, come bene rileva Di Palmo, è proprio «quella
specie di dicotomia che si manifesta tra la vicenda biografica... e la
serenità, quella rassegnata accettazione degli eventi che pervade molte delle
sue liriche più autentiche».
A guardar bene, tuttavia, nella tradizione
cui la “scuola sicana” fa riferimento, la biforcazione evidenziata da Di Palmo
si dissolve, essendo già intrinseco al Petrarca o, più indietro ancora, ad
Orazio, sublimare nella bellezza il dolore, facendone superficie franta eppure
armonicamente in equilibrio, in un gioco di rimandi sonori, ritmici e semantici
capaci di distrarre il sentire del lettore dal buio che li fonda. E davvero le
liriche migliori di Cuore stringono «morte sensi mente bellezza» in un abbraccio d’uomo solitario eppure
sabianamente immerso nella calda vita, in quelle vaghe «voci/ giù nella
via» che gli si slargano «in petto» per condurlo all’umanità tutta. Come il poeta
triestino, anche Salvia non riesce tuttavia a fondersi con essa, a diventarne
parte, e per questo cerca «il sommo di un colle»,
o l’ovatta delle stanze chiuse (entrambi topoi petrarcheschi), fino
talvolta a trasformare questa necessità esistenziale in costrizione metrica, in
esercizio claustrofobico che aduna lessemi omofoni in cui l’ariosità del verso
rischia d’incepparsi, di tornare ai tic propri a Elisa Sansovino. Ma più spesso
- specie in "cieli celesti",
"Cuore" e "Sillabe",
sezioni forti del libro – Salvia mostra d’essere di mano sicura, intrecciando a
maglia larga variazioni infinite del sonetto, così che per quegli spazi
respirino le cose del creato, tra loro vicine grazie all’amicizia, valore
centrale della cultura greco-latina e che appunto in Cuore si coniuga
classicamente con l’ozio, con lo stare insieme in un dolce far niente, che
tolga dal gelo dei giorni, dall’incubo, dalla scissione e dall’angoscia
evocati, poi, in Elemosine eleusine, «un’autobiografia definitiva» in versi e in prosa, scritta tra il 1982 e il
1984. Quest’ultimo libro porta sulla scena la morte, ma anche i Beatles, i
Japan, Andy Warhol: insomma, la musica e l’arte quali farmaci alla solitudine,
con quella doppia valenza intrinseca nell’etimo di pharmakon, che tiene
insieme balsamo e sostanza letale, medicina salvifica e veleno.
In effetti, le tre raccolte poetiche
antologizzate ne I begli occhi del ladro oscillano di continuo fra la
certezza della parola quale medicamento che toglie dai peccati del mondo e la
consapevolezza che niente potrà guarire dal male oscuro, né l’amicizia,
né la poesia, né la forza interiore, che si scopre incapace di aderire naturalmente
alla vita: «nessuno / dell’ordine dell’universo m’ha insegnato / ad amare la
sua natura grande / e umile. Ho offeso con la mia stupidità / la legge della
vita...».
Il libro che Pasquale Di Palmo ci presenta
contiene in conclusione tre racconti brevi, il più bello dei quali è Casa,
storia decadente, a mezzo tra l’estetismo dannunziano e lo Schnitzler del Doppio
sogno, dove mistero, aristocrazia, oppio, sensualità e gelosia sono i
demoni reali dell’iniziazione alla morte del protagonista, a quell’incontro con
l’ombra che sempre innerva i luoghi più intensi dell’aldiqua, restituendoceli
nella loro natura doppia, conflittuale e amorevole ad un tempo, passiva e
attiva, morale e immorale, secondo quell’idea taoista, che altrove Salvia
racchiuse nell’immagine del cuore concavo e convesso, aperto e aprente, in una
circolarità di luce e ombra in cui la poesia s’immerge per rinasce, come ad incipit
vita nuova.
Recensione
uscita, in versione ridotta, ne “La Mosca di Milano”, n.12, maggio 2005 e, ancora più sinteticamente, in Stefano Guglielmin, Senza riparo. Poesia e finitezza, La Vita Felice 2009
LETTERA
Viene la sera, è vero, silenziosa
piove una luce d’ombra e come
fossero i nostri sensi inevitabili
improvvisi, noi lamentiamo
una più vasta scienza.
piove una luce d’ombra e come
fossero i nostri sensi inevitabili
improvvisi, noi lamentiamo
una più vasta scienza.
Aver di quella il frutto
appariscente, la bella brama,
e l’ombra perfino, di sussurri
e di giochi, come bimbi.
appariscente, la bella brama,
e l’ombra perfino, di sussurri
e di giochi, come bimbi.
Ma io lo so Serena io non posso,
in questi tempi segnati dal segreto
di cui s’invade
la nostra intimità,
vivere adesso se non con tale affanno
e così lieve.
in questi tempi segnati dal segreto
di cui s’invade
la nostra intimità,
vivere adesso se non con tale affanno
e così lieve.
Di questo amaro stento già si fa più vero
un sentimento pago di letizia, al modo
che alla sera insieme
andando per le strade
chiare, l’ho visto, d’ombra
e di segreto,
noi siamo tra i perduti lumi
esseri più miti di chi
venuto prima di noi
ebbe solo a soffrire
un sentimento pago di letizia, al modo
che alla sera insieme
andando per le strade
chiare, l’ho visto, d’ombra
e di segreto,
noi siamo tra i perduti lumi
esseri più miti di chi
venuto prima di noi
ebbe solo a soffrire
salvi quasi per caso, e in questo prodighi.
I baci sono bellissimi doni.
PRIMAVERA
In strada come una greppia gli amori,
l’acero festoso salirlo averne
prova, maldestro rampicarsi e i cori
fanciulli che si dan briga, saperne
l’errore novissimo che speranza
rinnova, ed altro coro è allegra danza
nel cuore mio che ammira, l’amore, tra
questo ardire bello ch’è prossimo
ad ogni età fanciulla e là dentro
fanciullezza del corpo acerba e lieta,
l’acero festoso salirlo averne
prova, maldestro rampicarsi e i cori
fanciulli che si dan briga, saperne
l’errore novissimo che speranza
rinnova, ed altro coro è allegra danza
nel cuore mio che ammira, l’amore, tra
questo ardire bello ch’è prossimo
ad ogni età fanciulla e là dentro
fanciullezza del corpo acerba e lieta,
unisono splendente l’arco, corda
d’un suono solo, tende ad origine
e scocca vertigine d’un raggio ov’è
fida malìa accorgere mestizia
splendente
d’un suono solo, tende ad origine
e scocca vertigine d’un raggio ov’è
fida malìa accorgere mestizia
splendente
ESTATE
Di morte m’ha destato il sordo vanto
quel traversar pallido e stanco
il seno d’un prato bruciato, rosse
le ferme corolle segnano i fossi
come volesser, stralunato manto,
il disegno astrale suggerir, ecco
or nel secco vento la curva stanca
della luna al vanire s’affanna,
bruciano le corolle un fuoco vcchio,
al sole ed alla luna opposti astri
fan specchio, immillano quell’altera
vicenda dei due lumi l’ale affannate
terse d’uno sfex ch’ora s’aggrava,
va, sullo stelo d’uno di quei pesti
fiori del prato che sembrano i sitri
sopiti dell’egro strumento dell’anno.
quel traversar pallido e stanco
il seno d’un prato bruciato, rosse
le ferme corolle segnano i fossi
come volesser, stralunato manto,
il disegno astrale suggerir, ecco
or nel secco vento la curva stanca
della luna al vanire s’affanna,
bruciano le corolle un fuoco vcchio,
al sole ed alla luna opposti astri
fan specchio, immillano quell’altera
vicenda dei due lumi l’ale affannate
terse d’uno sfex ch’ora s’aggrava,
va, sullo stelo d’uno di quei pesti
fiori del prato che sembrano i sitri
sopiti dell’egro strumento dell’anno.
AUTUNNO
La posa d’un abito spento e di quel
bianco vestito accanto della sposa
m’innamora; davanti la chiesetta
fanno festa, fan le fotografie,
fugge un bimbo quelle malinconie,
corre allo staccato e già s’affretta
a tornare spaventato dalla rossa
coda d’un galletto che grida or quel
suo strido molesto; è che s’è fatto
nero un nembo di tempesta, rotola
il lombo, la festa malinconicamente
sotto la fredda quercia un vento
ha spenta; piove, fa scuro,or cola
una lacrima lesta; quell’unica
festa il piovasco ha rubata alla sposa.
bianco vestito accanto della sposa
m’innamora; davanti la chiesetta
fanno festa, fan le fotografie,
fugge un bimbo quelle malinconie,
corre allo staccato e già s’affretta
a tornare spaventato dalla rossa
coda d’un galletto che grida or quel
suo strido molesto; è che s’è fatto
nero un nembo di tempesta, rotola
il lombo, la festa malinconicamente
sotto la fredda quercia un vento
ha spenta; piove, fa scuro,or cola
una lacrima lesta; quell’unica
festa il piovasco ha rubata alla sposa.
***
E non rapida foglia scende ove
è rapita la veglia, fiocco lento
bensì s’appresta al volo, lieve neve,
misterioso duttile bianco manto
che rende chiarità serena come
specchio ove posi l’abile libertà
d’un cavallino nero, e poche bave
di fronde su neri stecchi, novità
belle è quella bella gronda soffice
dove la taccola tace e gli occhi miei
fissano il lume che mescola luce
a quelle piume rapite d’un soffio
di freddo, come il disegno sprezzato
il volessi schizzar d’un sogno doppio
che sdegna luci ombre che riposa
in un pianto nevoso e senza voci.
è rapita la veglia, fiocco lento
bensì s’appresta al volo, lieve neve,
misterioso duttile bianco manto
che rende chiarità serena come
specchio ove posi l’abile libertà
d’un cavallino nero, e poche bave
di fronde su neri stecchi, novità
belle è quella bella gronda soffice
dove la taccola tace e gli occhi miei
fissano il lume che mescola luce
a quelle piume rapite d’un soffio
di freddo, come il disegno sprezzato
il volessi schizzar d’un sogno doppio
che sdegna luci ombre che riposa
in un pianto nevoso e senza voci.
Poesie inedite
La notte è lunga a chi non può dormire
E frutta il sonno di nessuno sotto le ciglia
Se posso pensarti mancina come vieni
E racconti non smetti mai di dirmi -
E frutta il sonno di nessuno sotto le ciglia
Se posso pensarti mancina come vieni
E racconti non smetti mai di dirmi -
Non smetti mai di sciogliere le voci
Il bianco sonoro il rosso odoroso
Dell’autunno, la mia vita prima che sia l’alba
La tua bocca inzuccherata di sangue -
Il bianco sonoro il rosso odoroso
Dell’autunno, la mia vita prima che sia l’alba
La tua bocca inzuccherata di sangue -
Allora non fa davvero così male, rapimento
Dei sensi smagriti, in confidenza al loro rossore
I turbinii dei nomi e dei cognomi
Dei sensi smagriti, in confidenza al loro rossore
I turbinii dei nomi e dei cognomi
Rapimento puro come un occhio puro
Come il semplice ascolto quando cadono le immagini
Il nodo della rete che accalappia il cacciatore.
Come il semplice ascolto quando cadono le immagini
Il nodo della rete che accalappia il cacciatore.
***
Io ti invito allo sguardo calmo, quello
Che non esclude albe e crepuscoli ma li contempla
Anche se povero di mezzi, pensa agli acquazzoni
Di primavera che illuminano il verde.
E alle radure che si dilatano le ore
Nelle vasche che il cervello ruba al sonno
E restituisce, in globi trasparenti di veleno -
La morte scalpita a cavallo in questo paese – come da sempre
Che non esclude albe e crepuscoli ma li contempla
Anche se povero di mezzi, pensa agli acquazzoni
Di primavera che illuminano il verde.
E alle radure che si dilatano le ore
Nelle vasche che il cervello ruba al sonno
E restituisce, in globi trasparenti di veleno -
La morte scalpita a cavallo in questo paese – come da sempre
Io ti ascolto rinascere per la china dei giorni
Giorni e giorni come un alacre contadino ed un
Archeologo paziente, in quanto sei sporgenza e insieme fiume
Giorni e giorni come un alacre contadino ed un
Archeologo paziente, in quanto sei sporgenza e insieme fiume
La nivea contrazione che mi assorbe, i nudi
Ricordi che mi assalgono, la casa che si squarcia, infine
Mi arricciolo in capriola mi addormento e faccio un sogno.
Ricordi che mi assalgono, la casa che si squarcia, infine
Mi arricciolo in capriola mi addormento e faccio un sogno.
***
Di qui si vede finalmente il cielo
muto ed eterno e poi di luce chiuso
esso è l’intero aere che racchiuso
l’eremo austro del mistero
lo spande a lacrime e luce e luce
ancor piana ancor grande, anche felice
d’ombra inaccessibile, per tutte chiare
cose e qui nell’intimo cuor del glicine,
che verdeggiando su muri, tacito
e odoroso, chiude l’orto conosciuto
e quasi sol col suo nudo profumo
apre all’immensità d’un volto d’uomo
che di lontano da noi sorride, dio
dell’eterno, con occhi pii e ciglia
ridenti, astratto quasi futuro
muto ed eterno e poi di luce chiuso
esso è l’intero aere che racchiuso
l’eremo austro del mistero
lo spande a lacrime e luce e luce
ancor piana ancor grande, anche felice
d’ombra inaccessibile, per tutte chiare
cose e qui nell’intimo cuor del glicine,
che verdeggiando su muri, tacito
e odoroso, chiude l’orto conosciuto
e quasi sol col suo nudo profumo
apre all’immensità d’un volto d’uomo
che di lontano da noi sorride, dio
dell’eterno, con occhi pii e ciglia
ridenti, astratto quasi futuro
***
Dilaga la tua fronte bianca e sento
Infrangersi e seguire il crollo
Di una diga i lunghi
Affanni, ed un colore acuto nelle vesti:
La fronte d’alito vento e chiome e fronde
Apparsa in sua natura chiara e tanto
Lindi gli occhi che il mio bene accoglie
E inganna, e la stanchezza di quei tenui drappi,
L’occhio piroscafo – in essa i nidi calici – e
Rimuove aurorali alte tempeste
E aurore boreali che esplodono in guazzi di
Dolore i cervi, e le anguille, il mondo intero
Posati – Rimani ancora assorta – Rimani ancora un’ora
Noi siamo i gusci vuoti e secchi
Rumori che non osiamo ascoltare
…
Allontana da me questo fuoco.
Infrangersi e seguire il crollo
Di una diga i lunghi
Affanni, ed un colore acuto nelle vesti:
La fronte d’alito vento e chiome e fronde
Apparsa in sua natura chiara e tanto
Lindi gli occhi che il mio bene accoglie
E inganna, e la stanchezza di quei tenui drappi,
L’occhio piroscafo – in essa i nidi calici – e
Rimuove aurorali alte tempeste
E aurore boreali che esplodono in guazzi di
Dolore i cervi, e le anguille, il mondo intero
Posati – Rimani ancora assorta – Rimani ancora un’ora
Noi siamo i gusci vuoti e secchi
Rumori che non osiamo ascoltare
…
Allontana da me questo fuoco.
***
da Cuore
Adesso io ho una nuova casa, bella
anche adesso che non v’ho messo mano
ancora. Tutta grigia e malandata,
con tutte le finestre rotte, i vetri
infranti, il legno fradicio. Ma bella
per il sole che prende ed il terrazzo
ch’è ancora tutto ingombro di ferraglia,
e perché da qui si può vedere quasi
tutta la città. E la sera al tramonto
sembra una battaglia lontana la città.
io amo la mia casa perché è bella
e silenziosa e forte. Sembra d’aver
qui nella casa un’altra casa, d’ombra,
e nella vita un’altra vita, eterna.
anche adesso che non v’ho messo mano
ancora. Tutta grigia e malandata,
con tutte le finestre rotte, i vetri
infranti, il legno fradicio. Ma bella
per il sole che prende ed il terrazzo
ch’è ancora tutto ingombro di ferraglia,
e perché da qui si può vedere quasi
tutta la città. E la sera al tramonto
sembra una battaglia lontana la città.
io amo la mia casa perché è bella
e silenziosa e forte. Sembra d’aver
qui nella casa un’altra casa, d’ombra,
e nella vita un’altra vita, eterna.
Beppe Salvia nasce a Potenza il 10 ottobre 1954.
Dopo essersi trasferito con la famiglia a Roma nel 1971, studia entomologia e
si dedica alla scrittura. Nel 1979 fonda, insieme ad altri scrittori, la
rivista “Braci”. Collabora a “Nuovi Argomenti”, “Prato Pagano” e altre rivista.
Muore a Roma il 6 aprile 1985. Escono postumi i libri Estate, pubblicato con lo
pseudonimo di Elisa Sansovino (Il Melograno-Abete, Roma 1985), Cuore (cieli celesti) (Rotundo, Roma 1988), a cui viene
assegnato il Premio Leonardo Sinisgalli, ed Elemosine
elusine(Edizioni della Cometa, Roma 1989).
non lo conoscevo...grazie per questa spolveratura di versi sobri, in particolare a questi:
RispondiEliminaIo ti invito allo sguardo calmo, quello
che non esclude albe e crepuscoli ma li contempla
nelle vasche che il cervello ruba al sonno
e restituisce, in globi trasparenti di veleno -
Io ti ascolto rinascere per la china dei giorni
archeologo paziente, in quanto sei sporgenza e insieme fiume.
* * *
la distillazione delle essenze è un gioco che trovo irresistibile!
Ciao Stefano, buona domenica :-)
C.
in effetti, è molto vasta la rosa dei poeti italiani da leggere. Peccato che fuori da pochi blog autorevoli, non se ne parli.
Elimina"I baci sono bellissimi doni" scrive Beppe Salvia. Ed è un bellissimo dono per noi tutti lo sguardo così acuto e sensibile di Stefano Guglielmin alla sua poesia, straordinario alveare di emozioni e pensieri sullo sfondo del Grande Vuoto contemporaneo. Una poesia quella di Beppe, il bambino della notte, come mi va di chiamarlo, in cui gli spettri del luogo coincidono con gli spettri dell'anima. E qui è forse la sua espressione più limpida anche nel senso che, la parola che lo nutre, esprime "il segno incoercibile, la pura meraviglia di chi è vissuto e vive," come egli stesso scrive in Elemosine eleusine, la sua "autobiografia definitiva".
RispondiEliminaGrazie di cuore Stefano! Care cose, Rosa
Cara Rosa, se hai un ricordo di lui che ti piacerebbe condividere, questo potrebbe essere il posto giusto.
EliminaAccolgo subito il tuo invito, Stefano, anche se purtroppo quando Beppe era in vita ebbi poche occasioni di incontrarlo. Negli anni che Beppe trascorse a Roma, io ero a Firenze. Di lui però ho un ricordo nitido. Una sola volta venni a trovarlo a Roma ove nei primi anni abitava con la sua famiglia. Mi colpì la sua camera da letto, spoglia di libri, su una scrivania solo un quaderno e penne, schizzi, matite. Cosa incredibile è che aveva una cultura e una memoria impressionanti. Claudio Damiani dice la stessa cosa in un'intervista rilasciata a Flavia Giacomozzi che nel 2005 ha pubblicato con Castelvecchi il libro "Campo di battaglia" sui poeti a Roma negli anni ottanta. Anzi Claudio dice anche che Beppe distruggeva tutto, scriveva cose stupende che poi buttava nel Tevere insieme ai tanti libri che leggeva. Ho anche un ricordo legato alla nostra adolescenza in Lucania. Beppe sin da ragazzo mostrava una personalità ambivalente, da una parte ci sbalordiva per la sua intelligenza, il suo acume, la sua ironia, dall'altra si chiudeva, cercava la solitudine quando gli capitava di trovarsi in compagnia di persone con cui non riusciva a comunicare. Ricordo una gitarella in campagna, noi quattro cugine insieme a lui ed altri amici. Clima quantomai leggero, scherzi, mangiate, balletti, Beppe non ne poteva più. Si mise in un angolo come un accattone per poi esclamare con quell'humor che lo rendeva unico: "purtareme n'casa", che in dialetto lucano vuol dire: "portatemi a casa". Naturalmente noi a ridere e a prenderlo in giro. Ma lui non se ne fregò mostrandoci solo il suo raro dolcissimo sorriso.
RispondiEliminaanch'io non lo conoscevo...
RispondiEliminami ha molto colpito: la metrica che pare voler provare a contenere quello che esplode dentro, come provare a darsi una regola.. non claustrofobica, ma appiglio per non perdere la musica in suoni troppo stridenti..
l'ho sentito così e in particolare mi è piaciuta l'ultima delle inedite..
l'ultima è amata da tante persone. E' davvero bella!
EliminaIo personalmente uso di rado la parola capolavoro. Per questa sì.
EliminaFrancesco t.
un maestro per me. grazie
RispondiEliminaanche se la tua scrittura è più nervosa?
Eliminaho avuto anche altri "maestri" più nervosi :-)
Eliminaperò diciamo che a parte il nervo, un maestro può sempre risultare appagante da un punto di vista meramente emozionale ma poi non poterlo portare nel proprio bagaglio poetico, nell'atto dello scrivere. Un altro che reputo tale oggigiorno, per parlare anche un po' di viventi, sempre lucano, è Alfonso Guida, che stimo molto, ma che non sento vicino a me. Però quando lo leggo, assorbo parecchio. Ma credo questo capiti a tutti noi, da lettori che poi ci tramutiamo in scrittori.
Intendevo maestro puramente nella trasmissione emotiva. Come tutto il solco lucano, e non solo, ovviamente.
Ciao!
concordo pienamente con te!
EliminaGrazie del ricordo, a tutti coloro che ci hanno contribuito.
RispondiEliminaFrancesco t.
L'ultima poesia che come dice Stefano è amata da tanti(me compresa), non è più inedita perché c'è da considerare ancora una raccolta edita da Fandango dal titolo "Un solitario amore" che comprende un più ampio numero di componimenti poetici di Beppe.
RispondiEliminaDesidero però precisare che Stefano a mio avviso ha scelto i componimenti più belli di Beppe e lo ringrazio anche per questo.
RispondiEliminaC’è un io al limite, nelle poesie di Beppe Salvia, un io affacciato sull’orlo di un abisso che ne rispecchia il vol(t)o di inquietudini e tiene stretto al polso il filo trasparente di quei versi che sono spago ruvido quando si tendono, prima lievi e poi taglienti, a circoncidere la Parola, a trasformarla (salvifica) in viatico per un altrove che è il mondo rovesciato dei giorni persi lungo il cammino – e sono giorni e occhi e mani che si lasciano per strada, che di/sperano, che portano il segno di una nostalgia originaria, la firma di un io al limite del mondo, che pure quel mondo traduce tutto nell’esercizio a ritroso del procedere suo da un ma a una congiunzione. C’è un io che si innamora nascosto all’ombra delle anafore, mentre vira a un dettato limpido, a un dire sulla punta della lingua l’antitesi del corpo che desidera e in quel desiderare si fa di pietra, e lacera a brani sogni e carne, usando poi con maestria figure retoriche per cicatrizzarsi l’anima dissociata, schizofrenica, scossa da brividi di buio, frammentata in liriche torsioni stilistiche, in cerca di una voce ferma, come una preghiera ripetuta che dia senso alla perdita di sé, dell’altro, della realtà che resta muta (e sorda). C’è un io che solo narra di un destino che (ci) attraversa, della paura e del coraggio e dell’errore che siamo, in fondo, noi impastati di dubbi e di assoluto, uomini al confine di un microcosmo che nell’unicità dello sguardo poetico si ridefinisce e si crea ogni volta nuovo. C’è un io così distante estraneo fuori dal mondo a cui appartiene da restituircelo – nel dolore autentico della resa – intero nella sua verità e spietato e vivo da perdercisi appena prima del punto e a capo, della svolta al margine della fine.
RispondiEliminaQuesto testo uscì nel sito "Migranze", nel giugno del 2012
Ringrazio di cuore Silvia Rosa per questa sua bella e incisiva nota che ebbi modo di leggere qualche tempo fa. E' bello constatare come i giovani poeti amino e apprezzino la poesia di Beppe.
RispondiEliminaA mio avviso una scrittura che vibra, unica.
RispondiEliminaSaluti, Giampaolo
qui una mia recensione a Salvia
RispondiEliminaClaudio Damiani
http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2007/02/21/un-solitario-amore-di-beppe-salvia/
grazie Claudio, preziosa testimonianza.
RispondiElimina