domenica 22 gennaio 2012

Niva Lorenzini su Alessandra Cava




I versi in sigla di Alessandra Cava

Mi si chiede di tanto in tanto di indicare quel che penso della poesia
che si produce in questo difficile, protratto avvio degli anni 2000 (e
siamo già al 2011, con un decennio abbondante alle spalle), e ogni
volta mi trovo a rispondere che è la poesia dei giovani o giovanissimi
quella che più mi interessa. Ne sono sempre più convinta.
Sufficientemente lontani dai nonni, dai padri, dai fratelli maggiori, che
però hanno letto e metabolizzato a dovere, sufficientemente esperti di
ciò che capita nell’orizzonte italiano e internazionale, sufficientemente
pratici del rapporto tra diversi linguaggi espressivi, che spaziano dalla
letteratura al cinema, dalla musica al fumetto, dalla filosofia alla scienza
alle arti, la loro scrittura è spesso spiazzante rispetto a categorie in auge
ancora a fine Novecento, e resta in buona parte da indagare. E’ una
scrittura tutt’altro che naïve, tutt’altro che immediata e irriflessa,
tutt’altro che ‘innamorata’ della parola, sia che interferisca con la prosa
(non lo scrivo a caso, sto proprio pensando alla Prosa in prosa di
Inglese, Bortolotti, Broggi, Giovenale, Zaffarano, Raos, e a molti tra i
testi antologizzati nel recente spoglio dei Poeti degli Anni Zero
presentato da Ostuni sul numero 30 della rivista “L’illuminista”), sia
che si dia parcellizzata in versicoli mutili, in schemi contratti pronti a
disgregarsi.

Ho ora tra le mani il messaggio in bottiglia di Alessandra Cava. Il
suo apparentemente compìto, cerimonioso, rsvp. Accetto dunque, da
lettore che si autoiscrive volontariamente nel suo indirizzario anonimo,
di rispondere con un cenno d’assenso al répondez s’il vous plaît così
gentilmente, subdolamente profferto nel titolo. Ma a cosa mi si
convoca? Non chiedeva risposta, il Baudelaire delle Fleurs du mal, all’
“hypocrite lecteur” eletto, in quella circostanza, a “semblable”, anzi a
“frère” del poeta. Ma erano altri tempi, appunto, altre stagioni, altre
poetiche, altra solitudine, altra disperazione, altra denuncia, la sua. Non
è comunque formula usuale per un testo in versi la sigla proposta qui
da Alessandra, ma da cerimonia, rito, spettacolo, invito ad un evento.
Répondez. Ma chi mai? A quale interlocutore ci si rivolge? Non trova
facile ascolto il richiamo in un tempo come il nostro, di assenza di
contatti, di vuoto pneumatico: e allora quelle consonanti in sigla, quella
minuscola, afona, invocazione che dà titolo alla raccolta, suona, ci si
accorge subito, provocatoria, intrigante, alla pari del passo collocato in
epigrafe, che immerge, con depistante indicazione, in un nabokoviano
gioco di specchi, retto sulla finzione della non identità, sulla scomparsa
del senso, nel tempo che accumula immagini non decifrabili.
E’ insomma, fuori di sotterfugi allusivi, un raffinato, sorvegliato
introibo, quel passo siglato Ivan Veen e sottratto al suo The Texture of
Time (ma sottile, ludicamente raffinato è il rinvio, proposto dall’autrice,
alla duplicità parodica dell’Ada or ardor di Nabokov che lo ospita). Un
introibo a un percorso testuale retto su reticenze e silenzi, ma anche su
una ironia molto trattenuta, su una levità giocosa e crudele: dove la
crudeltà riguarda innanzitutto chi scrive, il suo orizzonte emozionale, e
una parola che mentre si espone al richiamo del senso insieme lo nega,
lo dissimula, contraffatto.

Tra slittamenti paronomastici, annunciati subito, in apertura, dalla
parentesi che incornicia un sillabare tra sé e sé, sospeso tra vocazione
al mutismo e sfilacciarsi ecolalico della voce – “(coro che cola / io)” –
prende corpo e forma un tessuto di geometriche inesistenze, fissate un
blocchi compatti che richiamano alla mente la poetessa degli Spazi
metrici, la Rosselli delle iterazioni solide, perimetrate, senza sviluppo.
Né suono né gesto abita lo spazio nudo, ma la traccia di un consistere
afono, in assenza, recluso tra un “di qua” e un “di là”, tra sussurri
sillabati con garbata, ferma compostezza ritmica (“ […] e / oltre
neppure un suono: il sottoscala non ha porte, non si slacciano / i polsi,
non chiama nessuno, nessuno muore”).

Nello spazio metrico di Alessandra Cava si stipano azioni mentali,
ricordi, sedimentazioni in dettaglio che la sintassi fatica ad articolare,
così sgretolate, così parziali nel ricostruire un vissuto che affiora per
tracce mnestiche, recuperate in anamnesi e consegnate a un presente di
fissità sbucciata come i muri di casa, o acuminata come gli “angoli” di
oggetti da fissare nello sguardo (“io sto in ritratto nitido, io sto in
quattro lati buoni, / sto buona nei lati affilati, negli angoli retti
dell’impressione, / sto in pezzi senza memoria nei cassetti, tacendo, io
sempre”). Si procede tra pensieri e cose, pensieri sbrecciati come cose,
zoomati con inquadrature fisse, regolate sull’obiettivo di un occhio
sempre vigile, invasivo e pervasivo, che guarda e da cui si è
ossessivamente guardati (“tu sei l’occhio, sei tutto l’occhio che sei, sei
la lente, / l’obiettivo, il confluire dello sguardo […]”). Non le recupera,
lo sguardo, le res amissae, non restituisce l’ “introvabile tessitura delle
cose perdute”. Semplicemente le mostra, le stana, se ne serve per
esibirle lungo un paesaggio di interni (“il mio amore d’interni, di tubi,
di tetti, di vetri all’incastro”) che è in primo luogo un paesaggio del
corpo. Un paesaggio, uno spazio, in cui si sta senza presupporre un
fuori, a custodire un “bagaglio di niente” e a cercare “sconforto”: il
tutto si produce, tra richiami di voci che interferiscono tra loro,
dinamizzando il rapporto io-tu lungo una sintassi a schema mobile, tra
allitterazioni (“scheletro schivo”…) e rifrazioni foniche che divengono
stilema dominante (“ […] ecco allora l’immagine fatta di niente, ecco
che arriva, / ecco, col suo bagaglio di niente – si sta a scrivere / allora,
si sta in angolo stretto, si sta – “). Così l’incubo si scioglie in
“leggerezza” quasi cantabile, il “durissimo” amore in slittamenti
semantici, ogni volta spinti un poco più in là, lungo lo spazio del verso
o lungo i richiami tra verso e verso, all’inseguimento di un consistere
minimo, miniaturizzato, contratto, cauteloso, e di una concretezza di
continuo esposta a rischio: “ignora la parafrasi, prendi me che arrivo,
prendi / la goccia, raccogli la goccia mancata che sta come piatto / sul
tavolo, sta cauta, non muove, non muove –“.

Fuor di metafora, rsvp. Il messaggio siglato di Alessandra Cava ci
convoca di testo in testo, con la sua sorvegliata, intensa pronuncia, a
risposta: che sia sollecita, possibilmente.

ne «Il Verri», n. 46 – giugno 2011

Niva Lorenzini 

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