giovedì 26 gennaio 2012

Gian Mario Villalta



Premio Viareggio 2011, Vanità della mente di Gian Mario Villalta (Mondadori, 2011) vuole essere un canzoniere sabiano in cui la biografia appare tuttavia per lampi e macchie, per scorci dalla grande carica emotiva.
Che sia un canzoniere ce lo ricorda implicitamente l’autore nella nota, dichiarando d’avere incluso nel libro “una scelta di sequenze provenienti da precedenti raccolte, che hanno continuato a convivere nel tempo, rivisitate e riunite in diverse pubblicazioni”, precisando – ed ecco i lampi e le macchie – che la mappa conseguente è rarefatta e dai contorni sfumati. Le sequenze rinviano a luoghi perduti, con case diroccate o non concluse (“con i ferri ricurvi in terrazza / la malta grezza ai lati della scala”), luoghi familiari, radici cariche di memorie e di vita vera, senza elegia, posti ripudiati  dalla civilizzazione, nei quali l’io lirico ci porta sin dapprincipio, macerie tra le quali ci muoviamo con inquietudine, estranei ai segni, agli odori, eppure – appunto – familiari nella misura in cui tutti abbiamo sperimentato le rovine, non classiche, ma della civiltà rurale.
Le sezioni prima e seconda ci preparano al passo decisivo, l’approfondimento del perturbante: attraversata la contrada, si entra nella morte degli animali da cortile, in quell’esperienza comune eppure crudele, necessaria e naturale, che funge anch'essa da ulteriore strategia di avvicinamento al nodo drammatico del libro: la morte del fratello, al riconoscimento del suo corpo, la cui alterità getta l’io lirico nel più disperato smarrimento: “Riconoscere chi? Non era lui, non era lì, non era altrove”. Disperazione che trova nel ritmo regolare scandito dalla negazione (non era), un effetto di contenimento, di chiara matrice petrarchesca. Ed in effetti, tutto il lavoro stilistico in questo libro agisce per attutire un lutto mai risolto, per distanziare l’orrore del vivere quando sguardo gli ha tolto le maschere. Villalta non grida, ma eroicamente sostiene lo sguardo, per restituirci quanto ha visto con una pietà che commuove, raggiungendo l’apice nella poesia per il padre, che “parla con mio fratello morto”.  “Gli accarezzo la testa – ci confida – li lascio stare / tranquilli mentre continua a parlare”.  Il vecchio padre torna bambino da carezzare teneramente, bambino che parla con l’assente (viene in mente Berto, di Saba, che imbastisce un dialogo con la propria infanzia, un fanciullo dalle calze “color celeste”, che alla fine del colloquio gli risponde “Io sono / […] un morto. Non toccarmi più”). Villalta complica la scena, ma anche la ammorbidisce, tirandosi fuori dal centro, in uno struggente desiderio di riconciliazione: vorrei, dice, che mio padre “parlasse anche a me, ma non quello di adesso, / a me quando ero bambino / pieno di luce sulle sue spalle”.
La luce è l’altro grande tema del libro. Luce che non salva, bensì getta nella palude del senso di colpa per quella morte inspiegabile (“La parola che hanno usato è incidente” eppure, scrive altrove, “mia sarebbe stata la colpa / della sventura a venire”). Quando l'autore ci racconta di quella dipartita, mettendola in coda ad altre morti domestiche (porcellino, coniglietto, pulcino, vitellino, gattini) è proprio con la metafora della luce che ci fa incontrare l’orrore della perdita: “sono stato ostaggio di una luce che mi svuotava il cervello”: una luce selvaggia e aspra, figlia dell’oscurità, un violento disvelarsi del vero, che non ha Dio al capolinea, ma la morte. Morte della civiltà contadina, morte dentro la cultura contadina (a proposito dell’uccisione del coniglio: “non dovevi guardarlo – solo afferrarlo bene, calare il fendente a mano nuda dietro le orecchie”), morte del legami familiari in seguito alla vecchiaia che avanza, agli stili di vita che cambiano, morte della lingua madre che è “morte del mondo dei dialetti”, altro tema importante in Villalta, che qui risolve nella sezione vernacolare già dal primo testo, il cui incipit è rivelatore: “Dirò che l’è sta lu, el dialeto, che ‘l me se à / revoltà, che me son revoltà”. Lingua e corpo, codice e identità s’impastano, s’intricano, come la memoria e l’attesa di un aprirsi fecondo del tempo, che trova luogo nella seconda parte del libro, pur in un amaro pervasivo, che s’interroga impotente sulla “forza che spacca il tempo dentro il legno”. Eppure, qualcosa rinasce, vuoi per amore, vuoi per la natura desiderante dell’essere, qualcosa che “diventa / nostra e subito felicità, subito angoscia”. Non è possibile l’uscita definitiva da questo oscillazione estrema, in cui gli opposti si succedono senza soluzione di continuità, ma tentare di trattenere più a lungo il tenore solare della vita è necessario, a partire dai piccoli gesti quotidiani: “E se cominciassimo a sorridere e a salutarci / da dentro le auto, nei sottopassaggi, nei visi riflessi sui vetri azzurrati?”. Ancora Saba, e Pascoli, rivisitati con una sensibilità più disincantata, che ha fatto tesoro di una lingua contaminata con gli umori scuri del mondo contemporaneo, educata, tuttavia, sobria, che cerca un pubblico solidale, una cerchia di umani feriti, ma non disposti a piegarsi, non vinti ma quieti nel conservare preziosi dolori con i quali ancora riescono a sentirsi vivi. Una poesia insomma il cui antagonista è l’esistenza offesa non tanto dal potere, ma dalla natura, una poesia leopardiana dunque, ma non nichilista e che non denuncia, preferendo accompagnare il lettore attraverso l’emozione che ci sostanzia in quanto esseri caduchi, quel tremore che lo stare nell’aperto del mondo chiede di pronunciare, senza proclami o formule di rivolta, proprio perché la “rivolta”, in Villalta, è da intendersi appunto nell’accezione di essere rivoltati, "rivoltà", prede anziché predatori, soggetti sempre sul punto di diventare impasto, carnefici di se stessi in quanto portati dalla lingua, essa stessa in una divenienza distorcente, temporalità che piaga. Ecco Zanzotto, di cui Villalta è un eccelso studioso.


L'invaso

Odore di cenere bagnata e terra
fino a quando, entrando, ci assale
il dolce chimico dei miasmi.
Un posto ripudiato, come il resto:
alle tre è buio fuori, colore asfalto
gli alberi, il cielo, le mani unte e gelate
mostrano in alto, dove la copertura
è divelta, appiccicate alle travi
migliaia di api unte e gelate.
In sacchi neri, squarciati, abiti,
resti di scatolame, vetri. Cosa cerchiamo qui?
Con bastoni ammucchiamo aghi
di pino, marce schegge di rami
per camminare fino al dirupo,
prima di andarcene.


***

Rimane l’unto addosso, dappertutto,
con la nebbia che sale dagli impianti.
Dovevamo fermarci una notte per ritornare,
come se ci fosse qualche cosa da proteggere,
qualcuno che nel buio chiede dov’è.
Questa mattina ho scoperto una corona
di punture di spillo, sulla coscia, una lieve morsicatura
rosa e grande come una moneta.


***

Si poteva fare strage di animali selvatici
in quei giorni, mentre l’acqua saliva.
Ma le creature più lente, le bestiole della zolla
e degli alberi, restavano con le case
e le masserizie abbandonate dov’erano.
Anche Guerrino e la Bianca - si dice, aggiungendo
che è una leggenda - erano crature lente,
erano arredamento che non ci poteva stare
in un’altra casa, arnesi inutili altrove.


***

Entrò dalla penombra
con un vitello in braccio,
grondanti, anche l’animale, e più pallidi
dei muri, che per un istante abbiamo pensato
fosse venuto su dalla vecchia strada interrotta
che scende, opalescente, sotto l’acqua.
Ma eravamo noi i clandestini, nella stalla,
entrati per cercare riparo
e poi assuefatti al tepore, alla luce gialla dei neon.
Nella cucina fredda, dopo, non potendo rifiutare l’offerta
di un vino da poco, parlavamo troppo forte,
per non sentire le voci che sussurravano nella pioggia.


Fratellino


Era necessario tornare per riconoscerlo. Toccava a me. Per tutta la strada in auto e poi a piedi, dal parcheggio fino alle sale dell'obitorio, sono stato ostaggio di una luce che mi svuotava il cervello.
Poi qualcosa che non era sgomento e non era sollievo. Rico­noscere chi? Non era lui, non era lì, non era altrove.






Visita


Le mani strette sopra la tavola
fa silenzio la testa sul bicchiere, aspettando,
ma non qualcuno, non me.

Io ho sulle spalle ancora le montagne,
le alte montagne di neve risplendono
dentro la stanza chiamano luce, luce e lui
attento a non versare,
sbaglia il mio nome dolcemente,
parla con mio fratello morto.

Gli accarezzo la testa, li lascio stare
tranquilli mentre continua a parlare.

Porto il pane al suo posto, il piatto nel lavello,
ripiego il giornale vecchio.

Dovrebbe il tempo adesso aprirsi
per le montagne così presenti,
sentisse anche lui chiamare la luce
delle montagne lontane
e i capelli risplendere freschi,
parlasse anche a me, ma non quello di adesso,
a me quando ero un bambino
pieno di luce sulle sue spalle.


Natura


La forza che spacca il tempo dentro il legno
e trascina le pietre nel mese di marzo
a valle dei torrenti, l'accanimento della materia
alla rovina, a rinascere, lo sforzo della mente
per figurarsi la pioggia innumerevole,
per arginare i silenzi, dove cede
a un limite breve, a un'ombra, dove diventa
nostra, e subito felicità, subito angoscia?



Gian Mario Villalta è nato a Visinale (Pordenone) nel 1959, insegna in un liceo e dirige il festival pordenonelegge.it.
Ha pubblicato diversi saggi sulla poesia, tra i quali II respiro e lo sguardo (2005) e nel 1992 La co­stanza del vocativo.La "trilogia"diAndrea Zanzotto, del quale ha curato inoltre gli Scritti sulla letteratura (2001) e, con Stefano Dal Bianco, il Meridiano Le poesie e prose scelte (1999). Pres­so Mondadori ha pubblicato due romanzi: Tuo fi­glio (2004) e Vita della mia vita (2006).Tra le sue precedenti raccolte di poesia ricordiamo L'erba in tasca (1992), Vose de vose - Voce di voci (1995, ried. 2009) e Vedere al buio (2007).


4 commenti:

  1. Un piacere rileggere Gin Mario, la sua fedeltà rinnovata e le sue istanze di salvezza, utopia ri affidate alla poesia. Che nella nuova raccolta trovano FORMA e ritmi, da vero canzoniere. Bella la scelta, inoltre,e la introduzione.
    Maria Pia Quintavalla

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  2. grazie per le belle parole.

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  3. l'accanimento della materia
    alla rovina,
    .....
    Molto bella la nota e i testi qui riportati, come ha già detto Maria Pia...non conoscevo Villalta, prenderò al più presto questo canzoniere...e le necessità "sciolte" dalla luce.
    ......

    Era necessario tornare per riconoscerlo.

    Un saluto
    mm

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