In uno dei suoi CXI Pensieri estrapolati dallo Zibaldone dopo la sua morte e ripubblicati qualche anno fa da Adelphi (a cura di C. Galimberti), Giacomo Leopardi annotava:
«Se avessi l’ingegno del Cervantes, io farei un libro per purgare, come egli la Spagna dall’imitazione de’ cavalieri erranti, così io l’Italia, anzi il mondo incivilito, da un vizio che, avendo rispetto alla mansuetudine dei costumi presenti, e forse anche in ogni altro modo, non è meno crudele né meno barbaro di qualunque avanzo della ferocia de’ tempi medii castigato dal Cervantes. Parlo del vizio di leggere o di recitare ad altri i componimenti propri: il quale, essendo antichissimo, pure nei secoli addietro fu una miseria tollerabile, perché rara; ma oggi, che il comporre è di tutti, e che la cosa più difficile è trovare uno che non sia autore, è divenuto un flagello, una calamità pubblica, e una nuova tribolazione della vita umana. E non è scherzo ma verità il dire, che per lui le conoscenze sono sospette e le amicizie pericolose; e che non v’è ora né luogo dove qualunque innocente non abbia a temere di essere assaltato, e sottoposto quivi medesimo, o strascinato altrove, al supplizio di udire prose senza fine o versi a migliaia, non più sotto scusa di volersene intendere il suo giudizio, scusa che già lungamente fu costume di assegnare per motivo di tali recitazioni; ma solo ed espressamente per dar piacere all’autore udendo, oltre alle lodi necessarie alla fine. In buona coscienza io credo che in pochissime cose apparisca più, da un lato, la puerilità della natura umana, ed a quale estremo di cecità, anzi di stolidità, sia condotto l’uomo dall’amor proprio; da altro lato, quanto innanzi possa l’animo nostro fare illusione a se medesimo; di quello che ciò si dimostri in questo negozio del recitare gli scritti propri. Perché, essendo ciascuno consapevole a se stesso della molestia ineffabile che è a lui sempre l’udire le cose d’altri; vedendo sbigottire e divenire smorte le persone invitate ad ascoltare le cose sue, allegare ogni sorte d’impedimenti per iscusarsi, ed anche fuggire da esso e nascondersi a più potere; nondimeno con fronte metallica, con perseveranza maravigliosa, come un orso affamato, cerca ed insegue la sua preda per tutta la città, e sopraggiunta, la tira dove ha destinato. E durando la recitazione, accorgendosi, prima allo sbadigliare, poi al distendersi, allo scontorcersi, e a cento altri segni, delle angosce mortali che prova l’infelice uditore, non per questo si rimane né gli dà posa; anzi sempre più fiero e accanito, continua aringando e gridando per ore, anzi quasi per giorni e per notti intere, fino a diventarne roco, e finché, lungo tempo dopo aver tramortito l’uditore, non si sente rifinito di forze egli stesso, benché non sazio. Nel qual tempo, e nella quale carnificina che l’uomo fa del suo prossimo, certo è ch’egli prova un piacere quasi sovrumano e di paradiso: poiché veggiamo che le persone lasciano per questo tutti gli altri piaceri, dimenticano il sonno e il cibo, e spariscono loro dagli occhi la vita e il mondo. E questo piacere consiste in una ferma credenza che l’uomo ha, di destare ammirazione e di dar piacere a chi ode: altrimenti il medesimo gli tornerebbe recitare al deserto, che alle persone. Ora, come ho detto, quale sia il piacere di chi ode (pensatamente dico sempre ode, e non ascolta), lo sa per esperienza ciascuno, e colui che recita lo vede; e io so ancora, che molti eleggerebbero, prima che un piacere simile, qualche grave pena corporale. Fino gli scritti più belli e di maggiore prezzo, recitandoti il proprio autore, diventano di qualità di uccidere annoiando: al qual proposito notava un filologo mio amico, che se è vero che Ottavia, udendo Virgilio leggere il sesto dell’Eneide, fosse presa da uno svenimento, è credibile che le accadesse ciò, non tanto per la memoria, come dicono, del figliuolo Marcello, quanto per la noia del sentir leggere. Tale è l’uomo. E questo vizio ch’io dico, sì barbaro e sì ridicolo, e contrario al senso di creatura razionale, è veramente un morbo della specie umana: perché non v’è nazione così gentile, né condizione alcuna d’ uomini, né secolo, a cui questa peste non sia comune. Italiani, Francesi, Inglesi, Tedeschi; uomini canuti, savissimi nelle altre cose, pieni d’ingegno e di valore; uomini espertissimi della vita sociale, compitissimi di modi, amanti di notare le sciocchezze e di motteggiarle; tutti diventano bambini crudeli nelle occasioni di recitare le cose loro. E come è questo vizio de’ tempi nostri, così fu di quelli d’Orazio, al quale parve già insopportabile; e di quelli di Marziale, che dimandato da uno perché non gli leggesse i suoi versi, rispondeva: per non udire i tuoi: e così anche fu della migliore età della Grecia, quando, come si racconta, Diogene cinico, trovandosi in compagnia d’altri, tutti moribondi dalla noia, ad una di tali lezioni, e vedendo nelle mani dell’autore, alla fine del libro, comparire il chiaro della carta, disse: fate cuore, amici; veggo terra. Ma oggi la cosa è venuta a tale, che gli uditori, anche forzati, a fatica possono bastare alle occorrenze degli autori. Onde alcuni miei conoscenti, uomini industriosi, considerano questo punto, e persuasi che il recitare i componimenti propri sia uno de’ bisogni della natura umana, hanno pensato di provvedere a questo, e ad un tempo di volgerlo, come si volgono tutti i bisogni pubblici, ad utilità particolare. Al quale effetto in breve apriranno una scuola o accademia ovvero ateneo di ascoltazione; dove, a qualunque ora del giorno e della notte, essi, o persone stipendiate da loro, ascolteranno chi vorrà leggere a prezzi determinati: che saranno per la prosa, la prima ora, uno scudo, la seconda due, la terza quattro, la quarta otto, e così crescendo con progressione aritmetica. Per la poesia il doppio. Per ogni passo letto, volendo tornare a leggerlo, come accade, una lira il verso. Addormentandosi l’ascoltante, sarà rimessa al lettore la terza parte del prezzo debito. Per convulsioni, sincopi, ed altri accidenti leggeri o gravi, che avvenissero all’una parte o all’altra nel tempo delle letture, la scuola sarà fornita di essenze e di medicine, che si dispenseranno gratis. Così rendendosi materia di lucro una cosa finora infruttifera, che sono gli orecchi, sarà aperta una nuova strada all’industria, con aumento della ricchezza generale».
Un vizio che continua ad imperversare questo...del resto Baldassar Castiglione raccomandava il perfetto cortigiano di evitare cadute di tono, come ad esempio quella di tediare i commensali col racconto dettagliato dei propri sogni... non c'è nulla di più noioso che ammannire agli amici le diapositive dei propri viaggi (per fortuna le diapositive sono cadute in disuso) o l'esibizione vanagloriosa dei propri versi..ora tutto questo accade sulla piazzetta virtuale di feisbouk e per fortuna si può fuggire da questa fiera delle vanità con un semplice click....ma nulla è mutato dai tempi di queste considerazioni leopardiane...
RispondiEliminaGià conoscevo e sembra scritto oggi. Che grande, Leopardi.
RispondiEliminaCiao!
fb in effetti, è proprio questo. tranne i nostri post, naturalmente :-)
RispondiEliminabig Leopards, the best :-)
... e che finissimo sense of humor, in questo scritto... ;-) luisa p.
RispondiEliminasuper, vero!
RispondiEliminanaturalmente: tranne i nostri, non sia mai detto! :D
RispondiEliminaAh l'atroce eleganza dello stoico doc Leopardi !
RispondiEliminaAh, l'atroce veritiera eleganza dello stoico doc
RispondiEliminaLeopardi !
l'atroce, veritiera e sarcastica eleganza... :-)
RispondiEliminaDio, quanto è ancora e ancor di più, vero!!!!Il mio rimedio consiste nel non andare quasi mai ad ascoltare chi legge, prevedendo la noia inevitabile e il narcissimo comico del lettore. O per lo meno selezionare al massimo l'ascolto. O quando proprio non ci si può rifiutare. Basterebero, anzi,avanzerebbero già, i libri dei poveri di spirito che girano a vuoto le loro pale intasando l'acqua che dovrebbe scorrere. Ma vaglielo a dire! non serviebbe affatto. L'ignoranza di sè è un una specie di istinto di sopravvivenza e in quanto tale non conosce vergogna, per non annegare o precipitare o bruciare nel fuoco dell'esistere (così credono loro, creando invece un pauroso Buco di Nulla).
RispondiEliminaEscludendo i post, ovviamente che sono informativi, riassuntivi e anche educativi in tal senso, e che almeno ci salvano dalla pletorica voce e postura di chi ripompa le proprie sciocchezze!
Poi si sa, di sopra c'è il bosco frondoso e fertile! Altro discorso....
Cristina Annino.
bosco frondoso tavolta solo nel ricordo...
RispondiEliminaciao Cris, buone feste!
E' un po' vero,sì, ma dai, non siamo così cattivi, qualche abete anche oggi c'è, per fortuna (nostra e del terreno)....Non facciamo di tutta l'erba un bosco solo!!!
RispondiEliminaCiao, Stefano, ancora auguri.
Cris.
hai ragione!
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