martedì 11 ottobre 2011

Davide Nota


Malgrado la portata generazionale e di denuncia siano evidenti ne La rimozione (Sigismundus Editrice, 2011) di Davide Nota, occorre caratterizzarne meglio la declinazione, prima di fare del poeta marchigiano una bandiera dell'impegno tout court, sulla scorta delle sue frequentazioni reali (Gianni D'Elia) e ideali (Pasolini). D'altro canto, lo stesso D'Elia allenta dalla politica il nodo dell'impegno, nella misura in cui la denuncia delle malattie del sistema è pervasa dalla nostalgia di una giovinezza perduta che ha portato, con dolore, ad una sconfitta generazionale (cfr. in particolare Sulla riva dell'epoca, 2000). E' «il cieco struggimento della vita» – presente in Febbraio (1985) – ad inquietarlo nel profondo, cui nessuna prassi organizzata può davvero far fronte. Semmai è l'azione comune, il sentirsi uniti nella lotta politica a dare l'illusione di vincere il non senso del tempo storico, laddove in Leopardi è la natura a non garantirci un fondamento (in Bassa stagione, 2003: «Avevamo in cuore qualcosa, come / l'amore, ci sentivamo così forti, volendo / essere dolci»).

Anche Nota parte da qui, solo che la sua generazione non ha cavalcato alcun drago, subendo invece la deriva (o la violenza) sin da subito. Peggio: i trentenni italiani sono stati rimossi dalla progettualità politica gerontocratica e anche da quella produttiva, costringendoli ad un isolamento da qualsiasi nucleo di potere. La rimozione di cui si parla in questo libro è dunque, anzitutto, privazione di progetto politico e generazionale, furto della parola noi, così cara alle generazioni precedenti, per lasciare emergere quanto rimane ad un uomo solo, che ha sognato di partecipare al cambiamento e si trova invece nevroticamente a lottare con le proprie pulsioni, in balia di un sistema alienato: «La vita non la comprendo. Adeguarmi è impossibile» scrive dall'esilio galwayano (ma che può essere esteso ad ogniluogo), tracciando un verso decisivo per l'economia de libro perché, impossibilità a partecipare alla polis e incomprensione (o meglio, forse, non accettazione delle dinamiche selettive proprie del biologico), sono appunto l'effetto di un sentirsi rimosso dal centro di ogni evento, persino da quello identitario, laddove, per converso, egli sogna d'essere «un continente» del quale poter «intendere / persino gli argini, i bordi, gli orli». Ed invece Nota, ci dice, di quei bordi non possiede la chiave, per cui non gli resta, speso il lamento sulla propria generazione («Volevo il meglio / da questa generazione sballata / di pasticche e psicofarmaci») che raccontarci nei dettagli una vita nel degrado (cfr. la sezione La gravità, nella quale non mancano riferimenti al suo disperato incontro con la metropoli romana), con lampi in cui rivendica autenticità, seppur malata, di contro ad un mondo del «fascismo universale» del quale, in fondo, si sente altrettanto responsabile: «Anch'io sono colpevole del male / che regna vomitevole e banale».

Le poesie più belle di questo libro sono perciò quelle in cui l'ideologia scompare, lasciando l'io lirico baudelairianamente messo a nudo, così che gli attriti e le lacerazioni della società si mostrino nelle piaghe del corpo narrante, che tuttavia resiste, cantando di sé un'origine che «è dentro l'assedio», che contrasta l'assedio, scrivendo e chiamando a raccolta i dispersi: «Occorre ritrovarsi» recita l'incipit de Gli orfani, poesia splendida che tiene insieme quanto detto sinora. E' questo l'impegno che Nota, in quanto poeta, può mettere in gioco per essere credibile. Non convince invece quando santifica l'analfabetismo e l'ignoranza cari al mito preindustriale pasoliniano, ma poi, come Pasolini fino agli anni Sessanta, costruisce versi coltissimi, oppure butta tutti i critici nel letamaio perché non capiscono «un cazzo di poesia», generalizzando come il peggiore dei critici. Il rischio di questa posizione è il luogo comune, proprio quanto egli cerca di fuggire come persona e come intellettuale. La rimozione – è questo è il suo limite – patisce e non risolve queste due tensioni, quella che si misura con la radice tragica dell'esistenza e l'altra, ideologica, ossia pescata da un già detto culturalmente riconoscibile (e non basta citare Guy Debord per attualizzarlo), che non rende giustizia all'unicità della storia, anche generazionale, dei nati in questi ultimi decenni. A convincere, invece, sono quei versi in cui la voce si stacca dal crudo biografismo (nel quale la masturbazione sembra l'attività più rivoluzionaria), per accogliere le metafore in cui natura e uomo s'incontrano, come, per esempio: «Il mio corpo è impastato di grano e dell’acqua / assolata; e della lattuga. / Tiene l’odore della ricotta salata / che si mette sulla pasta col sugo».


dalla sez. La muta


III.


Foresta erba selvosa,
l’infanzia silenziosa.
Nel rogo piattaforma,
l’effigie della norma.
C’era una volta un padre,
l’icona che non s’apre.
Serenità seriale,
la strage funzionale.




dalla sez. Il fiore del fascismo universale



I.


Mi aggiro tra i banditi democratici,
gli abolitori dello stato di diritto.
Se spezzo la catena è solo un sogno
ridicolo, che lascia posto all’ombra.
La storia nostra morta è ancora questa
del grumo di catarro, terra e sangue
rappreso dove vomita la bestia
balcanica o dove il volto esangue
del ragazzino morto sotto al treno
sorride sventolando un lembo pesto
di carne.
Come somiglia questa vita a quella
già morta da decenni per violata
sovranità del nostro bene in guerra,
o al cranio tumefatto del fanciullo
che la consunta morsa della madre
nutrire può solo di mosche e terra.
Così il mercato dell’impero nero
tra i profughi, i suicidi e gli ammazzati
battezza con il sangue dei soldati
l’avvento del fascismo universale.




II.


Io sono un continente.
Chiudessi gli occhi riuscirei a intendere
persino gli argini, il bordo, gli orli.
E mi accompagno a questo limine
di roccia e sale, a questa
successione di frane.
Adesso dormo nell’insonne lava
di questa valle oscura
di vagine e calanchi.




dalla sez. Viola


I. Gli orfani


Occorre ritrovarsi. Su questo bagnasciuga
reticolato. Dentro queste macchie
di acquerelli e pixel. Nel cielo
sfibrato. Occorre comunque ritrovarsi.
L’immagine è sfocata. Un’ombra
accartocciata ai piedi del mare.
(Non lo so neanch’io, no: non lo so...).
Sulla battigia desolata
gli uomini in fuga cercano un rifugio
e i deboli un lungo sonno.
Così come orfani del mondo
incatenati nella febbre a vita
del giorno: è così, sì, va bene...
Ma sebbene le tubature siano molte
e la sorgente unica
l’origine, Giulia, è dentro l’assedio.



V. Rappresentazione


[...]


*

E San Lorenzo appare
nella sua scomposizione
di sabbia bagnata.
Avremmo detto: certo, avanziamo,
così come per fare un movimento qualsiasi.
La rappresentazione è salvaguardata.
Io voglio il meglio.
Se fuoco non arde. E fontana
ricorda. Verde. Blu.
Volevo il meglio
da questa generazione sballata
di pasticche e psicofarmaci.
Così certo, potremmo facilmente bruciare
il vecchio mondo rappresentato,
ma un enorme deserto illuminato a nuovo
non era certo il fine di questa guerriglia!
(La schermata del cielo
gelidamente oggettivo).



dalla sez. La gravità



III. Il cardo


I fiori dei giardini pubblici
proprietà degli assessori comunali
riproducono confini funzionali
alla conservazione di padroni e schiavi.
Ma la poesia è gramigna,
selvatico fiore incolore o dal pessimo
gusto, si manifesta
al passaggio del matto (due o tre l’anno
su queste contrade lo vedranno).
E non serve al decoro né all’animo
schiavizzato è sollievo. Come il cardo
montano non colto e alla vista
mistero del pianoro deserto, al pensiero
fratello e il pastore di un tempo
ci faceva il risotto.



dalla sez. Seconda chiusura


I.

La rete, questo ghiaccio che s’apre
scardinando
il tarassaco del tempo.
Ci fu uno sguardo e fu l’amore forse,
dei lineamenti riprodotti a pena.
Ma nulla da ricordare, come dopo un incidente d’auto.
Ma nulla da ricordare, come dopo un danno cerebrale.
Camminare come pioppi verso le città distanti,
questo bisognava fare: risplendere
di una volontà assente.
E non dirci più niente,
perché vuol dire illudersi.
Se torni adesso è una serranda chiusa,
rotta la serratura, occorre entrarci dal retro.
Ma sotto certe croste che si cascano
in avanti, segnali
murali
a questo cuore ancora uguali.



Davide Nota è nato a Cassano d'Adda (MI) il 21 novembre del 1981. Laureato nel 2007 in Lettere Moderne (Indirizzo Storico) presso l'Università di Perugia, con una tesi sulla “Nuova poesia italiana” (Relatore: Giovanni Falaschi). Residente ad Ascoli Piceno. Domiciliato dal 2008 a Roma. Fondatore nel 2005 e redattore del Foglio quadrimestrale di poesia e realtà La Gru. Ideatore nel 2009 del movimento “Calpestare l’oblio”. Ha scritto e pubblicato sulle principali riviste di letteratura e poesia contemporanea (tra le tante: “Atelier”, “Nuovi Argomenti”, “Lo Specchio della Stampa”, “Carmilla“, “Chorus”, “Ut”, “Nazione indiana”, “Il foglio clandestino” etc.). Ha pubblicato tre libri di poesia: Battesimo (LietoColle, 2005), con introduzione di Gianni D'Elia; Il non potere (Zona, 2007), con una lettera prefatoria di Luigi-Alberto Sanchi e La rimozione (Sigismundus, 2011), con una nota introduttiva di Raimondo Iemma. Ha partecipato come relatore a numerosi convegni letterari sotto il patrocinio della Regione Marche, della Regione Umbria, della Regione Lazio e dell’Unesco. Nel 2007 è stato tra gli organizzatori della mostra “Chilometri di tonnellate” dedicata all’artista ascolano Ivan Paolini (1979-2004), che si è tenuta ad Ascoli Piceno con il patrocinio del Comune e della Provincia di Ascoli Piceno. Ha scritto e firmato la premessa al catalogo della mostra, dal titolo “Sanguesu tela”. Ad ottobre del 2009 ha tenuto una lezione di letteratura italiana contemporanea presso l’Università di Innsbruck, in Austria. Dal 2009 è membro giurato del premio di poesia “Sandro Penna”, di Città della Pieve (PG). Nel novembre del 2009 ha ideato e organizzato “Calpestare l'oblio”, iniziativa dei poeti italiani contro l'oblio della memoria e della cultura nella società italiana, di cui si sono occupati molti quotidiani nazionali (L'Unità, Il Giornale, Il Corriere della Sera, Il Foglio, Libero, Gli altri, Il manifesto) oltre che il settimanale Left, il sito di Micromega, Radio24, Radio3, Rai3 e RedTv. A dicembre 2009 ha curato il libro “Riscritti corsari. Scritti per L’Unità” di Gianni D’Elia, con una premessa di Furio Colombo. Nel 2010 e 2011 ha collaborato come consulente con l’Ufficio eventi culturali presso l’Assessorato alla cultura del Comune di Roma, in particolar modo ha curato gli incontri dedicati alla nuova poesia italiana all’interno della rassegna “La Poesia è di Casa 2010-2011”. Dal 2010 collabora stabilmente con Il Resto del Carlino - Marche per cui cura una rubrica settimanale di poesia contemporanea dal titolo “Cartasporca”. Nel 2011 ha fondato la casa editrice Sigismundus, con sede legale ad Ascoli Piceno e secondaria a Roma. Dal 2011 cura una rubrica radiofonica dedicata alla poesia dal titolo “La poesia è morta? Viva la muerte!” presso l'emittente RadioSonar di Roma.

10 commenti:

  1. Caro Stefano,
    grazie per questa lettura dialettica, che mi consente di interrogarmi su quel che non convince l’interlocutore, di mettermi in moto.
    Mi permetto (perché mi serve alla risposta) di citare un mio passaggio da uno scambio sullo stesso libro con un critico letterario:

    “[…] Quel che credo muova i moti di questo libro e lo renda per taluni incomprensibile è l’innesto acido e lisergico, assurdo, tra banalità e oscurità, propriamente tra imbecillità e tragedia; come rovesciare ossessivamente e compulsivamente un calzino che è sempre rovescio, tra tentazione regressiva e risata amletica, immersione mimetica nella nuova folla del web - quasi una reverie elettronica - e la fuga impossibile in una memoria archetipica, inventata.
    Ma sono due alienazioni di chi è vissuto esclusivamente nel perimetro di una fine d’epoca e a cui è negata del tutto la dimensione temporale: non un passato di riferimento a cui tornare, non un futuro da sfiorare.
    Nella narcolessia dell’eterno presente 1981-2011 matura dunque il verminoso classicismo di questa prima ispirazione, una “ricerche” senza “memoire” le cui uniche chiuse possibili sono due invocazioni all’apertura della crepa storica.
    P. s.
    Rimozione: come riferimento psicanalitico, certo; ma anche rimozione da parte dell’inconscio storico collettivo nei confronti di una Storia materiale, popolare, comunarda; e rimozione di una generazione colpevole persino d’essere nata, dacché nulla era per lei predisposto.
    In ultimo, rimozione attiva della norma (il buon gusto, letterario e sociale) da parte di questo io poetante (direi: di questa carne poetante) in ridicola rivolta.”.

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  2. La definizione di “Ridicola rivolta” - o di “Rivolta del ridicolo” come scrive Iemma nella nota prefatoria, o di “Rivolta demenziale” come viene definita ne “La gravità” è il punto su cui si fonda integralmente il “Secondo discorso” di questa opera doppia, con infatti una duplice conclusione, il cui correlativo oggettivo è quello della “Noce” che si apre in due e per metà delle possibilità è eburnea, per l’altra metà è invece andata a male, una castana peluria di vermi.
    Temo che non ti convinca questa seconda possibilità dell’esistente.
    Non mi pare risulti chiaro, inoltre, che il “Poeta ridicolo”, il cattivo poeta che si masturba sognando il Grande Fratello, il rifiutato che inveisce gonfio di bile “contro i critici”, che spernacchia i professori e maledice i “poeti di sinistra” è un personaggio letterario. L’io poetante non è l’io biografico, o non sempre; e non è dato sapere ove è tracciato il limite. Certamente è un alter-ego, nel modo in cui un alter-ego vuole sporcare, guastare, la biografia autoriale - addirittura sovrapponendosi ad essa, come un gioco schizofrenico e scemo.
    Non notare alcuna differenza tra la voce intelligente e quella demente, se entrambe sono fiato caldo che suona la carne.
    Per questo, anche, le metriche e le rime dei frammenti sul Club privè per scambisti sono le medesime dei frammenti che seguono sul mare argentario. Interno ed esterno sono la medesima cosa. Non noto (l’io poetante non notava) alcuna differenza in niente, una volta degradata la cultura.
    La parabola è manifesta nella prosa “Lettera dal letto” dove il promesso Assessore a un certo punto, chissà per quale raptus, si mette a masturbarsi con una foga insensata nel pieno centro della Piazza del Popolo, alle sette della sera. Nessuna rivoluzione, nessuno scandalo, dacché lui lo fa per far ridere un amico. Anche se poi naturalmente la sua carriera è lì conclusa (la cultura attorno è feroce), e lui, il suo corpo sarà “rimosso”, andrà sui monti, dove morirà e si farà cardo, che è il fiore non colto (con entrambe le valenze semantiche: non reciso e incolto) cioè il simbolo della “poesia” nel capitolo de La gravità.
    Incultura non nel senso di ignoranza scolastica, ma nel senso di tentare un azione di auto-degradazione della propria cultura di riferimento, al fine di guardare il mondo almeno per un momento nudo.
    Assumendo, anche, il punto di vista di chi mi ingiuria. Tornare indietro dall’identità, come dice il testo che hai citato, contro i poeti di sinistra, che si conclude con: “quando percorro a ritroso la strada / che mi ha portato qua, dove non ci sta nessuno”. Assumendo, anche, il punto di vista di uno stupratore ed assassino, che seppellendo il corpo canta: “l’ho uccisa perché un ordine chiamava / contro una crepa che doveva aprirsi”.

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  3. Si tratta di un libro, credo, difficile nella misura in cui può apparire immediatamente comprensibile. Ma c’è sempre qualcosa di ambiguo (anche semanticamente, infatti ho abusato di termini polisemici o di enjambement che sospendono - e raddoppiano - il senso), qualcosa di non individuabile che sfugge alla comprensione lineare, che guasta il contesto e battezza l’imprevista metamorfosi o decomposizione successiva.

    Si è fatto tardi e sebbene l’istinto sia quello di scrivere una Storia e cronistoria del libro, desisto per pietà dell’interlocutore.
    Aggiungo solo che ho lavorato molto a questo libro, faticosamente e nel dettaglio stilistico e semantico - per esprimere qualcosa che non credo abbia molto a che vedere con il pensiero politico o sociale (sebbene si parli di fascismo, come si parla di Youporn) quanto con la tentazione di esistere e di duplicarsi di un frutto che cadendo sul selciato cementizio non può far altro che spalancarsi in pantano nauseante e appiccicoso.
    Questo cattivo gusto trovo commovente, drammatico e splendido, ed è ciò che ho amato cantare.

    Mi scuso per eventuali sviste o errori ma è tardi e non ho la lucidità per rileggere. Grazie ancora,
    Davide

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  4. Caro Davide, la tua risposta fa onore alla tua persona e all'intellettuale che sei. Appunto perché uomo capace di discernimento, la resa che metti in campo nella seconda voce in "ridicola rivolta" come può diventare strumento di comprensione e approfondimento del presente. Ascoltandola, mi viene in mente l'operazione, sul versante narrativo, di Aldo Nove: per quanto capace di mostrare il verme dentro il piatto, non sa come buttarlo via per riedificare lo spazio in cui si muovono i suoi poersonaggi derelitti.

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  5. io credo che dobbiamo arricchire il senso del prsente, mostrarne l'ombra, mantenendo una lucidità che un io lirico mediocre non può possedere.
    In una parola, secondo me la poesia dovrebbe parlare dal crinale in cui si vedono le macerie ma anche il loro limite, facendo i conti, nel contempo, con una tradizione che is è misurata in questo.
    Vero che la tua generazione è sradicata sotto il profilo professionale (e di quresto bisogna scriverne), ma si è nutrita comunque di letteratura eccetera: cibo che ha dato forma alla rabbia. Forma che non è soltanto stile (che tu hai ben assimilato), ma anche un portare avanti (o di lato) un discorso altrui, coniugarlo affinché la voce precedente si ancora più chiara. E' come se la poesia dei contemporanei avesse lo scopo di aiutare a comprendere la poesia dei nostri padri. Es: Gozzano mi è più chiaro dopo aver letto Sanguineti; e Pascoli dopo aver letto Pasolini e Montale.
    Le poesie "mediocri" che tu metti in campo, con chi dialogano?

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  6. Lucia Guidorizzi12/10/11 15:54

    Soprattutto dal contrasto e dalla disarmonia nascono spunti significativi: la rimozione in toto di un paio di generazioni ha azzerato l'immaginario sociale politico e poietico attuale. L'inconveniente di essere nati grava in maniera imbarazzante sulla contemporaneità, ma è storia vecchia migliaia di anni. Non dimentichiamo Crono che divora i suoi figli.

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  7. In questo libro, nello specifico, credo di avere dialogato molto con Pessoa, con il David Lynch di Inland Empire e con Bill Viola - a cui, nella polisemia della parola "Viola" (il colore, il fiore, lo strumento, l'atto del violare) è anche segretamente dedicato un capitolo.
    Le fascinazioni momentanee sono poi moltissime: da Fortini ad Agrippa D'Aubigné, da Eschilo al Rilke de "Il testamento", da Syd Barrett a Fabri Fibra.
    Quello che ho definito l'amalgama insensato di banalità e tragedia, ma anche di elegia - è la risposta alla tua domanda, nel senso che non essendo i brani slegabili (nessun testo è autosufficiente, come suggerisce anche la composizione numerata a catena) ne risultano degli organismi mutanti in cui non è possibile un'interpretazione. Mai è solo banalità, mai è solo profondità, mai è solo intelligenza, mai è solo idiozia, mai è solo comicità da avanspettacolo, mai è solo dramma, mai è solo vero, mai è solo farsa. Tutti i fattori sono commisti in un'opera fangosa ma liquida. Nel senso anche che c'è questo continuo doppio movimento di qualcuno che vuole devastare un'opera (disegnare con un Uniposca un "cazzo" sulla tela linda e ispirata di un bel paesaggio) e di qualcunaltro che vuole disegnare un bel paesaggio sul muro di un urinatoio devastato da disegni osceni.
    La luce, di cui mi chiedi, è nell'intercapedine tra i due piani.
    Davide

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  8. Caro Davide, mi pare che le tue chiarificazioni arricchiscano il tuo lavoro e lo rendano ancor più un frutto complesso del postmoderno. Cultura della quale non so che cosa tu ne pensi, ma che io considero ancora l'apertura del contemporaneo e alla quale anch'io cerco di partecipare.
    grazie per gli interventi.

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  9. Penso del Postmoderno quel che si pensa di un territorio che si abita, sia come un limite (e mi sento molto limitato) che come l'unica possibilità di un'azione non forzata. Temo che il Postmoderno non sia la percezione dell'avverarsi di un'alba ma la degenerazione allucinatoria della più profonda e sfiancante notte di cui parlava Heidegger nel celebre saggio ispirato dal verso di Holderlin "Perché i poeti nel tempo della povertà?".
    Dunque mi sento in una "Fine" da cui non è possibile ipotizzare alcun dopo ma solo testimoniare una sete di metamorfosi e di rinascita biografica e storica.
    Grazie a te. Con amicizia,
    Davide

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  10. dici "rinascita" e questo mi basta per capire che, per te e per me, la "fine" è un modo nuovo di stare nella storia: questione sempre fraintesa da chi non vuole approfondire.

    ciao e grazie ancora per questo interesante dialogo.

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