La filosofia non può dimostrare tutto e la realtà non può che essere descritta e mai esaustivamente. Pertanto, nella necessaria incessante sostituzione di parole con altre, la fonte di immagini che esse innescano è un flusso ininterrotto in cui nessun sopito o unico senso può ricomporsi sotto gli occhi del lettore. Ed è proprio la complessità che, a nostro avviso, Guglielmin con questa sua ultima e così originale prova C’è bufera dentro la madre vuole afferrare, vuole cogliere nel suo specifico movimento e tenere ben salda come valore. Complessità che non perda nessuno dei suoi pezzi per strada a causa di un errato o parziale uso degli strumenti volti a restituirla. Ora, che questo debba tentarsi con i mezzi propri del linguaggio parrebbe una banalità, ma una letteratura di ricerca pone proprio questo come obiettivo. Guglielmin non teme di forzare il proprio linguaggio con l’inserzione di parole brutali: “capisce quando vita svacca, ne sente il crepo destro / e il sinistro, cura per questo la piaga che è sua, salta di lato. / poi la sera, in groppa al leone che è stato, sfila la calma dal chiodo / la scuce, mentre dorme, una ventata di femmine gli stira le pieghe / gli alza il livello del mare.”. E non teme nemmeno che l’accostamento di sostantivi appartenenti a contesti differenti, non nati da analogie, ma dalla frammentazione delle percezioni e dalla loro ricomposizione attraverso un ulteriore elaborazione mentale che non escluda aprioristicamente nessun materiale, possa provocare un senso non desiderato, addirittura repulsivo. E questo, crediamo fermamente, sia un punto di forza del testo di Guglielmin: la sua accettazione del senso così com’è, il suo non avere paura di una pratica che non teme la proliferazione di significati, diversamente da chi vorrebbe cogliere il reale prima che il senso si formi, quasi fosse possibile sorprenderlo/congelarlo al di fuori del senso stesso. Il senso è qui ottenuto dalla corto-circuitazione di brandelli di frasi tratte, dunque, dal linguaggio comune, colto e specialistico: “cola sifoni e fa mestruo nei fondi”, “cura col maglio il rischio d’impresa”, “tasta la lingua del multimedia”, “Freud lo fa fiorire dal sogno”, “annusa il tractatus”, dove vediamo mescolarsi senza soluzione di continuità oggetti e economia, filosofia e terra, ambiente domestico e comunicazione. E’ qui che vediamo all’opera l’intersezione di poesia e filosofia, il crinale sul quale le due forme di conoscenza si fiancheggiano condividendo frammenti di pensiero. Il testo poetico di Guglielmin è un colloquio con la filosofia espresso in altra forma, dove le parole della filosofia sono anch’esse divenute oggetti di cui fare esperienza: “io, dice, ma intende quel proprio suo gettato di fuori / l’insieme dei motivi stretti in vita, sui quali regola il canto. / quando d’autunno siede sul limo, il lago dentro si muove / e così i piombi con cui pesca la quiete, d’estate, invece / doma murene e forze piene di spine.” . La filosofia, qualcosa su cui riflettere come su qualsiasi altro oggetto caduto sotto la nostra attenzione, può, infatti stimolare un’analogia, un ricordo, può valere come un imprevisto cono di luce che rischiari ciò che altrimenti scorrerebbe indifferenziato su un nastro di montaggio. D’altronde, solo chi rinunci a dare qualsiasi cosa per scontata può avere la possibilità di fare scoperte, di scorgere connessioni improvvise e risolutive, di individuare lo spiraglio che da uno stato mentale ci porti a un imprevisto stato mentale, il quale ci doni la ricchezza – letteralmente creandola – che non c’è nel mondo. Questa ricerca, per chi ha compiuto studi filosofici come Guglielmin, ha il precipuo valore di una rinnovata definizione della pratica filosofica stessa, in cui non solo la narrazione, oltre al ragionamento astratto, arricchisca la sua capacità di partecipare alla costruzione della nostra visione, ma anche l’immissione di una compromissione linguistica, che come avevamo precedentemente detto, non paventi di immettere nel suo armamentario strumentale anche oggetti spuri e ambigui: tutti rigorosamente ricavati dal linguaggio e non da una pretesa realtà oggettiva. Così è da un profondissima umanità che sembra trasalire assieme agli umori della terra il canto in sordina di Stefano Guglielmin, doppiamente inestimabile nell’assedio problematico sferrato da tutti i fronti contro una dimora in cui sia invece possibile abitare, da costruirsi con un linguaggio su misura, personale, ma anche universalmente valido.
Rosa Pierno
Rosa Pierno è nata nel 1959 a Napoli, dove si è laureata in Architettura nel 1986. Vive a Roma. Dal 1993 collabora come redattrice alla rivista di ricerca letteraria 'Anterem'. Curatrice della rubrica 'Tangenze' sulla rivista d'arte 'Il Libretto', Edizioni Pagine d'Arte di Matteo Bianchi. Collabora con la galleria La Nube di Oort in Roma, con testi inediti sugli artisti in mostra. Suoi testi sono presenti in numerose riviste, antologie e pubblicazioni d'arte. Qui la sua bibliografia.
Il titolo mi pare MOLTO significativo.
RispondiEliminaSono ormai credo più di dieci anni che vado meditando proprio su questa bufera dentro la madre.
Se ci sarà un futuro, o sarà delle madri - in ogni senso - o non sarà.
Eppure oggi è messa a dura prova la biologia stessa del femminile...
Nel sereno dopo questa bufera, spero.
CiaU
Ciau Ulisse, buon viaggio!
RispondiEliminaBah!
RispondiEliminaGiovanni Chidichimo