domenica 15 marzo 2009

John F. Deane


Uscito da qualche mese presso le edizioni di Atelier, Gli strumenti dell'arte di John F. Deane è magistralmente tradotto da Roberto Cogo, dalla cui prefazione riporto alcuni intensi stralci.

interrompendo il flusso


Fino a pochi anni fa, la poesia di JFD era praticamente sconosciuta agli italiani. Con l'uscita, nel 2002, della raccolta di poesie scelte Il profilo della volpe sul vetro (in una preziosa collana dedicata alla tra­duzione di poeti contemporanei viventi, magistralmente curata da Paolo Ruffilli per le Edizioni del Leone di Venezia) l'attenzione verso l'opera del poeta irlandese si è accesa e va intensificandosi. Lo stesso libro menzionato sopra, ha di seguito ottenuto il Premio Internazionale di Poesia, sezione stranieri a Marineo, in Sicilia.

Le dichiarazioni di JFD riguardanti la situazione della poesia in Manda e del suo difficile rapporto con la realtà odierna — nel suo breve ma intenso saggio The Censorship of Indifference or the Demise of Poetry, riproposto da Chiara De Luca (anche lei autrice di traduzioni italiane di Deane) all'interno del suo sito internet — potrebbe valere, in qualche misura, anche per la situazione italiana in riferimento ai rapporti tra grandi editori e poesia, sia nazionale che straniera. Vorrei qui proporne alcuni brevi stralci (la traduzione è mia): «Mai ho trovato la poesia tanto ignorata dalla realtà come oggi»; «il linguaggio è stato rubato da persone di potere che hanno ottenuto un controllo sui media e che manipolano le parole conformandole ai loro piani»; «Semplicemente, è impossibile trovare volumi di poesia sugli scaffali delle nostre librerie più grandi, ed è praticamente inutile cercare di convincere queste librerie a tenere poesia in traduzione» (JFD si riferisce alle pubbli­cazioni di autori contemporanei, ma potrebbe valere anche per gli altri); «Se solo una parte minima di giornali e riviste danno spazio con riluttanza a recensioni di poesia nazionale, per quanto riguarda la poe­sia tradotta siamo prossimi al nulla».
Il breve saggio si conclude con queste parole che illuminano, almeno in parte, la sua poetica, offrendoci uno spunto da cui iniziare ad adden­trarci nell'intricata ricchezza del vasto universo della sua poesia: «L'affermazione del momento, del luogo, del qui e ora - questa è la poesia - non il fatto del suo valore o uso commerciale o non-commerciale. Una poesia è un'epifania che interrompe il flusso».


Questa nuova traduzione di JFD, riprende quasi per intero l'edizione inglese uscita per la casa editrice Carcanet, nel 2005; risulta mancante solo la sezione dal titolo The Artist, che nell'economia italiana del libro andava ad appesantire, forse eccessivamente, secondo il parere dello stesso poeta irlandese, un ambito particolare — il suo drammatico e fondamentale rapporto con la religione e il sacro. La sua rinuncia a prendere i voti dopo avere frequentato il seminario segna, come è facile intuire, una svolta fondamentale nella sua vita. Il tema religioso — in particolare, l'urto tra le esigenze spirituali dell'individuo e le rigidezze dell'istituzione religiosa — si ripresenta infatti con regolarità nel procedere del libro, intrecciandosi agli altri temi basilari, come quello del difficile e complesso rapporto con il quotidiano; quello familiare e della memoria; e, last but not least, quello prevalente (nel senso che riesce a racchiudere tutti gli altri in un unico ampio abbraccio) della relazione del poeta con la sua terra, in particolare, con la scabra e vento­sa Achill Island, isola nativa di JFD, situata nell'estremo nord-ovest d'Irlanda, nella contea di Mayo, e a cui il poeta dedica non pochi tributi.


Tutto ciò è esemplarmente evidente fin dalla poesia che apre il libro, Canvas, che ci rende più chiara la cifra del procedimento poetico o, per così dire, la macchina complessa dell'operare artistico di JFD. Pertanto, in questa composizione, il poeta, dopo aver di nuovo preso atto, con rabbioso dolore, di una realtà inesorabilmente intrisa di guerra e di morte («questa terra-ossario»), trova momentaneamente conforto nel ricordo del padre, il che però lo porta fatalmente a rievocare anche il giorno della sua morte: le calde dita del padre che sfiorano il freddo liquido dell'acquasantiera, si fondono con quelle del figlio che «tocca­rono la sua fronte gelata» nell'estremo doloroso momento della sua dipartita. A questo punto, l'elemento naturale della pioggia riporta il poeta al presente, schiudendolo alle altre mute presenze che lo circon­dano: la luce serale, il ritrarsi delle zampette di un rondone, le nuvole, una cornacchia e infine un airone, la cui ombra in movimento, per un attimo, lo rigetta nella memoria di una guerra passata; a questo punto, avviene il grande salto, il passaggio o spostamento, da una semplice e concreta visione di vita terrena, a una sublime contemplazione artistica che poi sconfina nella sinestesia del divino — per quanto quest'ultima venga connotata di ambigua lontananza, facendo prevalere anche il pre­cedente e protratto gioco di contrasti: «poi il mondo sopra di me // fu un capolavoro di Botticelli che concesse / al mistero il suo scopo, poi spalancai il lucernario / inalando tutta l'asprezza e il trastullo di Dio / con il curioso lento girare delle stelle».
Quando l'infanzia (presente nella poesia di JFD innanzitutto come rievocazione e memoria personale) con le sue meraviglie e magie si presenta come un rifugio e la nostalgia sembra prevalere, ecco però rifarsi vivo, all'improvviso — spesso attraverso l'apparizione o la visione istantanea di un elemento naturale, animale o vegetale — un energico soffio di stupore che libera il campo da un facile accartocciar­si su se stessi e sul proprio senso di perdita, delusione o sfiducia. Se i ricordi dell'infanzia sulla sua isola sono come «territori...orlati da can­didi fiori / di biancospino» in cui è pienamente percepibile la presenza del divino e anche di una comunanza con esso attraverso la natura: «tu, mio Dio, eri il mio Dio vivente, e io / ero il tuo figliolo, non-prodigo, coinvolto, timoroso»; le esperienze e l'improvviso ripiombare nel pre­sente fanno prevalere un senso di cautela, in cui la direzione da prende re non è più chiara, mai sicura, così che tutto si fa insieme «strano e familiare». Il mistero irrisolvibile del vivere pervade adesso anche il paesaggio, è presente nella natura — pur sempre attraente nella sua enigmaticità e sofferenza, spesso causata dalla brutale azione umana: «poor creatures» era ripetuto già nelle raccolte precedenti in riferimen­to agli animali spesso feriti e intrappolati o costretti a razzie notturne nelle villette ben curate dei sobborghi cittadini che hanno invaso i loro tenitori e ridotto all'osso le loro prede e alimenti. La volpe, trasformatasi in simbolo trasfigurato di una natura violentata e sacrificata — che lì aveva addirittura assunto su di sé la sofferenze di Cristo — qui ricompare, ma oramai come un patetico emblema fossilizzato: «lungo \ la costa una volpe / di roccia sta in posa sulle pietre come una ballerina / mentre le dita belle e sapienti del vento / tracciano linee d'oro lungo / la sua pelliccia».
Un altro legame profondo, decisivo e, insieme, sempre misteriosamente presente, (come abbiamo già potuto notare) è quello tra i vivi e i morti, attraverso un movimento temporale inesausto di rievocazioni e improvvisi salti della memoria, familiare e non. «Tutti i cari estinti» — partecipi, in particolare, della seconda sezione del libro dal titolo The Old Yellow House — vengono, infatti, di continuo riproposti all'atten­zione del lettore, quasi sempre unitamente ai loro luoghi, così saturi delle loro cose (ma anche soltanto del loro ricordo), o accompagnati ai segni lasciati dal loro passaggio sul paesaggio domestico e naturale — quest'ultimo, peraltro, pare accogliere e inglobare tutto e tutti nel suo enorme grembo di torba (dalle connotazioni, devo dire, insieme mater­ne e spaventevoli).


Lo stile sobrio della scrittura poetica di JFD non concede molto spazio a orpelli o ammiccamenti, né a eccessi ritmico-sonori o a immagini esteticamente ricercate ed elaborate. Tutto si muove all'interno di una logica livellante che fa dei toni medi e dei ritmi smussati il proprio ambito di ricerca — riservandosi però spazi di improvviso fulgore, momenti rivelatori di rara intensità e bellezza. Certamente, la sua ardente frequentazione e conoscenza della Bibbia e dei Vangeli — pre­senti nei suoi testi sotto forma di reperti e citazioni, prestiti e variazioni su temi noti — conferisce alle composizioni un carattere particolare, intessuto di episodi emblematici e costruito sull'esemplarità dei gesti, così come su improvvise soluzioni di stampo didascalico o sapienziale ma, nello stesso tempo, anche su una grande aderenza alla realtà delle cose e dei fatti, così come alla concretezza disarmante di un vivere che si radica e si alimenta in un'incessante e sentita esperienza del quoti­diano.


The Instruments of Art

...................................................(Edvard Munch)


We move in draughty, barn-like spaces, swallows
busy round the beams, like images. There is room
for larger canvasses to be displayed, there are storing-places
for our weaker efforts; hold

to warm clothing, to surreptitious nips of spirits
hidden behind the instruments of art. It is all, ultimately,
a series of bleak self-portraits, of measured-out
reasons for living. Sketches

of heaven and hell. Self-portrait with computer;
self-portrait, nude, with blanching flesh; self
as Lazarus, mid-summons, as Job, mid-scream.
There is outward

dignity, white shirt, black tie, a black hat
held before the crotch; within, the turmoil, and advanced
decay. Each work achieved and signed announcing itself
the last. The barn door slammed shut.



*

There was a pungency of remedies on the air, the house
hushed for weeks, attending. A constant focus
on the sick-room. When I went in, fingers reached for me,
like cray-fish bones; saliva

hung in the cave of the mouth like a web. Later,
with sheets and eiderdown spirited away, flowers stood
fragrant in a vase in the purged room. Still life. Leaving
a recurring sensation of dread, a greyness

like a dye, darkening the page; that Dies Irae, a slow
fret-saw wailing of black-vested priests. It was Ireland
subservient, relishing its purgatory. Books, indexed,
locked in glass cases. Night

I could hear the muted rhythms in the dance-hall; bicycles
slack against a gable-wall; bicycle-clips, minerals, the raffle;
words hesitant, ill-used, like groping. In me the dark bloom
of fascination, an instilled withdrawal.



*

He had a long earth-rake and he drew lines
like copy-book pages on which he could write
seeds, meaning – love; and can you love, be loved, and never
say ‘love’, never hear ‘love’?

The uncollected apples underneath the trees
moved with legged things and a chocolate-coloured rust;
if you speak out flesh and heart’s desire will the naming of it
canker it? She cut hydrangeas,

placed them in a pewter bowl (allowing herself at times
to cry) close by the tabernacle door; patience in pain
mirroring creation’s order. The boy, suffering puberty, sensed
in his flesh a small revulsion, and held

*

hands against his crotch in fear. Paint the skin
a secret-linen white with a smart stubble of dirt. The first
fountain-pen, the paint-box, pristine tablets of Prussian Blue,
of Burnt Sienna – words

sounding in the soul like organ-music, Celeste and Diapason –
and that brush-tip, its animated bristles; he began at once
painting the dark night of grief, as if the squirrel’s tail
could empty the ocean onto sand. Life-

drawing, with naked girl, half-light of inherited faith,
colour it in, and rhyme it, blue. In the long library, stooped
over the desks, we read cosmology, the reasoning
of Aquinas; we would hold

the knowledge of the whole world within us. The dawn
chorus : laudetur Jesus Christus; and the smothered,
smothering answer: in aeternum. Amen. Loneliness
hanging about our frames, like cassocks. New



*

world, new day. It is hard to shake off darkness, the black
habit. The sky at sunset – fire-red, opening its mouth
to scream; questions of adulthood, exploration of the belly-flesh
of a lover. It was like

the rubbling of revered buildings, the moulding of words
into new shapes. In the cramped cab of a truck she, first time, fleshed
across his knees; the kiss, two separate, not singular,
alive. It was death already, prowling

at the dark edge of the wood, fangs bared, saliva-white.
Sometimes you fear insanity, the bridge humming to your scream
(oil, casein, pastel) but there is nobody to hear, the streaming river
only, and the streaming sky; soon

on a dark night, the woman tearing dumbly at her hair while you
gaze uselessly onto ashes. Helpless again you fear
woman: saint and whore and hapless devotee. Paint your words
deep violet, pale yellow,



*

the fear, Winter in Meath, Fugue, the Apotheosis of Desire.
The terror is not to be able to write. Naked and virginal
she embraced the skeleton and was gone. What, now,
is the colour of God is love

when they draw the artificial grass over the hole, the rains
hold steady, and the diggers wait impatiently under trees? Too long
disturbing presences were shadowing the page, the bleak
ego-walls, like old galvanise

round the festering; that artificial mess collapsing
down on her, releasing a small, essential spirit, secular
bone-structure, the fingers reaching out of need, no longer will.
Visceral edge of ocean,

wading things, the agitated ooze, women on the jetty
watching out to sea; at last, I, too, could look
out into the world again. The woman, dressed in blue, broke
from the group on the jetty and came



*

purposefully towards us, I watched through stained glass of the door,
and loved her. Mine the religion of poetry, the poetry
of religion, the worthy Academicians unwilling to realise
we don’t live off neglect. Is there

a way to understand the chaos of the human heart? our
slaughters, our carelessness, our unimaginable wars?
Without a God can we win some grace? Will our canvases,
their patterns and forms, their

rhymes and rhythms, supply a modicum of worth?
The old man dragged himself up the altar steps,
beginning the old rites; the thurible clashed against its chain;
we rose, dutifully, though they

have let us down again, holding their forts
against new hordes; I had hoped the canvas would be filled
with radiant colours, but the word God became a word
of scorn, easiest to ignore. We



*

came out again, our heartache unassuaged.
The high corral of the Academy, too, is loud with gossipers,
the ego-traffickers, nothing to be expected there. Self-
portrait, with grief

and darkening sky. Soon it will be the winter studio; a small
room, enclosed; you will sit, stilled, on a wooden chair, tweed
heavy about your frame, eyes focused inwards, where there is
no past, no future; you sit alone,

your papers in an ordered disarray; images stilled, like nests
emptied; the phone beside you will not ring; nor will the light
come on; everything depends on where your eyes
focus; when

the darkness comes, drawing its black
drape across the window, there will remain
the stillness of paint, words on the page, the laid down
instruments of your art.




Gli strumenti dell’arte

..............................................(Edvard Munch)


Ci muoviamo in luoghi ventosi simili a fienili, le rondini
indaffarate intorno alle travi, simili a immagini. C’è spazio
per mostrare le tele più grandi, ci sono magazzini
per i nostri tentativi più scarsi; tieniti

gli abiti caldi, i surrettizi sorsi di liquore
nascosto dietro agli strumenti dell’arte. Si tratta, in definitiva,
di una serie di tetri autoritratti, di misurate
ragioni di vita. Schizzi

di paradiso e inferno. Autoritratto con computer;
autoritratto nudo con carni impallidite; come
Lazzaro nel mezzo della chiamata, come Giobbe tra le urla.
Vi è una dignità

apparente, camicia bianca, cravatta nera, cappello nero
tenuto davanti all’inguine; dentro, tumulto e avanzato
decadimento. Ogni opera conclusa e firmata annuncia di essere
l’ultima. La porta del fienile sbattuta con violenza.

*

C’era un’acre odore di medicine nell’aria, la casa
silenziosa per settimane, in attesa. Una continua attenzione
alla stanza del malato. Quando entrai, le dita allungate verso me
come chele di gambero; la saliva

sospesa nel cavo della bocca come una ragnatela. Più tardi,
con lenzuola e copriletto ravvivati, fiori fragranti
stavano in un vaso nella stanza ripulita. Natura morta che lascia
ricorrenti sensazioni di paura, un grigiore

simile a una tinta che oscura la pagina; quel Dies Irae, un lento
gemito di preti in nero paramento, simile a una sega. Era l’Irlanda
servile che gustava il suo purgatorio. Libri messi all’indice,
chiusi in scaffali di vetro. Di notte,

percepivo i ritmi attutiti della sala da ballo; biciclette
inerti contro il muro del frontone; fermagli, minerali e la lotteria;
parole esitanti, maltrattate, brancolanti. Dentro me, l’oscuro fiorire
della seduzione, una trasfusa ritirata.



*

Aveva un lungo rastrello e tracciava linee
simili a pagine di quaderno su cui poter scrivere
i semi, significanti amore; ma si può amare, essere amati, senza mai
dire ‘amore’, senza mai udire ‘amore’?

Le mele abbandonate sotto gli alberi
si spostavano su zampette e ruggine color cioccolato;
se si esprime il desiderio del cuore e della carne, nominandolo
lo si farà incancrenire? Lei tagliò le ortensie,

le ripose in una ciotola di peltro (lasciando sfogo alle lacrime
di tanto in tanto) vicino alla porta del tabernacolo; nel dolore la pazienza
riflette l’ordine della creazione. Il ragazzo, subendo la pubertà, provò
una leggera repulsione per la sua carne, e si strinse



*

le mani tra le gambe impaurito. Dipingi la pelle
col bianco dei panni segreti e una stoppia elegante di sporco. La prima
penna stilografica, la scatola dei colori, tavolette originali di Blu di Prussia,
di Terra di Siena – parole

che risuonano nell’anima come musica d’organo, Celesta e Diapason –
e le setole vivaci sulla punta del pennello; cominciò subito
a dipingere l’oscura notte del tormento, come se la coda di scoiattolo
potesse svuotare l’oceano sulla sabbia. Ritratto

dal vero con ragazza nuda, in penombra di fede ricevuta,
colorala e rimala d’azzurro. Nella biblioteca oblunga, chini
sopra i banchi, leggevamo cosmologia, i ragionamenti
dell’Aquinate; avremmo conservato

dentro la conoscenza del mondo intero. Il coro
all’alba: laudetur Jesus Christus; e la soffocata,
soffocante risposta: in aeternum. Amen. Solitudine
che pende dai corpi come la tonaca. Un nuovo



*

mondo, un nuovo giorno. Difficile scuotersi di dosso il buio, la nera
abitudine. Il cielo rosso fuoco al tramonto che apre la bocca
per urlare; richieste di maturità, esplorazioni del ventre carnoso
di un’amante. Pareva

di frantumare gli edifici venerati, di forgiare le parole
in nuove forme. Nella stretta cabina di un camion, per la prima volta, lei s’incarnò
tra le sue ginocchia; il bacio, due esseri separati, non uniti,
vivi. E fu già la morte che s’aggira

all’oscuro limitare del bosco, a zanne scoperte, bianco-saliva.
Talvolta si teme la pazzia, il ponte che ronza al tuo grido
(olio, caseina, pastello), ma non si ode nessuno, solo il fiume
che scorre, e il cielo che scorre; presto,

in una notte buia, la donna si tirerà i capelli in silenzio, mentre tu
fisserai inutilmente le ceneri. Di nuovo indifeso temi
la donna: santa o puttana o infelice devota. Dipingi le tue parole
di viola intenso, di giallo chiaro,



*

la paura, Inverno a Meath, Fuga, L’apoteosi del desiderio.
Il terrore è di non riuscire a scrivere. Nuda e virginale
lei abbracciò lo scheletro e se ne andò. Qual è ora
il colore di Dio è amore

se stendono l’erba artificiale sulla buca, se la pioggia
persevera e chi scava attende impaziente sotto gli alberi? Ombre
di presenze scomode furono troppo a lungo sulla pagina, fosche
mura dell’ego, come ferro arrugginito

intorno al marciume; quel disordine artificiale che le crolla
addosso, liberando un piccolo spirito essenziale, struttura
ossea secolare, le dita allungate per desiderare, non più per volere.
Viscerale orlo d’oceano,

cose al guado, melma in agitazione, donne sul pontile
che scrutano il mare; infine, anch’io potei guardare
di nuovo fuori, verso il mondo. La donna vestita d’azzurro si staccò
dal gruppo sul pontile e venne




*

di proposito verso di noi; io guardavo dal vetro macchiato della porta
e la amai. Mia la religione della poesia, la poesia
della religione, gli onorati Accademici maldisposti a credere
che non viviamo di sola noncuranza. C’è

un modo per capire il caos del cuore umano? i nostri
massacri, la nostra negligenza, le nostre incredibili guerre?
Senza un Dio possiamo ottenere un po’ di grazia? Le nostre tele,
le loro forme e modelli, le loro

rime e ritmi, forniranno un minimo di valore?
Il vecchio si trascinò lungo i gradini dell’altare
per iniziare gli antichi riti; il turibolo sbatté contro la catena;
come di dovere, ci alzammo, sebbene loro

ci abbiano delusi ancora per difendere la loro fortezza
dalle nuove orde; avevo sperato che la tela si fosse riempita
di colori radiosi, ma la parola Dio divenne una parola
di disprezzo, facilissima da ignorare. Poi



*

uscimmo fuori, con il cuore ancora dolorante.
Anche l’alto recinto dell’Accademia è pieno di ciarloni,
trafficanti dell’ego, lì non c’era niente da aspettarsi. Auto-
ritratto con pena

e cielo che si oscura. Verrà presto lo studio invernale; una
stanzetta adiacente; ti sederai, calmo, su una sedia di legno, giacca
di lana pesante sulle spalle, occhi fissi dentro, dove non vi è
passato né futuro; sederai solo,

le tue carte in ordine scomposto; immagini di calma, come nidi
svuotati; il telefono vicino a te non suonerà; né si accenderà
la luce; tutto dipende da dove punterai
lo sguardo; quando

verrà il buio coprendo la finestra
col suo drappo nero, rimarranno solo
l’immobile pittura, le parole sul foglio, i riposti
strumenti della tua arte.


Born Achill Island 1943; founded Poetry Ireland - the National Poetry Society - and The Poetry Ireland Review, 1979; Published several collections of poetry and some fiction; Won the O’Shaughnessy Award for Irish Poetry, the Marten Toonder Award for Literature and poetry prizes from Italy and Romania. Elected Secretary-General of the European Academy of Poetry in 1996. Shortlisted for both the T.S.Eliot prize and The Irish Times Poetry Now Award, won residencies in Bavaria, Monaco and Paris. Latest poetry collection “The Instruments of Art”, Carcanet 2005; “In Dogged Loyalty”, essays on religious poetry, Columba 2006; latest fiction “The Heather Fields and Other Stories,” Blackstaff Press 2007. His latest poetry collection, “A Little Book of Hours”, came from Carcanet in 2008. He is a member of Aosdána, the body established by the Arts Council to honour artists “whose work had made an outstanding contribution to the arts in Ireland”. In 2007 the French Government honoured him by making him “Chevalier de l’ordre des arts et des lettres”. In 2008 John F. Deane was visiting scholar in the Burns Library of Boston College.Late 2008 he was elected President of the European Academy of Poetry.

19 commenti:

  1. Ho sempre apprezzato questo lavoro di Roberto così attento, fedele, che non tradisce mai, in nessun istante, l'autore. Senza mai anteporre la voce del traduttore a quella del tradotto; senza cedere a tentazioni narcisistiche che, come spesso avviene, giustificano, in nome di una presunta "ricerca" di adattamento del testo originale all'idioma nostrano, individuali esigenze di emersione e di stare "in figura", anziché nello sfondo, da parte di molti traduttori; magari a loro volta ottimi autori (e forse, appunto, troppo "ottimi" per restare sullo sfondo). Questa è una traduzione che merita d'essere portata ad esempio, e che manca spesso anche a grandi e rinomate case editrici (lessi traduzioni della Dickinson e di altri, per Crocetti o Mondadori, davvero pietose....). E una traduzione dove si coglie l'atto d'amore verso il testo originale ed il suo autore. Ciao. GTZ

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  2. caro Giovanni, riapri una vexata quaestio... ho terminato di leggere da poco Jaccottet nella versione di Pusterla, avendo dimestichezza col solo francese ho potuto entrare parecchio nei meandri e ti dico che, pur essendo un forte discostarsi per far sentire anche la propria voce, fino addirittura ad omettere vocaboli del testo originale, l'operazione di Pusterla ha le sue ragioni, altrettanto profonde quanto la tua irritazione per i traduttori vanesii: è il disvelamento di un colloquio intimo e fecondo con l'autore di partenza, a volte addirittura un testa a testa quando il doppio binario del testo a fronte evidenzia un conflitto fra due visioni del mondo, quella religiosa di Jaccottet e quella atea di Pusterla - e del resto il francese ha approvato la traduzione dell'italo-ticinese...

    il problema serio, però, è l'assenza di qualunque cornice editoriale, di qualunque segnale-bollino-avvertenza che metta il lettore sulla giusta strada (scelta tipica della "bianca" dell'Einaudi Poesia, che però trovo discutibile), per cui il lettore che s'attendesse una traduzione "di servizio" avrebbe tutto il diritto di infuriarsi

    sostengo quest'idea del '96 (ne nacque anche un'iniziativa editoriale "trasgressiva" un po' d'anni fa, "traslazioni affrancate", per certi versi anche contraddittoria nel concorso difforme dei traduttori che vi parteciparono, ed ebbe scarso seguito e un paio di recensioni fuorvianti): è lecito servirsi di un testo altrui come placoscenico per una propria esibizione di stile, purché sussitano almeno due condizioni:
    - che il lettore sia chiaramente edotto della "licenzionsità"
    - che di quel testo circolino già altre buone traduzioni "di servizio" cui poter fare riferimento

    venendo a questo post su Deane, densissimo, devo confessare il mio bisogno di centellinarlo - tracannare mezza bottiglia di un whisky di razza ti stende solo e oltretutto sprechi la possibilità di gustarlo come si deve - però che sorsetti, caro gugl! com a s'dis le da oter? un'ombra... se non mi ubriaco prima, mi riservo un parere meno superficiale.

    Mario

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  3. Molti punti importanti vengono toccati da questo post.. A me come al solito attrae il discorso che fa l'autore sulle traduzioni e sulla poesia di oggi.
    Conosco da poco tempo Deane ma per me merita una lettura approfondita aldila' di questa proposta.
    La poesia di oggi sembra andare verso una poesia civile e lui comprende in pieno questa scelta: anche se sinceramente io lo trovo quasi contrariamente romantico, soprattutto nei tratti religiosi della sua poesia.
    Bella proposta davvero!
    Anila

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  4. vedo di coinvolgere Cogo in questa inetressante discussione.

    da parte mia penso che l'"originale" sia comunque un principio infondato. Ne consegue che l'interpretazione renda espliciti i presupposti (senso, suono, significante, sfondo culturale, modi di dire eccetera)

    gugl

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  5. Sembra che essere "di servizio" sia una debolezza o un lavoro servile. Darei invece al termine "servizio" un senso alto, nella sua accezione laica, un po' bistrattata ultimamente. Io poi, che mi occupo di Servizi Sociali, ne vedo le conseguenze! In tempi in cui "di servizio" c'è ben poco, men che meno la politica, alla poesia un compito di testimonianza e discussione sul come esserlo non mi spiace. Deane è qui tradotto magistralmente perché Cogo ci presenta, nella nostra lingua, Deane e il suo mondo poetico. Cogo non c'è mai, eppure c'è, perché di enorme e necessario servizio al lettore, alla sua lingua e a Deane (e forse anche a sè stesso). Al sottoscritto, che conosce l'inglese, il colloquio intimo e fecondo di Cogo con Deane (e di Deane con Cogo) è palese, ed è così forte da commuovermi durante la lettura (interessante no? mi commuovevo contemporaneamente sul testo inglese di Deane e sulla traduzione di Cogo, e su quest'ultima anche per essere così tremendamente, potentemente al servizio....). Ho letto anch'io il libro di Jacottet tradotto da Pusterla. E c'ho capito ben poco (di Jacottet, e, forse, anche di Pusterla).Ma forse sono solo ancora un po'ingenuo. E per questo ringrazio Roberto che mi ha reso, come lettore, un ottimo servizio. Ritengo quindi che, per un traduttore, essere "al servizio" sia un profondo modo di ascoltare e intimamente colloquiare con l'autore. E ritengo che questo sia sentito dal lettore. D'accordo con Mario sul fatto che il lettore sia esplicitamente edotto della "licenzionsità" e, quindi, di che autore (o miscela indistinta di autori) sta per leggere i versi. Ciao. GTZ

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  6. per la traduzione di Jaccottet fatta da Pusterla: posso garantire che le traduzioni sono state lette ed autorizzate dall'autore.

    Fabiano Alborghetti

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  7. sarà interessante, rispetto a quanto srive GTZ nell'ultmo commento (Giovanni Turra Zan) leggere la traduzione che Deane fa della poesia di Cogo (in attesa che il traduttore passi di qui)

    gugl

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  8. per la traduzione di JACOTTET FATTA DA PUSTERLA: allora se è stata autorizzata non ne parliamo più. ;) ciao.

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  9. è una vecchia diatriba quella della fedeltà e aderenza al testo e il 'make it new' di poundiana memoria. per conto mio, ho sempre, a modo mio cercato un equilibrio, privilegiando talvolta il significato, altre volte suoni ritmi e forma. non sempre riuscite come operazione, ma bisogna decidersi a un certo punto... grazie a tutti per l'attenzione, roberto cogo

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  10. scusate il frettoloso intervento precedente, ma ero solo di passaggio al pc...a mario dico soltanto che ho letto e apprezzato molto la traduzione di pusterla, ma più per gli squarci di comprensione offerti sulla poesia e sul mondo di jaccottet che per l'effettivo valore poetico dei suoi versi (pur talvolta rilevante...), che non avrebbero avuto alcuna possibilità di esistenza al di fuori della materia viva di partenza. tradurre mi risulta gradito soprattutto per il fatto di potermi calare totalmente in un mondo altro, appartenente a qualcun altro e pertanto totalmente ignoto e, per me, interessante. bisogna aver voglia di annullarsi e contemporaneamente tenersi vigili, attenti, elastici e pronti a ridiscutere tutto. niente di noioso o di accomodante. bisogna anche imparare a fidarsi del proprio istinto ma talvolta al contrario c'è da scervellarsi come matti. se, come si dice, scrivere poesia è già tradurre da un'altra lingua, spesso tradurre da un altro poeta equivale, per me, a scrivere poesia, perciò perché dovrei aggiungere di mio, il mio c'è già, e sta nell'atto stesso...
    mi fermo qui per il momento. ringrazio stefano per lo spazio, gtz per l'apprezzamento, e tutti gli altri. roberto cogo

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  11. naturalmnte, condivido e apprezzo ciò che dice Roberto Cogo. Un saluto a tutte/i, GTZ

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  12. @ Roberto
    sono molto contento di questa tua "confessione" sul difficile/necessario mestiere di tradurre

    @ Fabiano
    sono molto contento di avere anche dalle tue fonti conferma sull'autorizzazione di Jaccottet - tuttavia ciò non toglie che poi alla diade autore-traduttore non è dato di sottrarsi ai "vincoli di collana"

    @ Giovanni
    infatti ho come te un alto senso del "servire"... come "di servizio" dovrebbe essere anche la cura tipografica di un'edizione - e in questo salvo la "bianca Einaudi" ma ne dovrei gettare tante al macero, fastidiose e irritanti esposizioni di testi di valore, per eccesso di grossolanità o di tornitura

    @ tutti
    (di Andrea ZANZOTTO, da "Alto, altro linguaggio, fuori idioma?", in "Idioma", 1986)

    E là mi trascino, all'intraducibile perché
    fuori-idioma, al qui, al sùbito,
    al circuito chiuso che pulsa,
    al grumo, al giro di guizzi in un monitor
    Non vi siano idiomi, né traduzioni, ora
    entro il disperso
    il multivirato sperperarsi in sé
    di questo ritornante attacco dell'autunno

    Mario

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  13. Tradurre Deane non è tradurre Jaccottet: e non sto assolutamente ponendo la questione in termini valoriali o di comparazione delle poetiche. L’atto del tradurre sarebbe riducibile ad un’unica operazione, codificata e standardizzata, solo laddove, alla base di ogni considerazione (su intenti, modalità, strumenti, trasmissione, finalità), ci fosse l’idea che la poesia è nient’altro che un corpo statico, museificato e tramandato, senza “graffi, increspature, fratture, tagli”, dalla tradizione. Personalmente non ritengo sia così, credo nell’esistenza di una pluralità di “forme” in cui, “necessariamente”, il poièin affonda le sue radici e la sua esistenza: e non parlo solo di forme “canoniche”, alludo anche all’infome materia increata, matrice di ogni forma (e della relativa molteplicità di sensi) a cui la parola poetica “naturalmente” tende.

    Deane lavora su un repertorio "sintattico" (la sua lingua madre, di poeta intendo: in questo caso l’inglese potrebbe essere sostituito da qualsiasi altra lingua) che fa della "rappresentazione" l’oggetto privilegiato della sua visione scritturale: la rappresentazione è scientemente tersa e lineare perché il fine perseguito è quello di mostrare il fondo dell’immagine reale per farne scaturire il lampo “rivelatore” che solo l’atto poetico sa cogliere e fermare: e qui, in questo attimo che sospende l’immagine, avviene la “trasfigurazione” a cui i suoi testi sono votati per intima consonanza. Le traduzioni di Roberto hanno la capacità di cogliere proprio “questo” attimo, in modo splendidamente sentito, e le due lingue procedono, nella lettura e nella voc-azione, come controcanto l’una dell’altra, fino a che diventano indistinguibili, e non è nemmeno tanto necessario, poi, riconoscere la lingua di partenza.

    In Jaccottet, invece, la “lingua della poesia” non è, sostanzialmente, un “repertorio” da cui pescare, una struttura significante data a priori, perché ogni alfabeto “è possibile”, e si dà solo nell’atto con cui, e nel momento in cui, la parola poetica si fa segno: e il “segno” non è nient’altro se non il “fermo immagine” momentaneo, ma sempre transeunte, di un eterno flusso metamorfico in cui lo sguardo e l’oggetto sono immersi, insieme al “teatro naturale” dove la visione si dà, in uno col senso che si trascina.
    Tradurlo, quindi, significa, in questo caso, riprodurre una “sintassi di ordine metamorfico”. Che piaccia o meno, che ci parli o ci suoni estranea, credo sia tutt’altra faccenda.

    Un saluto a tutti e un abbraccio al padrone di casa e all’ospite.

    fm

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  14. eccellente contributo Francesco.

    Direi che la tua poesia fonda nella matrice indistinta di Jacottet, laddove quella di Deane (e di Roberto) traggono forme dalla "lingua" di Saussure.

    gugl

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  15. Intervistatore: Lei è stato traduttore di Ungaretti e da qualche tempo la sua poesia è tradotta in italiano. Quali sono, secondo lei, le maggiori difficoltà nella traduzione di un poeta?

    Jaccottet: Dipende dai casi. È sempre molto diverso. Ad esempio tradurre Montale mi sembra più facile per un francese, che tradurre Ungaretti. I brevi versi de L'Allegria in francese, che è una lingua più sorda, diventano un nulla. Montale con questo linguaggio più narrativo, più da conversazione può essere tradotto con meno perdite. Penso che un poeta come Góngora, che ho anche tradotto, così oscuro e difficile, sia più facile da tradurre di un poeta come Goethe, più classico, ma questo classicismo è difficilissimo da rendere in francese, perché è insieme complesso e naturale, come una canzone. Io ho avuto la fortuna di avere un traduttore eccellente perché è un poeta, Fabio Pusterla. Possiamo lavorare un po' insieme quando ci sono problemi di comprensione e credo che le sue traduzioni siano molto belle. Credo anche che la mia non sia una delle poesie più difficili da tradurre: anche se non sono molto vicino a Montale, però c'è sempre questo andamento un po' narrativo.

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  16. @ anonimo: a questo punto, sarebbe bello avere ste benedette traduzioni, così le facciamo leggere a tutti.

    se le hai, me ne puoi mandare alcune in formato word?

    gugl

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  17. Ciao Stefano,
    avrei bisogno di contattarti via e-mail, puoi scrivermi al seguente indirizzo?
    raimondidaniela@hotmail.it
    grazie e a presto,
    daniela
    (Raimondi)

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  18. Solo per chiudere l'OT (almeno da parte mia).

    Credo che tutte le traduzioni che Pusterla ha dedicato all'opera di Jaccottet (e non sono poche!) siano di eccellente fattura.

    Ritornando nel tema.

    La lettura dei testi inediti di Roberto, tradotti in inglese da Deane, non fa che avvalorare quando detto nella prima parte del mio precedente intervento: una simbiosi che dà splendidi frutti, da una parte e dall'altra.

    Un saluto a tutti.

    fm

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  19. ringrazio fm per gli interventi, ragionati, densi, importanti...; concordo pienamente sul fatto che la poesia non sia un corpo statico a cui applicare sempre e solo alcune regole fisse, e questo vale non solo da autore ad autore ma anche da testo poetico a a testo poetico, all'interno del corpo di uno stesso autore. ricordo che traducendo un poeta 'difficile' e imprevedibile come les murray, la sensazione che avevo era quella tipica che ho sempre anche nello scrivere poesia, e cioé, di una continua reinvenzione e ridiscussione di me stesso e della mia azione sulla parola. insomma, un ricominciare sempre tutto da capo che a quel tempo mi angosciava molto ma da cui gradualmente ho saputo cogliere anche l'aspetto dinamico, di spinta e di energia creativa. la differenza è che adesso voglio che sia così e darmi alla poesia sciogliendomi da egotismi o narcisismi (per quanto possibile...)mi è indispensabile. un abbraccio
    roberto cogo

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