Francesca Matteoni è una "bambina di ghiaccio" che svernerebbe nel più perfetto silenzio siderale, lontano dal cicaleccio mediterraneo, che scioglie i tendini, portando il facile e il piano. Anche la sua poesia è così: scritta "come brandendo un pugnale", per aprire la crosta e carezzare la polpa, quell'aspra dolcezza che solo la parola ha il coraggio di nominare e che, in Francesca, ha il rigore del taglio e nessuna voglia esibizionista. Con Artico (Crocetti, 2005), ha lavorato sul ghiaccio, di coltello e unghie, tracciando la mappa del suo viaggio iniziatico; si diventa donna incontrando l'osso delle cose, nutrendolo là dove è di casa: "i nostri morti scrivono il paesaggio" recita la poesia che titola il libro, scegliendo di dare la parola ai "piccoli eschimesi", come fosse una Biancaneve sul pack, incantata da quel loro agire in sintonia con la natura.
Per rinascere, occorre cadere, morire con dolore: la poesia d'apertura ce lo dice con chiarezza: scavare, scivolare sotto, calare sono i verbi dominanti; scendere, dunque, per poi essere "accolti e lavati", preparati come i morti per il lungo viaggio, per l'altrettanto lungo ritorno.
Artico è il racconto di una metamorfosi colta nel vivo del suo farsi, tormentata dal timore che la trasformazione non si compia, che "il legno" possa "chiudersi ancora", come recita l'ultima poesia; è il racconto di un'anima che vorrebbe fermarsi in quel passare, abitarlo, stare su quell' "orlo impietrito" per un'amorevole sonnolenza, un gesto d'amore verso i luoghi disabitati che insegnano l'asprezza della vita.
Per contrasto, Appunti dal parco (Nizarts 2008) ritrova il selvatico nell'oasi verde londinese, addomesticato dagli occhi dell'osservatrice, che in questa pace si rigenera. La bambina, diventata adulta, ha seppellito il coltello e trasformato in pane l'odore del sangue: "Crescere - dice - non è portare un peso, serbare il dolore di destini immutabili, l'amaro tormento della perdita, dei non ritorni, ma attraversare tutto questo, lasciare che scorra e ci cambi i corpi in una strana lucentezza". Se in Artico, l'incerta luce è gonfia d'ombre, qui possiede i colori dell'autunno, che si versa "sulla terra" e "piega/ il chiaro delle voci nell'interno", non nascondendo tuttavia l' "osso/ mutilato nel fango" ed altre tracce mortali, per esempio la solitudine profonda dell'io narrante, disarmato nell'amore e gonfio di nostalgia per quand'era nel vivo della metamorfosi, in quel suo "ferire inquieto".
Due libri belli, questi di Francesca Matteoni, scritti a partire da certe affinità elettive con la Anedda e la Biagini (e naturalmente con W.B. Yeats), ma cresciuti col nervo sicuro di chi, poeta, apre strade nuove.
Da Artico
Luce di pozzo
Questo è il luogo dove riempie il sonno,
il pane scavato nelle bocche
le luci sui polsi
come cucchiai incerti.
Si scivola sotto ai mastelli
piegando le pelli al risciacquo –
trema la stanza fonda dove
calano le mani nella sete.
Siamo accolti e lavati
appena oltre un celarsi di serpi,
ceste ricolme di stracci -
qui non s'incontra ma si è separati.
La lavandaia non guasta
il panno sulla pietra -
lo passa più volte nell'acqua fino a che
il sangue è acqua.
Nulla si spezza al passaggio:
l'osso è nutrito e tradotto.
Artico
......................Ad Antonella Anedda
...........................Sasso Marconi, 6 settembre 2003
II ghiaccio sospende l'acqua, ramifica
come l'impronta della luna
L'occhio pronto a inghiottire ruota
e si sbianca - una perla o una bacca
di gelida fiamma.
I piccoli eschimesi portano lame e pellicce
ai fianchi dove i ghiacci stagliano ombre.
Gli eschimesi ricamano i morti nelle pelli
li trascinano tra i rami del gelo
azzurri, verdi senza foglie.
Cucito dentro il sangue è nero, immobile
freddo - si allunga tra le dita
della terra verso l'onda; solleva carni spente
come una bestia muta. La bestia
che noi lasciamo avvolgere dai gorghi.
I nostri morti scrivono il paesaggio.
Stendono sulle rive scaglie argentate
di pesce perché una luce piatta
ci immagini dal fondo.
I contorni. Il vapore appena attorno ai corpi.
I morti ricordano come l'acqua
cieca, materna - un petto lucido di guscio.
L'anima ha un suo luogo là sotto, piccola
di sassi e sonagli, approda al canto
delle balene all'antro caldo, ai fiati di molte creature.
Foche. Forgiano la deriva polare, il grumo
di saliva nella schiuma.
Gli eschimesi le cacciano nell'oceano
le lance, l'isteria delle reti - le chiamano streghe.
Sanno cosa vedono, occhi notturni, nudi –
nodo vischioso di mari, un sale amaro attorno –
il nervo, la fune tesa al fondo.
La bambina di neve
L'inverno è consolazione
indomabile ghiaccio, puro –
rosa disseccata nell'occhio dei lupi.
Rosa perfetta, senza foglie,
la spina m'arrossa nella coscia
acqua liberata in questa conca
neve sulla lingua.
La neve ha un osso di silenzio
sterno di passeri e corvi –
coltiva piume nelle cortecce.
Lo spingersi addosso di terre
afflussi di polveri e pelle
sospende alle sue ragnatele –
mi sogna scendendo la neve.
Non ho da far nulla, non temo
il declinarsi a grembo d'ogni ciclo.
La bambina
Dormono i giorni nella conca degli orti.
I temporali premono, raggranellano gli stormi.
La bambina torce convolvoli tra le dita
l'orma dell'attesa la dissipa. Questo l'amore?
Lacrima asciutta di sale: come inerme disarma.
L'aculeo nelle nubi schiuma e schianta.
Lei vi si espone completamente
pesce senza pelle, trasparente.
II lavacro dell'aria si riempie di condense,
piogge molli, un grigio svolazzare di lontano.
I colli arcuati dei cigni recidono il ciclo.
***
Ricorderemo dopo.
Non selva ma siepe a valicare gli occhi
senza presa o tregua. Noi non sappiamo
intrecciare rami in un riparo - le mani che si
colmano d'inganno, le lingue rubate l'una all'altra,
l'una nell'altra fredde, indifendibili. Spingevi
la tua bocca sulla mia, un condensarsi fragile
d'autunni, la ruggine secca delle gole.
Trattieni il mio chiarore sull'orlo impietrito
dei boschi. Trattieni questi corpi bucati di pioggia,
mollemente stretti e poi dimenticati.
Siamo stati alberi, le marine ambrate
dei pini su cocci vetrosi, piane deserte.
Il turgore denso di muschio e cielo,
la povertà delle attese.
Il legno può chiudersi ancora
sulle nostre tracce inudite.
da Appunti dal parco
Lo stagno
What is water in the eyes of'water, cos'è acqua negli occhi dell'acqua - così inizia una poesia sul mare di Alice Oswald. Cos'è l'acqua nel rumore dell'acqua, eco sguisciante, luminescenza circolare attorno a un sasso sprofondato. L'acqua è una domanda nel centro delle cose. Una pellicola finissima che copre strato dopo strato la terra del lago, finché la trasparenza è un volto opaco, sotterraneo. Le anatre selvatiche nuotano nello specchio lacustre senza il bisogno della migrazione. Si tuffano smeraldine o del colore delle cortecce nel doppio ciclo dell'acqua, fino al fondale di melma, le code elei pesci nel becco. In un altro -paese, a nord, in una storia - dico alle anatre - un bambino-folletto, viaggia con il vostro stormo, seduto tra le piume di un papero domestico. Il silenzio di Akka, il capo-stormo, è il suo più grande maestro. Le anatre scendono tra le foreste ed i "villaggi umani, risalgono tracciando nel cielo una geografìa di luoghi e sentimenti. Crescere non è portare un peso, serbare il dolore di destini immutabili, l'amaro tormento della perdita, dei non ritorni, ma attraversare tutto questo, lasciare che scorra e ci cambi i corpi in una strana lucentezza. [...]
BROCKWELL PARK
Da quando vivo sola ho imparato
che l'autunno è migliore dell'estate
al suo versarsi sulla terra piega
il chiaro delle voci nell'interno.
Il bambino nella finestra accanto
guarda le gazze prendere il volo
pensa forte una coperta d'alberi
di rami dispiegati sopra i tetti.
Gli scoiattoli in cerca di biscotti.
Ho messo nel lettore Figure Eight
perché spesso mi tornano i suicidi
con amara ed ironica pietà.
Solo i morti conosciamo davvero
il resto è imitazione dell'amato
nel buio non capire o trattenere.
I quaderni, le penne, le monete
nella borsa di Mary Poppins verde –
sono uscita senza aver lavorato
ma ho bisogno presto di un lavoro
della notte restituita al sonno
con il gemere delle tubature
l'urlo dei cani spento sopra i muri.
L'acqua nel parco si ammassa di foglie
un'isola nell'isola incostante –
le anatre cercano pozze scure
di pesci, riemergono nello strato
impietrito, lontano delle frasche.
Mi chiedo dei sopravvissuti, quanti
dai nidi - se sanno, se ricordano.
Un'altra acqua restituisce lenta
pezzi anonimi di senso, quest'osso
mutilato nel fango, non più bianco
l'inchiostro evaporato delle carte
un ordine di buste e di bottiglie.
Siamo l'archeologia di plastica
l'involucro deforme ci resiste.
Non scriverle le poesie, tienile
per camminare svelta nella pioggia
o nella luce quieta di novembre –
L'aria sulle vetrate rannicchiata
una seconda pelle che declina.
Spingendo nelle lame le parole
unirmi il sangue al sangue di altri uguale.
Non scrivere, non sperare, non dire.
C'è una gioia nella mia tristezza
e un'ombra disarmante nell'amore
mi cresce dentro il nudo dei tramonti.
Ho nostalgia del ferire inquieto
mi mancano le vite sconosciute.
Io - non riesco ad appartenere
eppure ogni gesto m'appartiene.
Esistono le cose tutt'attorno
fatti più trasparenti le vediamo –
mentendo la propria solitudine
si riconosce meglio dove amare.
Addomesticare poi significa
creare dei legami. Ogni giorno
un po' più vicina, tenermi stretta
l'erba ruvida di spago, scorrere
i grani sporgenti, i nodi. La volpe
si può vedere a volte nella sera
sgusciare in una fiamma dai cancelli.
Betulla
La bellezza della mia stanza è l'albero. L'albero è una grossa betulla: riempie la finestra carica di foglie, monete sonanti.
La crescita è nera - tagli di bocche nella corteccia; i rami si affinano come polsi nei temporali. L'ora che precede il temporale è perfetta: lo sterno degli uccelli teso all'acqua, gli alberi gonfi di richiami, i tuoni che scendono nei corpi come un silenzio. Una comunanza eli terre da sempre separate prima che qualcosa precipiti - sembra che tutto si tocchi, le pietre assottigliate in una luce orizzontale, la lingua degli alberi chinati quasi a dirci l'acqua si rovescia come un nido, non c'è confine a questa solitudine. Scrivo nelle gocce, nel trifoglio ordinario che non si spezza. Il bianco della betulla è un abito soprannaturale, l'ombra d'uno spirito: ci sono leggende di una creatura tra le fronde, le sue mani possono sfiorare la testa o il cuore degli uomini determinandone pazzia o morte.
[...]
La betulla è come una protezione, una certezza. Il tronco divaricato appena sopra le radici, pronto ad accogliere il piede di un bambino nella salita, fa sì che una parte si perda in una tempra svolazzante dove si decidono soli e stagioni, mentre l'altra si piega verso di me come un respiro nel sonno. Perché l'albero è il mio fratello maggiore.
Esiste come un coraggio al di là delle passioni che logorano ruvide senza strapparmi; è un punto saldo di ritorno.
È la pazienza degli inverni - la nudità dei rami una ferita inerme in cui riconoscermi.
Un chiodo trafigge il legno di ogni albero esattamente uguale al ferro penoso della mia paura e tuttavia l'albero è mite: la sua vecchiaia un riparo più vasto per gli uccelli.
Si può amare un albero perché da pace, perché non ha mai volato, proprio come noi, ma sostiene il segreto dei voli.
C'insegna che il chiodo confitto può trasformarsi in gemma.
Al tramonto è la betulla l'ultima altezza che mi abbraccia.
Se mi chiedi come può un albero essermi fratello - è l'albero che mi sta dentro curvato ad occidente; le ultime luci come torce - io sono l'osso verticale del suo sangue.
Francesca Matteoni è nata il 25 gennaio 1975. Attualmente vive tra Pistola e Londra dove sta completando un dottorato in storia moderna. Ha svolto svariati lavori tra cui assistente di base all'infanzia e pifferaia di strada. Sue poesie e scritti sono apparsi su diversi siti web, riviste e antologie. Nel 2005 ha pubblicato il suo primo libro di poesia Artico (Crocetti), selezionato all'interno della rassegna Nodo Sottile 4, a cura di Vittorio Biagini e Andrea Sirotti per l'Archivio Giovani Artisti di Firenze. Nel 2008 ha pubblicato Appunti dal parco (Nizarts) ed ha vinto la diciannovesima edizione del premio internazionale per la poesia inedita "Féile Filìochta" bandito dalla biblioteca di Dùn Laoghaire in Manda con il poernetto Higgiugiuk la lappone. Fa parte della redazione del blog letterario "Nazione Indiana". Orsopolare è il suo blog.
Per rinascere, occorre cadere, morire con dolore: la poesia d'apertura ce lo dice con chiarezza: scavare, scivolare sotto, calare sono i verbi dominanti; scendere, dunque, per poi essere "accolti e lavati", preparati come i morti per il lungo viaggio, per l'altrettanto lungo ritorno.
Artico è il racconto di una metamorfosi colta nel vivo del suo farsi, tormentata dal timore che la trasformazione non si compia, che "il legno" possa "chiudersi ancora", come recita l'ultima poesia; è il racconto di un'anima che vorrebbe fermarsi in quel passare, abitarlo, stare su quell' "orlo impietrito" per un'amorevole sonnolenza, un gesto d'amore verso i luoghi disabitati che insegnano l'asprezza della vita.
Per contrasto, Appunti dal parco (Nizarts 2008) ritrova il selvatico nell'oasi verde londinese, addomesticato dagli occhi dell'osservatrice, che in questa pace si rigenera. La bambina, diventata adulta, ha seppellito il coltello e trasformato in pane l'odore del sangue: "Crescere - dice - non è portare un peso, serbare il dolore di destini immutabili, l'amaro tormento della perdita, dei non ritorni, ma attraversare tutto questo, lasciare che scorra e ci cambi i corpi in una strana lucentezza". Se in Artico, l'incerta luce è gonfia d'ombre, qui possiede i colori dell'autunno, che si versa "sulla terra" e "piega/ il chiaro delle voci nell'interno", non nascondendo tuttavia l' "osso/ mutilato nel fango" ed altre tracce mortali, per esempio la solitudine profonda dell'io narrante, disarmato nell'amore e gonfio di nostalgia per quand'era nel vivo della metamorfosi, in quel suo "ferire inquieto".
Due libri belli, questi di Francesca Matteoni, scritti a partire da certe affinità elettive con la Anedda e la Biagini (e naturalmente con W.B. Yeats), ma cresciuti col nervo sicuro di chi, poeta, apre strade nuove.
Da Artico
Luce di pozzo
Questo è il luogo dove riempie il sonno,
il pane scavato nelle bocche
le luci sui polsi
come cucchiai incerti.
Si scivola sotto ai mastelli
piegando le pelli al risciacquo –
trema la stanza fonda dove
calano le mani nella sete.
Siamo accolti e lavati
appena oltre un celarsi di serpi,
ceste ricolme di stracci -
qui non s'incontra ma si è separati.
La lavandaia non guasta
il panno sulla pietra -
lo passa più volte nell'acqua fino a che
il sangue è acqua.
Nulla si spezza al passaggio:
l'osso è nutrito e tradotto.
Artico
......................Ad Antonella Anedda
...........................Sasso Marconi, 6 settembre 2003
II ghiaccio sospende l'acqua, ramifica
come l'impronta della luna
L'occhio pronto a inghiottire ruota
e si sbianca - una perla o una bacca
di gelida fiamma.
I piccoli eschimesi portano lame e pellicce
ai fianchi dove i ghiacci stagliano ombre.
Gli eschimesi ricamano i morti nelle pelli
li trascinano tra i rami del gelo
azzurri, verdi senza foglie.
Cucito dentro il sangue è nero, immobile
freddo - si allunga tra le dita
della terra verso l'onda; solleva carni spente
come una bestia muta. La bestia
che noi lasciamo avvolgere dai gorghi.
I nostri morti scrivono il paesaggio.
Stendono sulle rive scaglie argentate
di pesce perché una luce piatta
ci immagini dal fondo.
I contorni. Il vapore appena attorno ai corpi.
I morti ricordano come l'acqua
cieca, materna - un petto lucido di guscio.
L'anima ha un suo luogo là sotto, piccola
di sassi e sonagli, approda al canto
delle balene all'antro caldo, ai fiati di molte creature.
Foche. Forgiano la deriva polare, il grumo
di saliva nella schiuma.
Gli eschimesi le cacciano nell'oceano
le lance, l'isteria delle reti - le chiamano streghe.
Sanno cosa vedono, occhi notturni, nudi –
nodo vischioso di mari, un sale amaro attorno –
il nervo, la fune tesa al fondo.
La bambina di neve
L'inverno è consolazione
indomabile ghiaccio, puro –
rosa disseccata nell'occhio dei lupi.
Rosa perfetta, senza foglie,
la spina m'arrossa nella coscia
acqua liberata in questa conca
neve sulla lingua.
La neve ha un osso di silenzio
sterno di passeri e corvi –
coltiva piume nelle cortecce.
Lo spingersi addosso di terre
afflussi di polveri e pelle
sospende alle sue ragnatele –
mi sogna scendendo la neve.
Non ho da far nulla, non temo
il declinarsi a grembo d'ogni ciclo.
La bambina
Dormono i giorni nella conca degli orti.
I temporali premono, raggranellano gli stormi.
La bambina torce convolvoli tra le dita
l'orma dell'attesa la dissipa. Questo l'amore?
Lacrima asciutta di sale: come inerme disarma.
L'aculeo nelle nubi schiuma e schianta.
Lei vi si espone completamente
pesce senza pelle, trasparente.
II lavacro dell'aria si riempie di condense,
piogge molli, un grigio svolazzare di lontano.
I colli arcuati dei cigni recidono il ciclo.
***
Ricorderemo dopo.
Non selva ma siepe a valicare gli occhi
senza presa o tregua. Noi non sappiamo
intrecciare rami in un riparo - le mani che si
colmano d'inganno, le lingue rubate l'una all'altra,
l'una nell'altra fredde, indifendibili. Spingevi
la tua bocca sulla mia, un condensarsi fragile
d'autunni, la ruggine secca delle gole.
Trattieni il mio chiarore sull'orlo impietrito
dei boschi. Trattieni questi corpi bucati di pioggia,
mollemente stretti e poi dimenticati.
Siamo stati alberi, le marine ambrate
dei pini su cocci vetrosi, piane deserte.
Il turgore denso di muschio e cielo,
la povertà delle attese.
Il legno può chiudersi ancora
sulle nostre tracce inudite.
da Appunti dal parco
Lo stagno
What is water in the eyes of'water, cos'è acqua negli occhi dell'acqua - così inizia una poesia sul mare di Alice Oswald. Cos'è l'acqua nel rumore dell'acqua, eco sguisciante, luminescenza circolare attorno a un sasso sprofondato. L'acqua è una domanda nel centro delle cose. Una pellicola finissima che copre strato dopo strato la terra del lago, finché la trasparenza è un volto opaco, sotterraneo. Le anatre selvatiche nuotano nello specchio lacustre senza il bisogno della migrazione. Si tuffano smeraldine o del colore delle cortecce nel doppio ciclo dell'acqua, fino al fondale di melma, le code elei pesci nel becco. In un altro -paese, a nord, in una storia - dico alle anatre - un bambino-folletto, viaggia con il vostro stormo, seduto tra le piume di un papero domestico. Il silenzio di Akka, il capo-stormo, è il suo più grande maestro. Le anatre scendono tra le foreste ed i "villaggi umani, risalgono tracciando nel cielo una geografìa di luoghi e sentimenti. Crescere non è portare un peso, serbare il dolore di destini immutabili, l'amaro tormento della perdita, dei non ritorni, ma attraversare tutto questo, lasciare che scorra e ci cambi i corpi in una strana lucentezza. [...]
BROCKWELL PARK
Da quando vivo sola ho imparato
che l'autunno è migliore dell'estate
al suo versarsi sulla terra piega
il chiaro delle voci nell'interno.
Il bambino nella finestra accanto
guarda le gazze prendere il volo
pensa forte una coperta d'alberi
di rami dispiegati sopra i tetti.
Gli scoiattoli in cerca di biscotti.
Ho messo nel lettore Figure Eight
perché spesso mi tornano i suicidi
con amara ed ironica pietà.
Solo i morti conosciamo davvero
il resto è imitazione dell'amato
nel buio non capire o trattenere.
I quaderni, le penne, le monete
nella borsa di Mary Poppins verde –
sono uscita senza aver lavorato
ma ho bisogno presto di un lavoro
della notte restituita al sonno
con il gemere delle tubature
l'urlo dei cani spento sopra i muri.
L'acqua nel parco si ammassa di foglie
un'isola nell'isola incostante –
le anatre cercano pozze scure
di pesci, riemergono nello strato
impietrito, lontano delle frasche.
Mi chiedo dei sopravvissuti, quanti
dai nidi - se sanno, se ricordano.
Un'altra acqua restituisce lenta
pezzi anonimi di senso, quest'osso
mutilato nel fango, non più bianco
l'inchiostro evaporato delle carte
un ordine di buste e di bottiglie.
Siamo l'archeologia di plastica
l'involucro deforme ci resiste.
Non scriverle le poesie, tienile
per camminare svelta nella pioggia
o nella luce quieta di novembre –
L'aria sulle vetrate rannicchiata
una seconda pelle che declina.
Spingendo nelle lame le parole
unirmi il sangue al sangue di altri uguale.
Non scrivere, non sperare, non dire.
C'è una gioia nella mia tristezza
e un'ombra disarmante nell'amore
mi cresce dentro il nudo dei tramonti.
Ho nostalgia del ferire inquieto
mi mancano le vite sconosciute.
Io - non riesco ad appartenere
eppure ogni gesto m'appartiene.
Esistono le cose tutt'attorno
fatti più trasparenti le vediamo –
mentendo la propria solitudine
si riconosce meglio dove amare.
Addomesticare poi significa
creare dei legami. Ogni giorno
un po' più vicina, tenermi stretta
l'erba ruvida di spago, scorrere
i grani sporgenti, i nodi. La volpe
si può vedere a volte nella sera
sgusciare in una fiamma dai cancelli.
Betulla
La bellezza della mia stanza è l'albero. L'albero è una grossa betulla: riempie la finestra carica di foglie, monete sonanti.
La crescita è nera - tagli di bocche nella corteccia; i rami si affinano come polsi nei temporali. L'ora che precede il temporale è perfetta: lo sterno degli uccelli teso all'acqua, gli alberi gonfi di richiami, i tuoni che scendono nei corpi come un silenzio. Una comunanza eli terre da sempre separate prima che qualcosa precipiti - sembra che tutto si tocchi, le pietre assottigliate in una luce orizzontale, la lingua degli alberi chinati quasi a dirci l'acqua si rovescia come un nido, non c'è confine a questa solitudine. Scrivo nelle gocce, nel trifoglio ordinario che non si spezza. Il bianco della betulla è un abito soprannaturale, l'ombra d'uno spirito: ci sono leggende di una creatura tra le fronde, le sue mani possono sfiorare la testa o il cuore degli uomini determinandone pazzia o morte.
[...]
La betulla è come una protezione, una certezza. Il tronco divaricato appena sopra le radici, pronto ad accogliere il piede di un bambino nella salita, fa sì che una parte si perda in una tempra svolazzante dove si decidono soli e stagioni, mentre l'altra si piega verso di me come un respiro nel sonno. Perché l'albero è il mio fratello maggiore.
Esiste come un coraggio al di là delle passioni che logorano ruvide senza strapparmi; è un punto saldo di ritorno.
È la pazienza degli inverni - la nudità dei rami una ferita inerme in cui riconoscermi.
Un chiodo trafigge il legno di ogni albero esattamente uguale al ferro penoso della mia paura e tuttavia l'albero è mite: la sua vecchiaia un riparo più vasto per gli uccelli.
Si può amare un albero perché da pace, perché non ha mai volato, proprio come noi, ma sostiene il segreto dei voli.
C'insegna che il chiodo confitto può trasformarsi in gemma.
Al tramonto è la betulla l'ultima altezza che mi abbraccia.
Se mi chiedi come può un albero essermi fratello - è l'albero che mi sta dentro curvato ad occidente; le ultime luci come torce - io sono l'osso verticale del suo sangue.
Francesca Matteoni è nata il 25 gennaio 1975. Attualmente vive tra Pistola e Londra dove sta completando un dottorato in storia moderna. Ha svolto svariati lavori tra cui assistente di base all'infanzia e pifferaia di strada. Sue poesie e scritti sono apparsi su diversi siti web, riviste e antologie. Nel 2005 ha pubblicato il suo primo libro di poesia Artico (Crocetti), selezionato all'interno della rassegna Nodo Sottile 4, a cura di Vittorio Biagini e Andrea Sirotti per l'Archivio Giovani Artisti di Firenze. Nel 2008 ha pubblicato Appunti dal parco (Nizarts) ed ha vinto la diciannovesima edizione del premio internazionale per la poesia inedita "Féile Filìochta" bandito dalla biblioteca di Dùn Laoghaire in Manda con il poernetto Higgiugiuk la lappone. Fa parte della redazione del blog letterario "Nazione Indiana". Orsopolare è il suo blog.
un saluto a francesca con la promessa di leggere con calma i nuovi testi.
RispondiEliminas.
* C'è una gioia nella mia tristezza
RispondiEliminae un'ombra disarmante nell'amore *
due versi su tutti.
ma piena mi colpisce la voce tutta di Francesca.
approfondirò.
ciao Gugl!
iole
ciao Silvia e ciao Iole.
RispondiEliminavale la pena di approfondire.
sono d'accordo con te, caro gugl.
RispondiEliminaavevo già letto qualcosa di francesca e mi ero appuntato il nome.
adesso stampo e leggo con calma, su carta.
ps: gugl, quando sei a caorle?
francesco t.
grande Francesca e brava, davvero brava.
RispondiEliminaNon è mia abitudine fare classifiche con titoli e meriti, i primi o i secondi, ma Francesca è davvero una poeta che vale la pena leggere e che riserverà ancora sorprese coi testi a venire. Mai nulla di scontato, mai nulla in eccesso. Rasentano -spesso- la perfezione.
Un saluto in extremis anche al bravissimo Luigi Cannillo della "puntata precedente" che non ho fatto in tempo a leggere quando è qui apparso (e me ne scuso)
Fabiano ALborghetti
domanda per Francesca:
RispondiEliminale prose della seconda raccolta da quale esigenza scaturiscono?
io ci trovo un bisogno di canto piano, disteso, di una ricerca sulla trasparenza (che il ghiaccio ha solo in parte) del sentire, di superare alcuni viluppi metaforici, alcune ricercatezze eccessive e opacizzanti delle immagini, che caratterizzano la prima raccolta, anche in virtù dei vissuti che vi vengono incanalati
però è quel che leggo io nel mio cantuccio - un parere dell'autrice sarebbe interessante
Mario Bertasa
p.s.
RispondiEliminaabbracci a Silvia e a Fabiano
e che bel viso sorridente, che bella energia buona
RispondiEliminaAvevi ragione.
RispondiEliminarenée
Carisismi, Francesca torna da londra lunedì, per cui potrà rispondere solo allora. Intanto accumulate domande :-)
RispondiEliminaa F.T. sono a caorle sabato, nel pomeriggio. E tu? (stiamo parlando del festival di poesia organizzato da Alpe-adria)
ciao Renata!
gugl
ecco il link
RispondiEliminahttp://www.studioesseci.net/evento.php?IDevento=92
gugl
Bella la tua recensione e straordinarie le sue parole, quelle di una 'pifferaia di strada' che sa come regalare musica.
RispondiElimina"L'acqua è una domanda nel centro delle cose": ...cosa dire?!?!
Marinella :)
che l'essere è domanda originaria?
RispondiEliminagugl
...e che stilla come pioggia e scava nuovi sentieri.
RispondiEliminaMarinella :)
sì :-)
RispondiEliminagugl
Molto interessante questa autrice, apprezzara e sentita molto "Betulla"
RispondiElimina'Se mi chiedi come può un albero essermi fratello - è l'albero che mi sta dentro curvato ad occidente; le ultime luci come torce - io sono l'osso verticale del suo sangue'.
(ti/vi segnalo un link)
http://lucaniart.wordpress.com/2008/09/15/scrittori-scrittura-incontro-con-daniela-raimondi-3/
grazie della segnalazione. In effetti, in rete si trovano belle recensioni. in particolare segnalo quella di Cristina Babino, che, fra l'altro, ha corredato di fotografie "Appunti dal parco".
RispondiEliminala trovate qui
http://lacuginaargia.wordpress.com/category/francesca-matteoni/
gugl
Ciao a Stefano e a voi tutti e grazie in primis per questo bel lavoro di Stefano e per i vostri commenti!
RispondiEliminaRispondo a Mario, che secondo me dice piuttosto bene: gli Appunti dal parco nascono (in realtà come terzo progetto, anche se il secondo ancora e' inedito) dalla necessitaà di descrivere, appuntare, annotare le impressioni di un certo luogo in modo piuù veritiero di quanto accadeva in Artico. Sono anche passati un po' d'anni tra quelle e queste poesie e credo che il bisogno di essere più essenziali si faccia sentire. Spero di intervenire ancora magari domattina.
Francesca M.
il rischio è che la descrizione diventi troppo di superficie (ma senza l'intenzionalità dell'école du regard): mi riferisco alle prose, che ho tagliato proprio là dove la descrizione diluiva il ritmo e la tensione.
RispondiEliminaciao e bentornata!
gugl
eh, Stefano, ma allora non vale...!
RispondiElimina; )
ciao!
Mario
vale, vale (è scritto nel regolamento :-)))
RispondiEliminagugl