Da più di una settimana è morto Alfredo Giuliani; lo ricordo postando questa sua confessione, uscita su "il Verri" nel dicembre 1989 ed ora presente in A. Giuliani, Furia Serena. Opere scelte, Anterem 2004.
LA POESIA È UNA COSA IN PIÙ
Non ricordo quando ho scelto la poesia. Da bambino leggevo i libri e i giornali che leggevano tutti i bambini, e forse qualcuno di più: favole, avventure, viaggi. Tra gli undici e i tredici, mi vedo affascinato e immerso, non so proprio perché, nel teatro: Goldoni, Alfieri, Shakespeare (in traduzioni ottocentesche), Metastasio (Didone abbandonata e Attilio Regolo). Dopo i tredici devo aver cominciato con i romanzi (Dickens, Stevenson, Dostoevskij, Dumas). Verso i quattordici divento lettore onnivoro, ricevo in regalo tutti i volumi della collana «I grandi scrittori stranieri» UTET (saranno stati un centinaio) e lì scopro Baudelaire e Shelley (tradotti in prosa). Fu allora, tra i quattordici e i quindici anni, che l'interesse per la poesia prese un certo sopravvento? Può essere, ma non ne sono affatto sicuro. Al ginnasio ebbi per un certo periodo un professore dannunziano. Amavo Leopardi e trovavo D'Annunzio detestabile, anzi repellente. Non sapevo ancora niente della poesia "moderna". Ma ciò che ricordo come un trauma incancellabile è la prima lettura di Rimbaud. Ero sui quindici anni e qualcuno mi dette Una stagione all'inferno e le Illumuiazioni tradotte da Oreste Ferrari. Ero incantato, e sconvolto dal venire a sapere che quei poemi in prosa, scritti da un ventenne, risalivano al 1873-74! Stava per scoppiare la seconda guerra mondiale e io, che iniziavo il liceo, avevo messo un piede nella lirica "pura" mentre l'altro correva con gli esametri dell'Odissea (è dal mio maestro di liceo, il giovane Bruno Gentili, che mi venne inoculata la passione per la metrica). Eppure fino ai diciannove, venti anni, non tentai di scrivere versi. Mi sentivo inadeguato, immaturo, come avrei potuto competere con Rimbaud?
Appena finita la guerra, assorbiti i Lirici nuovi di Luciano Anceschi, lette le prime poesie di Eliot apparse in italiano, provo un altro bellissimo choc; scopro Dylan Thomas. In quegli anni lì, '47-'48, devo essermi detto: è troppo stupendo, il riuscire a scrivere poesie così, bisogna tentare tutto, anche se il rischio di fallire è forte. [...] Da ragazzo m'ero fatto, per mio uso e consumo, una classificazione delle poesie che venivo scoprendo, a scuola e fuori della scuola. Anzitutto: le poesie che mettevano in musica le cose di questo mondo. Quelle di Leopardi, per esempio. [...] Poi c'erano le poesie che trattavano cose dell'altro mondo. [...] Nella mia classificazione, l'altro mondo non era necessariamente l'aldilà, il regno delle ombre. [...] Cose dell'altro mondo erano tutte le cose abnormi, meravigliose, fantastiche, buffe, mitiche che animavano i poemi omerici e la Commedia di Dante. Le poesie che raccontavano cose dell'altro mondo si capivano indipendentemente dall'esperienza personale (magari era utile aiutarsi con le note).
Quando scoprii le Illuminazioni di Rimbaud, la mia classificazione si arricchì di una terza categoria (necessaria anche per il fatto che le poesie erano scritte in una per me inaudita prosa), dove andavano a collocarsi i testi che non si potevano capire, ma soltanto sentire, dato che non trattavano cose di questo o dell'altro mondo, ma cose indefinibili, visioni, allucinazioni, esistenti forse soltanto nel linguaggio del poeta.
Il buono dell'ingenua e sommaria classificazione fu che essa mi permise di accettare la sovrana autorità di tutta la grande poesia, la quale tratta imparzialmente cose di questo e dell'altro mondo, nonché le cose che stanno in nessun luogo se non nella poesia stessa. E la poesia cosiddetta "minore", come si potrebbe farne a meno? Non butterei mai via le ariette di Metastasio o le odierne del Savioli in favore della Gerusalemme liberata, che trovo magnifica. [...] La poesia che più mi tocca è quella che si tiene alla natura tragicomica del discorso. La passione di spiegarsi è il cuore della poesia enigmatica. Parecchi anni fa - e fu un gesto di insofferenza per le riduzioni ideologiche, contro le ottusità di coloro per i quali la poesia non è un'esperienza - dissi forse un po' troppo recisamente che la poesia non è una forma di conoscenza, ma un modo di contatto con la realtà linguistica (alterità, estraneità del linguaggio con cui la poesia si misura e di cui s'innamora). Ebbene, è probabile che io avessi adoperato involontariamente il termine «contatto con la realtà». Ora, non soltanto l'alterazione del contatto vitale con la realtà è il nucleo del concetto di schizofrenia, ma il contatto è per Minkowski la sorgente autonoma del linguaggio; contatto per natura ambiguo, che non si esaurisce nell'esplicarsi, che è sempre alla ricerca della propria definizione. Facendo agire in me tale nozione del «contatto» combattevo il terrorismo ideologico dei moralisti letterari, lo rovesciavo scoprendo che esso era la maschera del terrore che il linguaggio ha di se stesso, o aveva allora. [...] La poesia esige il massimo della concentrazione e dell'indifferenza. Nel momento che scrivi devi lasciar fare i neuroni, le sinapsi, o che altro diavolo folleggia in te. Una furibonda poesia di Thomas comincia con questi versi: «How shall my animal / Whose wizard shape I trace in thè cavernous skull, / Vessel of abscesses and exultation's shell, / Endure burìal under the spelling wall... ». (Come potrà il mio animale, / la cui magica forma rintraccio negli anfratti del cranio, / vaso d'ascessi e guscio d'esultanza, / tollerare la tumulazione sotto il muro sillabato ...». La poesia è una cosa in più, ed è sempre molto meno della gloria cantata dai serafini.
Per orientarsi sui problemi della poesia in un dato tempo, bisogna arrivarci dalla parte giusta (genio o ricognizione critica che sia). Per leggerla al suo concepimento e alla sua nascita bisogna aspettarsela, il nutrimento dell'attesa è il compito più difficile tra quelli che toccano al poeta. C'è sempre il rischio che il desiderio di poesia non sia altro che un sintomo. La transizione è una costellazione di sintomi, una mancanza, un esaurimento, un baluginare di rivelazioni, attesa e ricerca spasmodica. Può essere accettata e vissuta come uno svolgimento tranquillo di punti precedentemente fissati, passare quasi inosservata o vista come una fiera di possibilità a portata di mano. Viviamo un sacco di transizioni, ora violente ora affascinanti, che oscillano paurosamente da una apocalissi all'altra. Siamo i post-apocalittici, sopravviviamo al peggio, sappiamo essere perfino felici.
Un momento acuto della transizione fu proprio quello in cui ho cominciato a scrivere, nel dopoguerra avanzato, fine anni Quaranta. Momento vissuto nella penuria del nuovo, la resistenza del vecchio, l'incipiente affollamento dei segni, la dissociazione rimuginante (chi è l'io che vuole scriversi? i furbi già sapevano, l'aveva scoperto Rimbaud, che Io è un Altro), la schizofrenia planetaria, l'opacità o l'illusoria trasparenza di tutte le tradizioni. Abbiamo sfidalo tutti i linguaggi, deliberatamente; non si poteva fare altrimenti. Un enorme lavoro di frammentazione e ricomposizione, che, devo dirlo, mi ha procurato il piacere di scrivere e penose intermittenze, durante le quali mi sembrava di non aver più niente da scrivere, di dover ricominciare da capo per la centomillesima volta. Che mi abbia condizionato la poetica delle Iluminazioni? magari piccole piccole, grottesche, a mala pena spiritose. Mi ha aiutato la passione per la metrica. Una volta il tessuto metrico, la texture, faceva da sfondo prosodico; si stabiliva un'armonia statica e sempre ritornante che il poeta variava con sottili sfumature, o talvolta rompeva mediante intervalli «trovati», durate e intervalli nuovi, discreti, che campivano sullo sfondo dello schema metrico, padrone non assoluto ma onnipresente. Ma quando lo sfondo è consunto, indistinto, sfilacciato, insomma da buttar via? Mi sono trovato a ricostruirmi una prosodia sugli accenti sintagmatici, a non sentire più la misura delle sillabe, ma quella dei monemi (quando ho letto Martinet ho capito che mi stavo regolando sui monemi senza averli individuati così chiaramente, né tanto meno denominati; Martinet mi ha dato la chiave che cercavo).
È stata, finora, una bella e tormentata avventura. Non rinnego niente; non ho niente da superare. Sto scrivendo un solo libro, che va dal 1950 a domani, spero. E le date per me contano poco.
Non ricordo quando ho scelto la poesia. Da bambino leggevo i libri e i giornali che leggevano tutti i bambini, e forse qualcuno di più: favole, avventure, viaggi. Tra gli undici e i tredici, mi vedo affascinato e immerso, non so proprio perché, nel teatro: Goldoni, Alfieri, Shakespeare (in traduzioni ottocentesche), Metastasio (Didone abbandonata e Attilio Regolo). Dopo i tredici devo aver cominciato con i romanzi (Dickens, Stevenson, Dostoevskij, Dumas). Verso i quattordici divento lettore onnivoro, ricevo in regalo tutti i volumi della collana «I grandi scrittori stranieri» UTET (saranno stati un centinaio) e lì scopro Baudelaire e Shelley (tradotti in prosa). Fu allora, tra i quattordici e i quindici anni, che l'interesse per la poesia prese un certo sopravvento? Può essere, ma non ne sono affatto sicuro. Al ginnasio ebbi per un certo periodo un professore dannunziano. Amavo Leopardi e trovavo D'Annunzio detestabile, anzi repellente. Non sapevo ancora niente della poesia "moderna". Ma ciò che ricordo come un trauma incancellabile è la prima lettura di Rimbaud. Ero sui quindici anni e qualcuno mi dette Una stagione all'inferno e le Illumuiazioni tradotte da Oreste Ferrari. Ero incantato, e sconvolto dal venire a sapere che quei poemi in prosa, scritti da un ventenne, risalivano al 1873-74! Stava per scoppiare la seconda guerra mondiale e io, che iniziavo il liceo, avevo messo un piede nella lirica "pura" mentre l'altro correva con gli esametri dell'Odissea (è dal mio maestro di liceo, il giovane Bruno Gentili, che mi venne inoculata la passione per la metrica). Eppure fino ai diciannove, venti anni, non tentai di scrivere versi. Mi sentivo inadeguato, immaturo, come avrei potuto competere con Rimbaud?
Appena finita la guerra, assorbiti i Lirici nuovi di Luciano Anceschi, lette le prime poesie di Eliot apparse in italiano, provo un altro bellissimo choc; scopro Dylan Thomas. In quegli anni lì, '47-'48, devo essermi detto: è troppo stupendo, il riuscire a scrivere poesie così, bisogna tentare tutto, anche se il rischio di fallire è forte. [...] Da ragazzo m'ero fatto, per mio uso e consumo, una classificazione delle poesie che venivo scoprendo, a scuola e fuori della scuola. Anzitutto: le poesie che mettevano in musica le cose di questo mondo. Quelle di Leopardi, per esempio. [...] Poi c'erano le poesie che trattavano cose dell'altro mondo. [...] Nella mia classificazione, l'altro mondo non era necessariamente l'aldilà, il regno delle ombre. [...] Cose dell'altro mondo erano tutte le cose abnormi, meravigliose, fantastiche, buffe, mitiche che animavano i poemi omerici e la Commedia di Dante. Le poesie che raccontavano cose dell'altro mondo si capivano indipendentemente dall'esperienza personale (magari era utile aiutarsi con le note).
Quando scoprii le Illuminazioni di Rimbaud, la mia classificazione si arricchì di una terza categoria (necessaria anche per il fatto che le poesie erano scritte in una per me inaudita prosa), dove andavano a collocarsi i testi che non si potevano capire, ma soltanto sentire, dato che non trattavano cose di questo o dell'altro mondo, ma cose indefinibili, visioni, allucinazioni, esistenti forse soltanto nel linguaggio del poeta.
Il buono dell'ingenua e sommaria classificazione fu che essa mi permise di accettare la sovrana autorità di tutta la grande poesia, la quale tratta imparzialmente cose di questo e dell'altro mondo, nonché le cose che stanno in nessun luogo se non nella poesia stessa. E la poesia cosiddetta "minore", come si potrebbe farne a meno? Non butterei mai via le ariette di Metastasio o le odierne del Savioli in favore della Gerusalemme liberata, che trovo magnifica. [...] La poesia che più mi tocca è quella che si tiene alla natura tragicomica del discorso. La passione di spiegarsi è il cuore della poesia enigmatica. Parecchi anni fa - e fu un gesto di insofferenza per le riduzioni ideologiche, contro le ottusità di coloro per i quali la poesia non è un'esperienza - dissi forse un po' troppo recisamente che la poesia non è una forma di conoscenza, ma un modo di contatto con la realtà linguistica (alterità, estraneità del linguaggio con cui la poesia si misura e di cui s'innamora). Ebbene, è probabile che io avessi adoperato involontariamente il termine «contatto con la realtà». Ora, non soltanto l'alterazione del contatto vitale con la realtà è il nucleo del concetto di schizofrenia, ma il contatto è per Minkowski la sorgente autonoma del linguaggio; contatto per natura ambiguo, che non si esaurisce nell'esplicarsi, che è sempre alla ricerca della propria definizione. Facendo agire in me tale nozione del «contatto» combattevo il terrorismo ideologico dei moralisti letterari, lo rovesciavo scoprendo che esso era la maschera del terrore che il linguaggio ha di se stesso, o aveva allora. [...] La poesia esige il massimo della concentrazione e dell'indifferenza. Nel momento che scrivi devi lasciar fare i neuroni, le sinapsi, o che altro diavolo folleggia in te. Una furibonda poesia di Thomas comincia con questi versi: «How shall my animal / Whose wizard shape I trace in thè cavernous skull, / Vessel of abscesses and exultation's shell, / Endure burìal under the spelling wall... ». (Come potrà il mio animale, / la cui magica forma rintraccio negli anfratti del cranio, / vaso d'ascessi e guscio d'esultanza, / tollerare la tumulazione sotto il muro sillabato ...». La poesia è una cosa in più, ed è sempre molto meno della gloria cantata dai serafini.
Per orientarsi sui problemi della poesia in un dato tempo, bisogna arrivarci dalla parte giusta (genio o ricognizione critica che sia). Per leggerla al suo concepimento e alla sua nascita bisogna aspettarsela, il nutrimento dell'attesa è il compito più difficile tra quelli che toccano al poeta. C'è sempre il rischio che il desiderio di poesia non sia altro che un sintomo. La transizione è una costellazione di sintomi, una mancanza, un esaurimento, un baluginare di rivelazioni, attesa e ricerca spasmodica. Può essere accettata e vissuta come uno svolgimento tranquillo di punti precedentemente fissati, passare quasi inosservata o vista come una fiera di possibilità a portata di mano. Viviamo un sacco di transizioni, ora violente ora affascinanti, che oscillano paurosamente da una apocalissi all'altra. Siamo i post-apocalittici, sopravviviamo al peggio, sappiamo essere perfino felici.
Un momento acuto della transizione fu proprio quello in cui ho cominciato a scrivere, nel dopoguerra avanzato, fine anni Quaranta. Momento vissuto nella penuria del nuovo, la resistenza del vecchio, l'incipiente affollamento dei segni, la dissociazione rimuginante (chi è l'io che vuole scriversi? i furbi già sapevano, l'aveva scoperto Rimbaud, che Io è un Altro), la schizofrenia planetaria, l'opacità o l'illusoria trasparenza di tutte le tradizioni. Abbiamo sfidalo tutti i linguaggi, deliberatamente; non si poteva fare altrimenti. Un enorme lavoro di frammentazione e ricomposizione, che, devo dirlo, mi ha procurato il piacere di scrivere e penose intermittenze, durante le quali mi sembrava di non aver più niente da scrivere, di dover ricominciare da capo per la centomillesima volta. Che mi abbia condizionato la poetica delle Iluminazioni? magari piccole piccole, grottesche, a mala pena spiritose. Mi ha aiutato la passione per la metrica. Una volta il tessuto metrico, la texture, faceva da sfondo prosodico; si stabiliva un'armonia statica e sempre ritornante che il poeta variava con sottili sfumature, o talvolta rompeva mediante intervalli «trovati», durate e intervalli nuovi, discreti, che campivano sullo sfondo dello schema metrico, padrone non assoluto ma onnipresente. Ma quando lo sfondo è consunto, indistinto, sfilacciato, insomma da buttar via? Mi sono trovato a ricostruirmi una prosodia sugli accenti sintagmatici, a non sentire più la misura delle sillabe, ma quella dei monemi (quando ho letto Martinet ho capito che mi stavo regolando sui monemi senza averli individuati così chiaramente, né tanto meno denominati; Martinet mi ha dato la chiave che cercavo).
È stata, finora, una bella e tormentata avventura. Non rinnego niente; non ho niente da superare. Sto scrivendo un solo libro, che va dal 1950 a domani, spero. E le date per me contano poco.
Omaggio più che doveroso a un "grande". Col quale bisogna ancora fare "tutti" i conti.
RispondiEliminafm
sono d'accordo. Specie con le sue poesie degli anni cinquanta.
RispondiEliminagugl
Un abbraccio, Alfredo
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