Midbar di Raffaela
Fazio (Raffaelli Editore, 2019)
Nota dell’autrice
Ho voluto leggere l’Antico Testamento attraverso la poesia, dopo
essermi accostata, negli anni, a varie interpretazioni, da parte cristiana e da
parte ebraica. Ma la mia è una lettura laica, di chi crede che la Bibbia sia un
testo prezioso innanzitutto dal punto di vista umano e relazionale. Il suo
linguaggio va naturalmente decodificato (attraverso categorie sia teologiche,
sia archetipiche/mitologiche), senza la pretesa di ridurlo a un unico filone di
senso; lo si può accogliere non solo tramite uno sforzo esegetico, ma anche
grazie a un piacere estetico, emotivo. Gli approcci sono dunque potenzialmente
illimitati. Al riguardo, riporto le parole di Marc-Alain Ouaknin, rabbino e
filosofo francese, che, alla domanda “si può leggere la Torah e non credere in Dio?”,
risponde: Certamente! In ogni caso,
bisogna almeno dubitare. I Maestri della Tradizione insegnano perfino che in
ebraico la radice della parola “Dio” è el/ulay che vuol dire “forse”. […] Dio è
un “forse”, un’apertura della mente!
Una lettura di Marco Guzzi
Midbar di Raffaela Fazio inizia con questo verso: “Ogni parola è un passo”, e
quindi con una rivelazione sull’essenza stessa della parola. Ogni parola segna,
direi incide, un passo, lascia una traccia lungo un cammino che, dunque, non
sussiste in sé, ma è proprio costruito parola dopo parola. È il nostro parlare
a procreare il cammino, e noi parliamo per di più senza controllare né in fondo
conoscere l’abisso da cui la nostra parola trae origine: “L’origine ci sfugge”.
Noi infatti parliamo, e procreiamo il cammino della vita e della storia,
trovandoci di colpo già dentro una lingua, che ci viene trasmessa, e che in un
certo senso è già tutta data: “il bambino/ di colpo sa parlare”.
L’essere
umano perciò parla e procrea, è cioè un inizio, senza possedersi, senza
possedere questo atto creativo, ma ricevendolo di colpo, e sempre di nuovo:
ascoltando la parola che pronuncia: il suo diktat è in altri termini un
dettato.
La
poesia davvero contemporanea è sempre più consapevole di questa natura misteriosa
e gloriosa della parola umana, ci rivela che il nostro parlare è sempre una
ricerca, un cammino appunto, ma nel senso di un itinerario di ricerca. Che cosa
cerca la parola? È come chiederci: ma perché parliamo?
Parliamo
in quanto ricerchiamo il senso del nostro essere, cerchiamo di comprendere Chi
in realtà parli, e quindi Chi in realtà siamo.
Ma
come possiamo imparare a parlare affinché il nostro dire diventi ricerca del
nostro essere? In quanto non ogni parlare costruisce un cammino di ricerca.
Spesso il nostro parlare è un semplice vaniloquio, e cioè un vagare nelle
tenebre del labirinto della mente, che non possiede alcuna direzione.
È
ancora la pratica poetica autentica che ci offre ottime indicazioni: “allena/
la vista/ oltre quello che vedi.// Ascolta da dentro”. Bisogna perciò parlare
non per riprodurre ciò che ci offrono i sensi corporei, ma dando voce ad una
luce che illumina le cose da un più profondo, da una dimensione che in un certo
senso è “prima” del mondo, è la luce che lo proietta.
Questo
parlare dalla profondità sorgiva dell’essere ci apre alla vera speranza, in
quanto ci offre panorami inediti di possibilità creative, liberandoci dalla
gabbia sensoriale delle leggi di necessità: “Io vi bacio/ e vi estirpo i
sepolcri/ da dentro/ gli sterpi del senso/ ormai chiuso./ Vi conduco/ alla
terra/ che è vostra, a un diverso/ riposo”.
Chi
parla? Chi dice Io con tanta assoluta autorità? Qui sembra parlare l’Autore
stesso, l’Io Sono che rivela il suo Nome a Mosé (Es 3,13). E infatti “Dal
roveto” Egli dice: “Io-ci-sono-io-ci-sarò://non ti lascio/ e non sono ancora
tutto.// Come un nido/ è il mio Nome/ che cresce con l’uomo”.
Il
Nome di Dio è l’Io che parla in noi? E che intesse con noi un dialogo
attraverso il quale tutto viene creato, lungo un cammino? È Dio che ci parla,
che ci rivolge la parola, dandocela così la parola?
Tutte
le figure bibliche che Raffaela Fazio attraversa in questo volume mi sembrano
figure di questo dialogo, che è insieme cammino e ricerca. Tutta la Bibbia anzi
si configura come il dispiegarsi della relazione dialogica tra Dio e l’uomo,
tra un Appello e una Risposta, che, nella loro incessante dinamica, sono tesi
ad un compimento che incarni, nella pienezza, il senso dell’umano.
Il
compito dell’uomo, in questa fase del tutto inedita della storia del pianeta
terra, sembra consistere in una presa di coscienza nuova della propria natura,
e del proprio destino. È come se dovessimo realizzare in modo molto più
personale e diretto di essere i Porta-voce del Creatore, i Profeti della
salvezza: “Ti aspetto/ dentro la tua voce”.
Questa
presa di coscienza d’altronde non è per nulla facile, è anzi una sorta di
transizione antropologica, che si dipana nelle nostre esistenze con tutti i
travagli che le vicende di Agar o di Isacco, di Giuseppe o di Rut ci mostrano.
Ma solo questo travaglio, questa assunzione della Voce come guida della nostra
esistenza può farci compiere la nostra vocazione, e quindi realizzare il nostro
destino: “Ogni uomo/ ha un peso di stelle/ dentro il sonno/ un destino”.
Dabar[1]
Ogni parola è
un passo.
Cambia nel
dirsi e nell’ascolto
come una
distanza
raggiunta con
il corpo
e superata.
Fonda flessuosa
luce le cresce dentro
se in alto
o nella misura
dell’appoggio
più spazio
riesce a separare
l’immagine dal
nome.
E il nome
pronunciato
è già percorso.
Non c’è
certezza di un inizio
sul cammino.
L’origine ci sfugge
come l’istante
in cui tutta la
lingua si dispiega
e il bambino
di colpo sa
parlare.
Ogni parola è
un balbettare
forte
dell’inciampo
con cui il
suono
l’invera mano a
mano.
Nasce dal
deserto e non lo lascia:
mentre lo
attraversa
ne spinge il
confine più lontano.
E nel silenzio
si vede
riflessa,
incinta di echi
come il profeta
che muore
carico di
futuro
sulla soglia
della terra promessa.
*
Babele
Cercammo un nome
per paura della morte
squadrammo la
parola.
E la parola-argilla
scordò che era terra
reclamò l’altezza di una torre
divenne più preziosa della vita.
Per lei
rinunciammo al tempo del riposo
alla carezza, allo spazio
che differenzia il senso.
Finché
fu il mondo un’evidenza
senza volto
- rumore
di fondo
che nessuno ascolta.
Ma nella dispersione
capimmo
che il nome dura solo
se dalla voce affiora
l’uomo.
*
Ossa
“La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi
portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa
[…] Egli mi disse: «Profetizza al soffio, profetizza, figlio dell’uomo, e
annuncia al soffio: «Così parla il Signore Dio: soffio, vieni dai quattro punti
cardinali, soffia su questi morti ed essi rivivranno» […] Ecco, essi vanno
dicendo: «Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi
siamo perduti»” (Ez 37,1.9.11).
Su te la mia mano.
Perché tremi come in una fossa?
Non staccare lo sguardo
dal bianco delle ossa.
Ma nella piana
di resti scomposti, di sassi dispersi
allena la vista
oltre quello che vedi.
Ascolta da dentro:
il midollo rilancia la corsa
come il seme sotto la scorza.
Questa valle
è solo paura, una tomba
che non vi conviene.
Io vi fascio di vene
vi rivesto di lembi
di pelle
di muscoli e nervi.
Crescete!
Aprite la bocca
allo spazio più arioso
unite la voce!
Io vi bacio
e vi estirpo i sepolcri da dentro
gli sterpi del senso ormai chiuso.
Vi conduco
alla terra
che è vostra, a un diverso
riposo.
*
Dal
roveto
“Mi diranno: «Qual è il suo nome?». E io che cosa
risponderò loro?»” (Es 3,13).
Io-ci-sono-io-ci-sarò:
non ti lascio
e non sono
ancora
tutto.
Come un nido è
il mio Nome
che cresce con
l’uomo.
In me
c’è spazio per
il grido
la lode
il dubbio.
Torna se vuoi.
Se puoi spicca
il volo.
Se anche mi
scordi
non sarai mai
solo.
*
Rut
Nell’aia
“Booz mangiò, bevve e con il cuore allegro andò a
dormire accanto al mucchio d’orzo. Allora essa venne pian piano, gli scoprì i
piedi e si sdraiò” (Rt 3,7).
Il calore
dei campi e del
vino
nei corpi
distesi –
silenziose sementi.
Ogni uomo ha un
peso di stelle
dentro il sonno
un destino.
Ma tu sei
leggera
e profumi
muovendo i capelli.
Chiedi pace
al respiro.
Scegli il posto
che la notte
non nega.
Nessuna
carezza:
solo scopri i
suoi piedi
e aspetti la
brezza
dall’alluce al cuore
il risveglio.
Lui saprà che
ti spetta
la parte
migliore.
Per amore la
terra
è fatta di
tempo
e la storia
di vento, ruah.
*
Un popolo
(il canto di Mosè)
“Mosè disse al
Signore: «Perdona, Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono stato né
ieri né ieri l’altro e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo
servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua»” (Es 4,10).
Quante volte ti
ho guardato
dall’insonnia
come si
cerca
di tenere
insieme
nella mente una
parola
e invece
quella si
spezza nel chiarore
balbuziente.
Quando la voce
sogna
riunisce
il gregge dei
suoi suoni
e il tempo le
obbedisce.
Ma tu, popolo
mio
ti spargi
come il mio
nome
confuso si
divise
tra il seno e
il fiume
il trono e poi
il deserto.
Adesso
in te
esco dai miei
confini.
E non rinuncio
perché ti vedo:
sei tu, popolo
incerto
che mi pronunci
passo a passo.
Infinito,
incompiuto
il cielo
ci presta un
tetto provvisorio
come il palato
su cui la
lingua batte
e sfiora
il senso.
Raffaela Fazio, nata ad Arezzo nel 1971, è poetessa e
traduttrice (tedesco, francese, inglese). Dopo aver vissuto dieci anni
all’estero, si è stabilita a Roma. Laureata in lingue e politiche europee
(Grenoble) e specializzata in interpretariato (Ginevra), ha conseguito a Roma
un diploma in scienze religiose e un master in beni culturali, con particolare
interesse per l’esegesi biblica e l’iconografia cristiana. È autrice di Face
of Faith. A Short Guide to Early Christian Images (2011)
e di diversi libri di poesia. Raccolte
recenti: L’arte di cadere (Biblioteca dei Leoni, 2015); Ti
slegherai le trecce (Coazinzola Press, 2017); L’ultimo quarto
del giorno (La Vita Felice, 2018); Midbar (Raffaelli
Editore, 2019). Nel 2019 è prevista anche la pubblicazione di Silenzio
e Tempesta, con Marco Saya Edizioni, poesie d’amore di
Rainer Maria Rilke.
[1]
Dabar in ebraico significa sia
parola, sia evento. “Deserto” invece è detto midbar, che si scrive aggiungendo una sola lettera, la “mem”, a dabar (la scrittura ebraica è solo
consonantica). Il deserto, dunque, come luogo della parola.
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