lunedì 2 febbraio 2015

Ranieri Teti


Ranieri Teti, in questi inediti usciti nel n.89 di “Anterem” (dicembre 2014), punta sulla forza estrema della parola, sul peso che ogni parola può avere quando la si organizzi in una sintassi essenziale, al fine di delineare l’impalpabile, che qui ha la forma del soffio sotteso al dire, del senso tra il grafema e il seme, della “luce terminale”, del margine.

Fuori dalla piazza che sbraita o che si contende il primato sull’impegno, lontano dal culto del quotidiano, scevro da tentazioni neoromantiche, questo poeta riservato (per quanto sia promotore dell’importante premio letterario “Lorenzo Montano”) prosegue una ricerca che coniuga l’irrinunciabile dialogo con il silenzio – irrinunciabile da quando Mallarmè e Ungaretti lo hanno semantizzato, rivelandone la carica metafisicamente espressiva – con un materialismo teso a tenere i segni nello spazio terrestre della creatività umana, dell’artigiano che, pur organizzando la sua struttura con sapiente consequenzialità degli elementi, dialoga e lotta con l’imprendibile silenzioso di ogni progetto, con lo scarto che ogni fare ha rispetto al pretesto e al contesto che lo ha generato. In questo modo, il misticismo implicito in ogni operazione simbolista si attenua, per lasciare alla scrittura, concepita nella sua natura di artificio, ma anche di struttura non arbitraria, un non-detto che pare nascere dal corpo dello scrittore, dall’esperienza diventata sua materia biologica, prima ancora che dalla sua scienza. Tale profondità viene a galla tramite la memoria che, per frammenti semantici e ritmici, per agglutinazioni di senso e di suono, ci racconta un presente che avrebbe bisogno di un’attenzione sottilissima verso i dettagli laterali, verso quei luoghi fondanti eppure poco illuminati dal sistema della comunicazione, pena l’angoscia che un tempo gramo come il nostro trasmette. siamo in presenza di una poesia che disturba, dunque, nella misura in cui ci invita a un viaggio senza paesaggio e privo di cornice, a una navigazione a vista. Una poesia che ci chiama “dall’oscuro senza custodia” per riflettere sulle lacune alle quali ogni a-capo rinvia, per toglierci dall’inganno che l’esperienza davvero universale sia quella comunicabile. È invece nella riserva di senso, nell’esser-possibile del non-ancora (stilisticamente reso qui nell’a-capo) che l’umanità riconosce il proprio legame con l’assoluto, che non è pienezza, bensì interrogazione continua alla quale ciascuno, dalla propria dislocazione, è chiamato a rispondere. In questo senso la bellezza non è data dalla forma stabile, dall’equilibrio atemporale del vero, bensì è la risultante mai risolta di interrogazione e determinazione, di desiderio e limite, di arte del fabbro e natura  indomabile. Lo si capisce anche dal lessico, che deve molto al romanticismo europeo, non ultimo Baudelaire. E ciò non perché sia inattuale la scelta poetica di Teti, bensì, al contrario, perché l’oggi ci trasmette sussulti simili a quell’età di passaggio: quando Schelling, nel necrologio a Kant (1804), parla del proprio tempo come di “un’epoca spiritualmente e moralmente decomposta e liquefatta”, possiamo non sentirci solidali con lui?



Doxa


*
dove si incide
il soffio riproducibile         
nel rivelarsi della voce
 
dal costato alla gola
l’ingranaggio del respiro         
il prensile dell’aria

dove erano suoni
a sillabate distanze        
possono essere cenni

frammenti dispersi
numerosa presenza
nello stesso nome                


*
tra materia e verbo
insonne l’inchiostro          
la china contraria

come si inietta
il dire l’infettarsi
                
tutto quello che trema
nella veglia della frase


*
non ogni bagliore                           
è analogo giorno
la terra interiore
di ossa indifese              
                                               
ogni presa di fiato
è placenta che assorbe
la notte dalle rive       
la luce terminale


*
dista nella parte
esposta alle piene
la cerchia dei gorghi           

la muta dei relitti      
tra onde straniere
e prove di abbandono

in continuità di fuga
l’acqua tornata vena
vigilia dopo vigilia


*
dove sta per cadere                                   
arreso al moto il fiume           
proseguire è solo
cosa si diventa

nello sguardo prolungato        
da un silenzio corrente    

la parte più profonda             
origina affioramenti
introduce in disparte                   
il dire nei capoversi              


*
restituite alla trama
decimate alla meta
le ore che portano
rifugi dove ognuno
è lontano sul limite
di bosfori e colonne
che in un varo di foci 
nel finimondo legano
la lingua al taciuto
di orfane cose erme
spogliate in tenebre


*
dall’oscuro senza custodia
l’azione dell’alba destina
una congiura di margini

l’argomento trapassante    
un altro a capo della vita




Ranieri Teti è nato a Merano nel 1958.
Ha pubblicato: La dimensione del freddo, prefazione di Alberto Cappi, Verona 1987; Figurazione d'erranza, prefazione di Ida Travi, Verona 1993; Il senso scritto, prefazione di Tiziano Salari, Verona 2001; Controcanto (dalla città infondata), immagini di Pino Pinelli, nel volume collettivo Pura eco di niente, prefazione di Massimo Donà, Morterone 2008; Entrata nel nero, prefazione di Chiara De Luca, Bologna 2011.
È presente nelle antologie: Istmi. Tracce di vita letteraria, a cura di Eugenio De Signoribus, Urbania, Biblioteca Comunale di Urbania, 1996; Ante Rem. Scritture di fine novecento, a cura di Flavio Ermini, con premessa di Maria Corti, Verona 1998; Akusma. Forme della poesia contemporanea, a cura di Giuliano Mesa, Fossombrone 2000; Verso l'inizio. Percorsi della ricerca poetica oltre il novecento, a cura di Andrea Cortellessa, Flavio Ermini, Gio Ferri, con premessa di Edoardo Sanguineti, Verona 2000.
Fa parte, dal 1985, della redazione della rivista “Anterem”.
Collabora a riviste, cartacee e on-line, italiane e straniere.
Per conto delle Edizioni Anterem cura la collana "La ricerca letteraria".
Fondatore e responsabile del Premio Lorenzo Montano, ne cura il periodico on-line “Carte nel Vento”, presente nel sito  www.anteremedizioni.it 
Vive a Verona.

18 commenti:

  1. come aver attraversato una notte.. così ampia nei pensieri che si muovono come acqua, quando ci sentiamo come un ponte che rimbomba sotto le arcate..
    e gli ultimi cinque versi chiari e invenzione perfetta, per dire del giorno che arriva a dare all'acqua limiti di luce..

    questo è quello che so dire,di questa lettura assai coinvolgente..

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    1. a scrivere di notte le ripetizioni si sprecano.. :)

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  2. se non posso apprezzare totalmente l'aspetto tecnico (o almeno, quello metrico: una mistura di versi ''minori'', che sono certo i più difficili da scrivere) per alcune mancanze, forse volute, forse no, mi piace una certa tensione filosofica che attraversa questi testi. Per darne una più migliore lettura occorrerebbe conoscere meglio questo non indegno autore; ma da questo assaggio, personalmente evinco che l'indicibile, perché inconoscibile (per paura?, per sacro rispetto?) è il mistero. Rimane come una tenebra, dietro la facciata in piena luce. Rimane quella briciola di eterna bellezza, inscalfibile, a cui Mallarmé riduceva la missione del poeta. L'unica pecca, ripeto, è la scelta (in questi pochi testi) di un metro poco consono, che spezza sia la lettura, peccato perdonabile, che la scrittura.

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    1. Caro Gabriele, ha posto l'accento su un punto per me fondamentale: cercavo proprio di rappresentare una tenebra che illuminasse per contrasto la scena, colta così acutamente da Stefano. Sul metro usato: proviamo tutti e due a rileggere il testo, a me sembra che ogni verso richiami il successivo, ma che possa contemporaneamente vivere da solo... Grazie per la sua lettura, Ranieri

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  3. La lettura di Stefano mi muove con sé, completamente: in questa indagine critica non c'è solamente il mio intendimento iniziale, c'è molto di più. Ringrazio la notturna Amara, la ringrazio anche per aver citato gli ultimi versi. Ranieri

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  4. Ringrazio anch'io i commentatori e l'autore per avermi affidati i suoi versi.
    Rispetto al metro: il verso è sintagmatico, e perciò rinuncia alla luminosità semantica del verso classico, alla chiarezza del dettato, preferendo farsi carico, appunto, del sintagma, che è sintatticamente incompleto per definizione. Questa scelta, più che "minore", è culturale, nella misura in cui focalizza sul frammento la possibilità di intravvedere l'intero, che però continuamente si sposta, creando un felice (o fecondo) spaesamento nel lettore. Questa tecnica opera già nell' Ungaretti di "Porto sepolto". D'altro canto,anche oggi si vive in trincea, per quanto meno drammatica di quella carsica.

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    1. Questa chiosa è perfetta, nella sua abissale limpidezza. E poi questa poesia non finisce, quando finisce il verso...
      Un saluto a chi è passato di qui, e al padrone di casa. Ranieri

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    2. Grazie. Un saluto affettuoso anche da parte mia.

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  5. poesia ermetica che induce il lettore a smascherare il senso che può emergere da una prima lettura...la trovo molto precisa, un pò faticosa, forse perchè costretta nello spazio limitato riservato ai suoi versi ...
    vorrei che il poeta si rivelasse di più, tra le righe
    che ogni tanto venisse allo scoperto proprio come il soldato in trincea.

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  6. C'è qualche metafora ermetica (per esempio "le ore che portano / rifugi"), ma dobbiamo stare attenti a definire ermetico tutto ciò che non riusciamo/possiamo parafrasare.

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  7. concordo con te sulla necessità di trovare un equilibrio fra autobiologia e autobiografia. Però: quando "il poeta si rivela di più", che cosa rivela? Se è l'evidenza, perché dovrebbe farlo (già la conosciamo)? E se è l'oscurità, perché rischiarala, perdendola?

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    1. alla tua domanda rispondo:
      rivela la sua essenza.
      lo spiega molto bene questo estratto da una poesia di Patrizia Cavalli:

      Ah sì, per tua disgrazia,
      invece di partire
      sono rimasta a letto.

      Io sola padrona della casa
      ho chiuso la porta
      ho tirato le tende.
      E fuori i quattro canarini
      ingabbiati sembravano quattro foreste
      e le quattromila voci dei risvegli
      confuse dal ritorno della luce.

      però qui credo che, oltra alla propria formazione, entri in ballo uno stile che certo Ranieri dimostra di possedere, dal momento che riesce benissimo nell'intento di non lasciarsi mai sorprendere.

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  8. Le parole di Carla mi hanno riportato quei versi di Rilke quando scrive, più o meno, "Nel mondo spiegato e interpretato/noi non siamo di casa".
    Penso che la poesia, in generale, allarghi lo spazio della vita di ciascuno la attraversi. Penso che una poesia che non dice tutto, ma dicendo l'essenziale, lasci molta libertà al lettore... Ranieri

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    1. il problema di fondo è individuare questo essenziale che non è per tutti uguale.
      per me l'essenziale è individuare la particolarità, la peculiarità, di una personalità.

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    2. forse anche quando si pensa di averla individuata, è un'illusione.. quindi tanto vale lasciarsi leggere dai versi..

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  9. Buongiorno a tutti
    !Nella scorrevolezza cui induce una lettura telematica, trovo i versi di Teti molto pregnanti perchè investono le sorti del dire nel disfarsi del consueto.
    Sovente son virgole e diramazioni dialettichecui non pensiamo. Egli ci si pianta con devozione analitica e rispettosa svelandoci l'eventuale rovina di un respiro non meditato.
    Ritrovo qualcosa di zen in questo cauto attraversare la scollata giugulare del dire che riporta la mia mente a quelle paterne raccomandazioni di cui la vita avrebbe bisogno e spesso non ha.
    Raccolgo così questo incitamento e sorrido satollo di questo piccolo dono che il mattino mi ha riservato.
    Grazie Stefano della ghiotta proposta e cari saluti a tutti gli utenti!

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    1. grazie a te per il commento per l'entusiasmo.

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    2. Sono lieto, Raffaello, di questo commento. Lo porto con me. Ranieri

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