Caro Marco, anzitutto voglio ringraziarti per la qualità dei tuoi interventi e per il tono pacato, così raro in rete. La tua lettera di ieri, invece, e anche quella di oggi, restano in posizione, puntualizzano con precisione, non attaccano l'interlocutore, ma approfondiscono l'oggetto, ossia la qualità della prosa che pratichi, anzi l'assenza di qualità della prosa, il suo essere senza qualità, come l'uomo musiliano. E' assolutamente legittimo che tu dica: "sono veramente ed effettivamente prosa in prosa, non versi in prosa, non poème en prose, non prosa lirica, non narrazione, non epica, non prosa filosofica, non prosa d’arte, non prosa assertiva-artaudiana (noël), non frammenti/aforismi che segmentano un pensiero (bousquet, cioran), non voyage/onirismo (michaux)". Ciò garantisce la via nuova, che è anche un marchio estetico, così come la dialettica hegeliana o l'idea platonica lo sono per la filosofia. Ancora più importante è che tu stia facendo uno sforzo sovrumano per fondare il concetto di "prosa in prosa" (dei 6, mi pare tu sia l'unico interessato a farlo o convinto che sia necessario farlo) di fronte ad una platea che fatica ad avvicinarne l'originalità, secondo me fondata sul recupero dell'oggetto (linguistico, fisico, iconico, simbolico etc) quale stare in posizione del finito, secondo una linea che deve molto proprio a quegli autori che prosa in prosa vorrebbe tenere in margine. Viene infatti dalla linea Bacone-Spinoza-Kierkegaard-Heidegger-Derrida-Deleuze-Nancy il pensiero moderno del finito, il pensare quest'ultimo come mancante di nulla, libero nella suo tremore ontico, differente dalla semplice-presenza, ed invece – e qui cito un filosofo che tu conosci, ma che ancora non ha avuto la giusta considerazione accademica – in una relazione espropriante con il luogo in cui il finito accade-eccede, ossia un'area "in cui il finito può situarsi in quanto finito, in cui può rivelarsi come tale e di conseguenza aprirsi al senso: non ad un senso che sarebbe quello della sua finitezza (come se un qualche Infinito Trascendente glielo concedesse), ma al senso che la sua finitezza è. [...] Il senso del finito è l'eccedenza della presenza: in quanto finita essa si apre su un al di là di essa che non è un'altra presenza, né finita né infinita, ma che è un nulla di senso in cui si dispiega tuttavia un nulla come senso, ma come senso inappropriabile" (Alfonso Cariolato, Il luogo del finito, il Poligrafico, p.11). Quando tu scrivi: "Io sento la mia riflessione, per quanto esercitata proprio su questi oggetti spesse volte, come sento me stesso: decisamente dislocato e spiazzato e sfidato e infine sconfitto dal debordare segnico e filosofico del puro e semplice mezzo fotografico", affermi esattamente quel tremore cui accennavo sopra. "Dislocazione" è infatti spaesamento ed erranza quale condizione ordinaria della contemporaneità, come cercavo di dimostrare in Scritti nomadi (Anterem 2001), saggio in cui, fra l'altro, leggevo i Novissimi proprio a partire da quella dislocazione, che è ontologica, ossia imprescindibile, ma che va scelta, "decisa" direbbe Heidegger. Il mio lavoro degli ultimi 10 anni, poetico e saggistico, cerca di approfondire questa consapevolezza, che, a mio avviso, è un cambio di paradigma (quello che fondava sull'identità forte l'ordine del mondo, e sull'idea di superamento la storia delle idee). Senti quanto si assomigliano queste mie, alle tue precedenti parole, e a quest'altre, quando dici: "A mio avviso è proprio per un distacco dal narcisismo del ritratto, che l’oggetto non esibito ma mutato di campo (dall’utile all’estetico) acquista e si fa vettore di segni del senso. È proprio staccando l’ombra dal corpo – dunque rischiandola – che abbiamo un modo inedito e non garantito di rapportarci alla nostra “anima”, a quello che sentiamo (poter) essere il “senso” (sempre “portato in segni”, reso tracce, ossia già spostato di un grado o più gradi di differenza/différance altrove, lateralmente, rispetto al “punctum” dove il linguaggio starebbe già, ossia rispetto al dato e al movimento in corso, che parla e articola quel punctum e già sta tacendo, proprio per una differenza che non “è”, non “risiede”, ma si esaurisce nel nostro percepirla non appena ci ha gettato un rapido lampo, un’occasione)". Anche tu, oltretutto, poni l'accento sulla relazione identità-spazio, intesa quale co-appartenenza in cui l'evento è "l'aver luogo" dell'essere "singolare plurale" nei modi cari a Nancy, e citi Derrida (la "differance") per pensare lo scarto tra nominabile e innominabile, e Deleuze (le "tracce"), oltre che essere profondo conoscitore del pensiero di Merleau Ponty e dell'importanza che egli attribuisce non soltanto al "non detto", ma anche alla percezione, quale attività di radice fenomenologica, attività che fonda a mio avviso, per le ragioni appena espresse, la tua stessa idea di "sought object". Inoltre, pensare quest'ultima azione amplificata in un soggetto transcoscienziale e cibernetico, dove il sistema-coscienza interagisce sinergicamente con il sistema-mondo, con l'Aleph borgesiana, a me pare comporti una dislocazione del sé non dissimile a quanto intende Heidegger nel cap. V di Essere e Tempo, quando parla di "gettatezza", di quel "ci" dell'Esser-ci che apre "comprensione" ed "interpretazione".
Un'ultima nota relativa alla storia della Neoavanguardia, che tu poni all'inizio della lettera. Credo sia importante cercare di capire perché "una certa possibile linea di scritture (anche verbovisive)" sia stata "interrotta" in Italia, a partire dal riconoscimento – e non lo dico a te, ma ad una koinè contemporanea, specie nella giovane generazione, che tende a sminuire il lavoro complesso della Neoavanguardia – delle ragioni storiche che hanno portato alla nascita e al compiersi di un processo che ha messo la cultura europea e americana al centro dell'attenzione nostrana, che ha sprovincializzato un dibattito, spostandolo dalla questione "neorealismo" a quella, inglobante la prima, del rapporto fra industria culturale e neocapitalismo. Non entro in merito al contenzioso perché libri capaci di esplicitarlo sono molti, primo fra tutti quelli di Lucio Vetri, Letteratura e caos (Mursia 1992) e di Renato Barilli, La neoavanguardia italiana (Il Mulino, 1995). In sintesi, io dico: se l'esperienza di "Quindici" testimonia la fine di un progetto di rivoluzione culturale a favore di una prassi più prettamente politica (quella operaia e studentesca) dove la militanza estetica della borghesia colta della sinistra italiana, radunata a ranghi larghi nel poliedrico gruppo 63, ha scelto di assecondare l'emergenza progettuale in atto, dialogando in modo radicale sul Vietnam e il Medio Oriente (e così scaricando, fra l'altro, il moderatismo del PCI) anziché sul rapporto, sanguinetiano, fra ideologia e linguaggio; se da questa deriva identitaria, sopravvive comunque l'esperienza di TAM TAM e di altra ricerca verbo-visiva legata al Gruppo 70; se la poesia lineare degli anni Settanta nasce all'insegna di una nuova generazione che ha di nuovo bisogno di ricostuire lo smarrimento attraverso il canto e la radice tragica o orfica dell'esistenza, anche se le generazioni precedenti, al contrario, scelgono il verso opaco (Montale), il verso ideologico (Pasolini), il verso schizodomestico (Sanguineti) – tutti debitori nei confronti della prosa, nelle sue infinite forme – e il poemetto (penso a Un posto di vacanza, di Sereni, alla Signorina Richmond di Balestrini, alla Camera da letto di Bertolocci, ma anche al travaglio compositivo de La ballata di Rudi di Pagliarani) o continuano il loro viaggio originale, come Luzi; se i protagonisti dell'Avanguardia si sono integrati nelle istituzioni che contano (Università, RAI, Giornali di potere, editori); se tutto questo è verificabile, occorrerà un ulteriore approfondimento della specificità italiana, in modo da descrivere meglio il destino povero dello sperimentalismo postneoavanguardista, così come sarà da studiare la proposta di prosa in prosa - non tanto quale nuovo conflitto di paradigmi (appunto per quanto detto sopra, ossia che il nuovo paradigma è in atto non soltanto nelle ricerche cui tu fai riferimento, bensì in ogni poetica del finito) quanto piuttosto sotto il profilo storico-letterario e sociologico – dopo il sopimento degli anni Settanta-Ottanta e il fuoco, certo interessante, del "gruppo 93". Sono passati circa vent'anni da quella proposta legata a Poesia italiana della contraddizione (Cavalli, Lunetta, Newton Compton, 1989), ad una versione italiana del Postmoderno, alle riflessioni sull'allegoria di Romano Luperini, ad un materialismo che la cultura moderata e cattolica ha sempre digerito male; ben vengano dunque una pratica e una teorizzazione in cui autonomia e eteronomia dell'arte (per citare Anceschi) siano di nuovo messe a centro del dibattito, con consapevolezza, come stai facendo tu.
Un abbraccio
Stefano
Interessante la ricostruzione dell'avanguardia che Giovenale e Guglielmin tracciano insieme nelle loro riflessioni. E' indubbio che l'Italia costituisca un'eccezione per molti aspetti legati alla cultura, ai circuiti, privilegiati o meno, che provvedono alla sua diffusione e discussione. Le considerazioni critiche, in merito ai vari percorsi di scrittura, non possono prescindere da ragioni di chiarezza e onestà intellettuale nel Paese di Tangentopoli e della raccomandazione. La difficoltà è poi spesso nelle accreditate, ma non del tutto esaustive, distinzioni tra le esperienze d'avanguardia e quelle ritenute estranee al contesto. Troppe volte le idee relative denunciano un tentativo di storicizzazione, manicheo e affrettato, una battaglia giusta in linea di massima, eppure controproducente quando diviene dogma. Che cosa è, in fine dei conti, un "puro" percorso d'avanguardia? Credo che per dare una risposta a questa domanda e all'anomalia italiana sia necessario analizzare quelle voci fuori dal coro che hanno scritto avventurosamente senza schierarsi in una militanza culturale (e politica?) ben precisa. Spesso a leggere con il senno di poi ritroviamo alcune forme, idee o elementi che potrebbero appartenere alle esperienze cosiddette d'avanguardia,tuttavia reiterpretate da una visuale atipica. Ritengo si debba mettere in discussione seriamente una parte delle idee sul tema. Analizzare autori estranei a quei contesti potrebbe rivelare delle sorprese. Ci sono così tante domande senza una vera risposta. Perchè in Italia è stato così difficile scrivere d'erotismo in poesia, per le donne, al di fuori dei clichè maschili? E' solo uno dei tanti interrogativi, però mia madre, Maria Grazia Lenisa, se lo poneva spesso, davanti ai silenzi dei letterati, o alle reazioni velenose che suscitava una poetessa "audace". Oggi i tempi sono maturi per un'opera di ripensamento, distaccato e coraggioso, che si ponga le domande sul nostro tempo, i suoi stili di vita e valori, senza infingimenti o pedanterie (l'esasperato insistere degli intellettuali sul male di vivere, l'incomunicabilità e disgrazie varie, mentre prevale nella società odierna la difesa della qualità della vita ed anche, giustamente, del piacere). Il rifiuto dei giovani può essere un segnale d'allarme, una crisi di consapevolezza cui rispondere, con rinnovato entusiasmo, rivedendo il nostro giudizio sul passato che ci appartiene, ma che a volte rischiamo di fraintendere.
RispondiEliminaMARZIA ALUNNI
Caro Stefano, grazie per il tuo intervento, che punta decisamente in profondità e coglie una rete di momenti essenziali (sottotraccia nella lettera - pur lunga - che ti inviavo).
RispondiEliminaContribuisco, a mia volta, con un elemento al disegno del sistema o quadro che con acutezza disegni, a proposito della (non indecifrabile) 'interruzione di linea' nella ricerca dagli anni '60-'70 in qua: metterei nel conto degli eventi nodali le molte autodistruzioni o scomparse, inabbissamenti e morti, che troppi protagonisti di quella stagione hanno patito. Penso ai suicidi e alle morti per droga. Di autori più e meno noti. Penso alla fine di tante esperienze e tanti laboratori culturali. Penso alla scomparsa di Spatola, Reta, Vicinelli. Pensiamo all'ictus che colpì Villa (e che pure non ne abbatté l'energia). Penso allo spegnersi - assai più tardi, a "restaurazione" in pieno corso - di un fuoco inaggirabile dell'incendio di secondo Novecento: quello di Amelia Rosselli. Penso alla scomparsa di Ketty La Rocca. (Penso alla vita e all'indicibile di molti che poi riemersero però, per fortuna, alla fine degli anni '90, da esperienze di tossicodipendenza durissime; ma avevano nel frattempo perso tanti e poi tanti compagni di strada, strutture, occasioni).
Penso al laboratorio segreto di tanti che Anterem ha comunque avuto il merito straordinario di sostenere nonostante e proprio per il loro essere appartati: Brandolini d'Adda, Mussio, per esempio. Due giganti, a mio parere.
Tutti questi sono stati punti spersi, dimenticati ingenerosamente spesso (quanto ha fatto Nuvolo, per esempio, per tanti, a partire da Burri! e che valore la sua opera..).
Se penso ai fotografi, poi... Basti il nome della geniale Woodman, scomparsa giovanissima...
Ma tutte queste entità non puntiformi, ma galassie, pure, avrebbero potuto - con il flusso di opere che di fatto hanno prodotto - variare (nelle folte differenze che li separano e distanziano, certo) i punti e ponti e geografie e momenti della storia successiva. O forse no.
In ogni caso il nostro post-TelQuel non c'è stato (o non interamente, o affidato a un numero circoscritto e insufficiente di registri dello spettro modale). Mentre altrove una base era attestata, e su quella si costruiva, da noi la base franava e su un disastro generazionale iniziavano a tessere le loro vocine stridule i neolirici e neoricchi che non si accorgevano della nascita di Milano 2 accanto ai loro taccuini.
Questa la tristezza infinita che la tua, la mia, le future generazioni non smetteranno di scontare (nemmeno traducendo usque ad mortem quanto accaduto altrove: perché l'altrove tale resterà, finché una rifondazione individuale e collettiva non farà leva su quanto di buono non smette di esserci in questo paese massacrato, questa "Italia sepolta sotto la neve", per dirla con Roversi).
Ti mando un abbraccio fraterno, e l'invito a continuare il nostro dialogo (scriverò su slowforward, credo, a breve, di nuovo).
Marco
Mi servirebbero almeno una decina d'anni di soli studio e lettura per starvi dietro e poter dire qualcosa che non sia "qualcosa". Allora sto zitto e mi limito a un sincero grazie ad entrambi.
RispondiEliminaLuigi B.
@ Marzia: vero che c'è stata emarginazione da parte dei protagonisti della neoavanguardia, però ciò non riguarda la loro poetica, che va comunque studiata a fondo. Adesso possiamo studiare anche chi ha subito censura, come tua madre e tanti altri autori degni di tale nome. L'errore sarebbe liquidare la storia della neavanguardia come qualcosa di irrilevante per la cultura italiana. Non dobbiamo avere paura di confrontarci con i loro segni, perché fior fiore di studiosi e artisti li hanno fondanti con grande competenza (magari con presupposti differenti dai miei e dai tuoi).
RispondiElimina@ Marco: le morti fanno parte del gioco. Difficile dire che la quantità faccia qualità (anche se tu citi autori di indubbio valore). I romantici italiani sono tre: foscolo,leopardi e manzoni (e bastano a mettere l'italia al centro del pensiero romantico europeo). Staremo a vedere chi avrà tale forza nelle avanguardie italiane. L'unica critica che avanzo rispetto al tuo commento, è puntare il dito sulla generazione emersa nella seconda metà degli anni settanta: certe poesie di De Angelis raccontano una milano lacerata molto di più di tanta poesia civile degli anni in questione. Se vogliamo pensare la poesia come luogo del plurale, dobbiamo anche avere la forza di ascoltare l'altro, chi parla differente da noi (sempre a patto che il talento ci sia)
@ Luigi: :-)
caro Stefano,
RispondiEliminala mia ipotesi è però che "alcune" morti o defezioni o scomparse (in varia forma) abbiano significato una drastica troppo drastica interruzione del gioco o lavoro di scambi, trasmissione, e costruzione di iniziative, che fino a una certa parte del secondo Novecento aveva assicurato alle scritture in generale - e a un certo tipo di scritture in particolare una - specie di *piattaforma in crescita*, un laboratorio, un ventaglio di strutture anche editoriali (in sintonia con altre voci europee ed extraeuropee), e un collante fra le generazioni. La cesura, sottolineo, è stata più radicale da noi che in altri contesti linguistici.
E in questo non possono non essere chiamati dentro (non come "cause" ma come "zone coestensive" a un certo modo di fare/sentire) anche i climi orfici che si sono attestati a fine anni '70. Ma certo De Angelis in questo non è minimamente in causa; anzi, come giustamente rilevi, è proprio una voce capace di alterità radicale, e un gigante che non può esser fatto rientrare in alcun recinto categoriale semplice.
Un'annotazione concludendo: tanta parte della "poesia civile" di fine anni Settanta è - per il mio gusto e secondo la mia impressione - distante dal nostro discorso. Proprio estranea, forse. Non sto giudicandola. Dico che non mi è possibile vederla incarnare quel filo smarrito di continuità con il lavoro delle avanguardie degli anni precedenti.
Sarebbe stato forse necessario un 'twist', un cambiamento repentino e radicale, nelle forme, negli stili, per mettere il piano degli stessi sul piano di una pertinente osservazione della crudeltà (e banalità del male) che si attestava o riattestava. Cosa che hanno saputo fare autori come Gleize e Silliman, prima, e Tarkos poi. (Parlo delle *forme*: so che noi avevamo il perdurante coraggio anche civile di Fortini, Raboni, Toti, Sanguineti, per dire: ma attraverso quali *forme*, appunto? Torniamo sempre su questo. Torniamo ad un mancato mutamento di clima in Italia. Davvero non mi riesce a sentirlo non omologo di altri mancati mutamenti nella nostra società).
Se questo confronto tra marco e stefano, condotto con estrema competenza e grande onestà intellettuale, nel rispetto della diversità delle posizioni, venisse preso ad esempio, l'auspicato salto di qualità del dibattito in rete potrebbe realizzarsi compiutamente.
RispondiEliminaMi colpisce particolarmente poi la puntualità e la precisione di Stefano nelle riflessioni e ricostruzioni storiche riguardanti le avanguardie italiane della seconda metà del novecento. Un mondo che pochi conoscono così bene ma del quale molti sono (pre)disposti a parlare (male). E mi colpisce leggere Marco e poter così apprezzare anche il suo articolato e variopinto background culturale e teorico, disponendo io così di molti più strumenti per immergermi nella sua produzione letteraria.
grazie
A. Padua
grazie ad Adriano. posto di nuovo il commento, 'mondato' di un paio di refusi antipatici.
RispondiElimina:) M
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caro Stefano,
la mia ipotesi è però che "alcune" morti o defezioni o scomparse (in varia forma) abbiano significato una drastica troppo drastica interruzione del gioco o lavoro di scambi, trasmissione, e costruzione di iniziative, che fino a una certa parte del secondo Novecento aveva assicurato alle scritture in generale - e a un certo tipo di scritture in particolare - una specie di *piattaforma in crescita*, un laboratorio, un ventaglio di strutture anche editoriali (in sintonia con altre voci europee ed extraeuropee), e un collante fra le generazioni. La cesura, sottolineo, è stata più radicale da noi che in altri contesti linguistici.
E in questo non possono non essere chiamati dentro (non come "cause" ma come "zone coestensive" a un certo modo di fare/sentire) anche i climi orfici che si sono attestati a fine anni '70. Ma certo De Angelis in questo non è minimamente in causa; anzi, come giustamente rilevi, è proprio una voce capace di alterità radicale, e un gigante che non può esser fatto rientrare in alcun recinto categoriale semplice.
Un'annotazione concludendo: tanta parte della "poesia civile" di fine anni Settanta è - per il mio gusto e secondo la mia impressione - distante dal nostro discorso. Proprio estranea, forse. Non sto giudicandola. Dico che non mi è possibile vederla incarnare quel filo smarrito di continuità con il lavoro delle avanguardie degli anni precedenti.
Sarebbe stato forse necessario un 'twist', un cambiamento repentino e radicale, nelle forme, negli stili, per mettere il piano degli stessi sul piano di una pertinente osservazione della crudeltà (e banalità del male) che si attestava o riattestava. Cosa che hanno saputo fare autori come Gleize e Silliman, prima, e Tarkos poi. (Parlo delle *forme*: so che noi avevamo il perdurante coraggio anche civile di Fortini, Raboni, Toti, Sanguineti, per dire: ma attraverso quali *forme*, appunto? Torniamo sempre su questo. Torniamo ad un mancato mutamento di clima in Italia. Davvero non mi riesce di sentirlo non omologo di altri mancati mutamenti nella nostra società).
Ringrazio anch'io Adriano (che da tanto non lasciava un commento qui). Credo che per dialogare siano necessarie persone disposte ad ascoltare (in termini di competenze scolastiche siamo al livello 2, ossia al primo biennio delle superiori, ma ovunque sento che questo è un obiettivo mai raggiunto dalla scuola italiana).
RispondiEliminaCaro Marco, apri nuove questioni (la poesia degli anni settanta) e ne rilanci una già messa sul tavolo: il cambiamento di paradigma. ripeto: per me, il cambiamento non sta nella forma, ma nello spostamento dal soggetto forte alla scrittura di un soggetto che si sa spaesato e errante (quindi, anche, in errore, ma fecondamente). un soggetto che tesse relazioni, anche scrivendo, come stiamo facendo ora.
giusto. e meglio lo dirò (quando avrò modo/tempo, prossimamente) sempre su slowforw.
RispondiEliminama aggiungo: quello spostamento del [e coscienza nel] soggetto proietta allo stesso tempo *qualcosa* - di ancora difficilmente afferrabile in/da osservazioni critiche - sulla forma, sulle forme.
in modi e mood o climi testuali percettibili.
in questi anni recenti credo che stiamo vedendo o intravedendo l'emergere di oggetti testuali che sono in realtà assonometrie di altri.
(senza che un 'risalimento' a questi ultimi ci venga comunicato - per adesso - da una geometria; sì da un percorso, un movimento dello sguardo, indugiante, indagante, mosso verso quei testi).
Caro Stefano,
RispondiEliminaho letto l'intervento di Giovenale e la tua risposta. Devo confessarti che
mi sento lontano dai problemi sollevati anche se ammiro la vostra grande
lucidità. Mi sento lontano, non perché non siano problemi importanti e
inerenti alla nostra arte, ma perché fin da giovanissimo (mi permetto di
ricordarti che scrivevo già prima del gruppo '63, al punto d'aver composto
una delle liriche che ancora reputo tra le più dense della mia produzione e
cioè Eclisse (BILICO) scritta in occasione dell'ultima eclissi totale del
secolo visibile dall'italia nel 1961) mi sono sentito un solitario. E quando
son venuti fuori i giovani leoni del gruppo '63, allora ho smesso di
comporre versi, tanta era la distanza che mi separava da quei giovani
ardimentosi. Salvo poi riprendere a scrivere quando poi alla fine degli anni
'70, le cose della poesia piano piano sono tornate più o meno a posto. E
questo, perché non mi sono sentito mai un letterato e men che meno un
intellettuale. Ho semplicemente seguito una strada che sentivo mia e che mi
ha portato a restare fuori da tutte le alchimie o da tutti i gruppi che via
via si son formati durante la seconda metà del secolo. Devo confessarti che
a volte avverto che mi manca un qualcosa, e cioè il panorama più o meno
completo della poesia del secondo Novecento, ma è andata così e senza
rimpianti non ho che accettarmi così. Data anche l'età.
Perciò grande ammirazione ma come da una distanza ben definita anche per la
difficoltà di seguirvi...
Spero che potrai capirmi.
Un caro saluto, e sempre con più convinta ammirazione
Matteo