lunedì 30 aprile 2007

Versi tra le sbarre


Talvolta un'antologia è necessaria. Non a crearci degli amici, non solo per questo. Talvolta un'antologia è necessaria perché diventa condivisione e resistenza, luogo nel quale piantare i piedi per guardare l'orizzonte. In questo caso, per chi ha una storia come la mia, si tratta di un orizzonte mitico, di un mito tuttavia che si è sgretolato con il tempo, con il tempo della storia, con quel succedersi dei fatti che ha valenza documetaria. William Navarrete, cubano in esilio parigino, ha curato questa antologia di "sette uomini straordinari" incarcerati nella primavera del 2003, quando 75 cubani vennero arrestati con l'accusa di opposizione al regime. Racconta Navarrete nella prefazione a Versi tra le sbarre (trad. it. Elisa Montanelli, ed. Il Foglio, 2006, p.95 euro 10,00): "Le 75 vittime del ferreo totalitarismo castrista vennero arrestate, processate per direttissima e condannate ingiustamente fino a 28 anni di carcere per il solo delitto di aver pensato liberamente e di aver fondato associazioni o forze pacifiche di opposizione che si battessero, servendosi della sola arma della parola, contro un regime oscuro, vivo da quattro decenni e capeggiato fin dalle origini dallo stesso dittatore. Fra i condannati c'erano scrittori e non pochi giornalisti indipendenti. E anche poeti."


In un'intervista curata da Gordiano Lupi, vero promotore dell'urgenza cubana in Italia oltre che Editore de Il Foglio, Navarrete spiega com'è riuscito a compilare l'antologia: "Ci sarà sempre un modo di comunicare attraverso la rete, sia con il computer di un amico straniero residente a Cuba o da una sede di un’ambasciata straniera solidale con la causa della dissidenza cubana. È così che è uscita da Cuba la poesia pubblicata ora in questa raccolta. È stato uno sforzo titanico soprattutto per le mogli e le madri dei prigionieri, le quali hanno trascritto, nel poco tempo di connessione che è stato concesso loro da qualche straniero solidale, le poesie degli incarcerati. Indispensabile è stato anche l’impegno di Cubanet, una rete di giornalismo indipendente cubano con sede a Miami, che trascrive continuamente tutto il materiale dissidente proveniente dall’isola."



Dei sette poeti, ho scelto tre poesie di Raùl Rivero Castañeda, il più importante poeta cubano vivente; qui trovate i capi d'imputazione per l'arresto, mentre qui si parla della sua libertà vigilata.


Cella cinque

Non ti videro attraversare
le sbarre con me.
Né il coro delle chiavi
che usurpava la tua musica
alterò la cadenza
dei suoi ritmi fatali.

Qui dove dormiamo
silenziosi e nobili
puniti ed estranei
il lignaggio nell'ombra
sei ancora invisibile
messaggera e messaggio.

Emozione evocata.
È domenica sulla terra
io sono prigioniero
tu, nessuno ti vede
nessuno sa chi sei
dolce, leggera e serena
prigioniera dell'aria.


Alta fedeltà

Si libereranno dal dolore del giradischi
torturato dallo strofinio e dalle punte.
Vivranno casti, lontani dal peccato
di cantare a cappella e con fame
in simulacri ed esibizioni
che i tiranni si regalano come scudi.

Gli uomini che restano a casa
canticchiando boleri
arriveranno alla saggezza.

Felice e serena
sarà per loro e i loro figli questa vita.
Leggera la cenere. Chiara l'eternità.



Mandato di perquisizione


Cosa cercano in casa mia questi signori?
Cosa fa questo ufficiale
che legge il foglio di carta
dove ho scritto
le parole "ambizione", "leggera" e "fragile"?

Quale sospetto di cospirazione
gli insinua la foto senza dedica
di mio padre in guayabera (e papillon nero)
davanti al Campidoglio dell'Avana?

Come interpreta le mie sentenze di divorzio?

Dove lo porteranno le sue tecniche di persecuzione
quando leggerà i miei ottonari
e scoprirà le ferite di guerra
del bisnonno?

Otto poliziotti
esaminano i testi e i disegni delle mie figlie
si insinuano nelle mie reti affettive
e vogliono sapere dove dorme Andreita
e cosa c'entra la sua asma
con le mie cartelle.


Vogliono la chiave di un messaggio di Zucu
e nella parte superiore
di un testo criptico (qui un lieve sorriso trionfale del camerata):
"Castelli con carillon. Non lascio uscire
il bambino con l'Uomo Nero. Compagno".

Arrivò una specialista di interstizi
un critico letterario col grado di capo ad interim
che auscultò con la pistola puntata
i dorsi dei libri di poesia.

Otto poliziotti
in casa mia
con un mandato di perquisizione
un'operazione pulita
una piena vittoria
dell'avanguardia del proletariato
che confiscò la mia macchina da scrivere
centoquarantadue pagine bianche
e un mucchio di fogli tristi e personali
ovvero quanto di più precario
avessi quell'estate.

venerdì 27 aprile 2007

Lina Kostenko


In questi giorni c'è l'anniversario del disastro di Chernobyl. Lina Kostenko ne è stata la più autorevole e critica osservatrice nell'ambito degli intellettuali ucraini, raccontando la vicenda nel romanzo Zona di alienazione e scrivendo la sceneggiatura del film Chernobyl: veglia funebre.


Ci sono poche poesie sue in rete. Ho scelto queste due, che ho cercato di tradurre dal francese, a volte ascoltando i consigli dell'amica Ivana Cenci e talaltra scegliendo altra via.





Steppes

Steppe verte, ni arbre, ni champ.
Steppe azur, ni nuages, ni pigeons.
Un soleil rouge,
lingot encore brûlant,
vogue avec lenteur entre elles.

Et toi, derrière lui
jusqu'au soir vagabondes
Es-tu las ? plonge, renversé dans l'herbe,
puis écoute, écoute,
jusqu'à n'en plus pouvoir
les fleurs de steppe qui, si doucement, respirent.


Steppe

Steppe verdi, né albero né campo
Steppe azzurre, né piccioni né nubi.
Un sole rosso,
lingotto ancor che brucia
voga lento in mezzo a loro.

E tu, dietro ad esso
fino a sera, giri a vuoto
non sei stanco? sosta, riverso nell’erba,
e poi ascolta, ascolta
fino a non poterne più
i fiori della steppa che, dolcemente
respirano.



Le rire

Le rire Dans la rue — je l'entends par la fenêtre —

Une femme éclate d'un rire forcé.

Peut-être est-elle triste, cette femme, mais elle

voudrait Avoir envie de rire.

Et je regarde les rivières des rues obscures

Les têtes des joyeuses lanternes,

Coiffées de petites casquettes de fer blanc,

Et sur le haut appui de ma fenêtre,

Des marronniers offrent des fleurs blanches...

Et je regarde et pense à mes poèmes.

S'ils ont du chagrin — qu'ils soient tristes.

Du moins, qu'ils ne rien pas d'un rire forcé,

Car les gens sincères ferment les fenêtres.


Il riso

Nella strada – lo sento dalla finestra -
Una donna e il suo riso improvviso.
Forse è triste, questa donna o, forse,
Ha solo voglia di ridere.
Io guardo i fiumi di strade scure
Le teste delle lanterne gioiose,
coperte di piccoli caschetti di latta,
e sopra il davanzale della mia finestra,
dei castagni offrono i loro bianchi fiori...
E io guardo e penso alle mie poesie.
Se sono tristi, che lo siano del tutto!
Perlomeno, che non ridano d'improvviso
Poiché la gente sincera chiude le finestre.

giovedì 26 aprile 2007

Nascerà una nuova rivista?


Da un paio di giorni Christian Sinicco su AbsolutePoetry ha lanciato l'idea di una nuova rivista cartacea. Ha invitato alcuni amici bloggers a parteciparvi e già la discussione è accesa. Vi invito a leggere anzitutto, su Absolute, la sua proposta (con i relativi commenti) e, qui sotto, gli interventi rispettivamente di Martino Baldi e di Erminia Passannanti, con replica di Sinicco.


La discussione è aperta.


Martino Baldi (25/04): “Io credo che il progetto di una rivista non può nascere con questi presupposti da grande coalizione. Può essere aperto a molti visioni ma nasce dall'incontro di alcune (relativamente poche) menti affini che immaginano qualcosa di preciso. Non mi convince questa convergenza di tutti verso "una grande rivista" (ci manca che tu dica socialdemocratica e liberale e poi siamo arrivati!). Certamente non ho riserve sui nomi che vedo tra i destinatari, a cui va tutta la mia stima, in particolare a quelli con cui ho avuto il piacere di confermare negli incontri di persona la stima precedente e virtuale. Però c'e' di mezzo anche una questione di affinità e di progettualità che non si misura soltanto con la stima. [...]

Erminia Passannanti (25/04): “Mi pare un discorso sensato, quello di Martino, e dunque lo sottoscrivo: mette in evidenza la inevitabile posizione critica che una redazione di poeti e intellettuali schierati sul fronte di un’azione culturale programmatica precisa (come quella di una rivista) deve necessariamente assumere. Se uno se la fa con chi la pensa come lui/lei, il nucleo redazionale necessariamente si restringe, acquisendo coerenza e compattezza, aspetti che, portati all'eccesso della coerenza e della compattezza, possono risultare potenzialmente anche indesiderabili. [...] Sebbene possa accettare la diversità in campo poetico, estetico, e anzi l'apprezzi molto sul piano stilistico, non vorrei avere in una rivista a cui collaboro testi, pretesti e opinioni che scantonano vistosamente sul piano ideologico dalla linea etica e dalla tradizione politica a cui mi appello. Non vorrei avere persone che ad esempio – per rimanere molto sulle generali - non appoggino il discorso marxista, femminista e ambientalista, e pacifista. non vorrei avere individui ‘politically incorrect’ verso questioni che mi stanno a cuore, che riguardano i gender studies, le riforme del diritto di famiglia,e del codice penale, e via dicendo, e a proposito delle quali credo una redazione debba necessariamente muoversi in modo compatto e coerente. Né soprattutto vorrei interagire con poeti e poetiche che attribuiscano alla poesia e all'intellettuale un ruolo, secondo i miei parametri, sostanzialmente mistificato, che siano incapaci, insomma, di autocritica, e autoironia."


Martino Baldi (26/04): “Non la metterei sull'asse ottica inclusiva / esclusiva, [...] La questione è piuttosto che senso dare alle nostre parole e azioni. Mi sembra che Erminia abbia delineato con grande intelligenza i rischi delle diverse posizioni, per non meritare di riportare la discussione su questa elementare distinzione. [...] Perché non mi scrivi piuttosto una mail così chi la vuol fare una bella rivista laica, scettica, illuminista (e non neopositivista), basata su una interpretazione assolutamente desacralizzata della figura del poeta e dell'arte, interdisciplinare, di qualità ma non specialistica (si può pure dire, non mi vergogno: divulgativa), in cui i nostri ego siano messi in secondo piano rispetto a una generale proposta di leggibilità, che prenda le distanze sia dall'indifferentismo delle grandi coalizioni, sia dalla poetiche teo-con, sia dalle furfanterie editoriali, sia dall'antagonismo per decreto, sia da posizioni intellettualistiche? Chi la vuol fare una rivista che rimetta chiaramente e inderogabilmente al centro la questione dei valori laici, del primato del diritto del lettore piuttosto che il dominio delle poetiche e delle politiche, la pluralità del pubblico piuttosto che la pluralità delle posizioni di partenza?”
Christian Sinicco (26/04) "Per rispondere a Martino, e a quanti hanno giustamente mosso delle critiche: è chiaro che l'articolo è in parte polemico, ma allo stesso tempo un'operazione per vedere quanti rischierebbero, solo di mettere il nome. L'argomento del mettere in comune è essenziale, un sentire diffuso che vuole diffondere la cultura, e ha intenzione di farlo costruendo un dibattito, senza attribuire in partenza a internet il fatto di fondare già una comunità dove tutto è assieme, quando invece la maggior parte dei post esplicitano opzioni personali o di piccoli gruppi. Quindi l'invito richiama una presa di coscienza, sul fatto che tutto sommato non basta essere in rete per essere in comunicazione, e che bisogna fare dei passi, che fatto un passo ne faremo altri, forse più concreti di questa utopicapetizione (penso a ciò che abbiamo meditato al blogmeeting) - ma come sa anche Nacci, quando creammo una petizione per lo Stabile del Friuli Venezia Giulia (assolutamente senza alcuna velleità), costringemmo il Comune di Trieste nella persona del sindaco alla nomina di un presidente, carica vacante da mesi. Voglio semplicemente osservare la disponibilità, poiché per me un luogo di cultura deve potersi fondare attraverso un'ottica inclusiva, e non esclusiva. Quello che ho visto in Croazia, è inclusione, informazione, direzione, dibattito: comunicazione, e ben curata. Così non è qui, non lo è per le riviste cartacee, non lo è sui blog. Mi domando dove voi vediate un dibattito ad esempio, è come se tutto fossero in grandi monadi incapaci di fermarsi, un attimo, e di fare qualcosa l'uno nei confronti dell'altro."

lunedì 23 aprile 2007

Giulia Dalaj Comenduni


Nel 1990 ho vinto ex equo il premio "Poesie 90". Ottima giuria (Majorino, Spaziani, De Angelis, Conte, Cucchi, Abate, Pazzi) e bella soddisfazione. Con me, hanno vinto anche Gilberto Coletto e, appunto, Giulia Dalaj Comenduni, milanese del 1955, che a quel tempo faceva "la portinaia a tempo parziale", come recita la sua scheda. Non l'ho quasi più sentita nominare, se non su "Poesia" (marzo 1991, n.38) e, in rete, perché ha pubblicato una sua poesia su Ti bacio in bocca (Lietocolle 2005). Credo che meriti di essere maggiormente conosciuta, almeno a leggere le poesie che vinsero quel concorso.
La nota critica recitava così: "Nella sua asciuttezza, nella sua nudità, nella sua strana immediatezza questa poesia ha qualcosa di sicuramente autonomo, di "proprio", dunque di non riconducibile a linee e tendenze della poesia d'oggi.
Si tratta di testi brevi o brevissimi, di frammenti spigo­losi, nei quali circolano umori intensi e un'energia non priva di una certa aggressività, con improvvise impennate in immagini che rivelano, nel corpo del linguaggio, una considerevole capacità d'invenzione."


*

Va, percuotendo il marciapiede,
mano, scettro.
E batte.


*

Indugio sull'orlo di un burrone,
mi sorprendo in un doppio abbandono,
meno di un passo ai sogni o alla morte.


*

Ero là in ascolto,
tutt'amore e orrore,
non ricordo l'età,
ma ho consultato il passato
perché mi occupo d'animazione.


*

Ancora i seni cullavano
così brevi battiti
al crepuscolo
che i velieri delle ambasce
sopra i flutti blandivano
l'ambrosia dell'inferno.

sabato 21 aprile 2007

Sandro Sardella


Visto che siamo in argomento, nel medesimo numero di Barbablù, oltre a poesie di Giovanna Sicari, si possono leggere anche quelle di Sandro Sardella (linkato nel titolo), varesino del 1952 e poeta di "superficie", come scrive G. Garancini nella prefazione, ma assai fresco, come in questa Traccia industriale dal titolo Di / pintura operaia.



preferisci lavorare in fabbrica
o preferisci raccogliere le mele ?

preferisci la Mortedison
o preferisci il pane vinilico giallo ?

preferisci fare il primo turno
o preferisci un piatto nebbioso di calamaretti ?

preferisci l'acre odore di metallo
o preferisci portare un grande maglione bianco ?

preferisci fare otto ore
o preferisci andare a teatro dal dottore ?

preferisci avere un capo giovane
o preferisci l'uva sultanina ?

preferisci i dirigenti in coloro cammello
o preferisci un gelato al cioccolato ?

preferisci gli operai sporchi
o preferisci lavare i panni in Arno ?

preferisci la fredda luce al neon
o preferisci un minestrone fumante ?

preferisci gli operai giovani senza storia
o preferisci i manoscritti economico-filosofici di Marx ?

preferisci un discorso sindacale
o preferisci il silenzio di una chiesa ?

preferisci la lotta dura senza paura
o preferisci ogni cosa che lotta per un posto al sole ?

preferisci l'autodistruzione operaia
o preferisci l'evoluzione della specie ?

preferisci fottere
o preferisci essere fottuto ?

preferisci la di/pintura operaia di Sandro Sardella
o preferisci la versione originale di Corrado Levi ?

venerdì 20 aprile 2007

Alberto Cioni


Le poesie che seguono sono tratte dai "Quaderni di Barbablù", il cui n.23 (Siena 1984) è una piccola antologia con poeti sicuramente da segnalare. Per ora vi invito a conoscere Alberto Cioni (Roma 1957), del quale in rete non si trova praticamente nulla. Scrive Attilio Lolini nella prefazione: "Alberto è magro e (ora) una specie di ragazzino invecchiato: dice cose intelligenti, legge libri veri anche se, poi, trova difficoltà a parlarne: nessuno lo ascolta (e questo è bene).
Nonostante la differenza d'età siamo coetanei e, forse, io, più giovane di lui. Quando c'incontriamo il "mondo" delle lettere svanisce, ci scambiamo opinioni banali, convenevoli. Ma, sulla poesia, non ci facciamo alcuna illusione; né sulle riviste letterarie (che, pure, progettiamo), né sui poeti nostri amici. Abbiamo, credo, chiara, l'insensatezza che muove a queste operazioni. Cioni ha scritto una piccola raccolta: Storie!, che a me è parsa bellissima. Una specie di trattato sulla pietà. Anche il poemetto che qui compare è notevole e ne direi volentieri se avessi (ma non ho) l'armamentario del critico e del prefatore."

1.
Non sfiorare
cogli occhi la pianta
degli occhi degli altri,
alla forma dei piedi
ai calzoni tirati
aggrappati pure,
ma con gli occhi non devi
guardare negli occhi
altrimenti
t'accadrà questa storia
3.

Chi non sa
è un giovane curioso
e scruta a fondo
e a fondo è indagato
(come nell'omnibus di Cortazar)
esercizio di quiete e di misura
pura passione umana perché mobile è
lo sguardo (dio guarda felino)
scacciapensieri nelle sale d'attesa,
trastullo nei condotti del metrò, bricolage
dell'infinite soste,
il giovane guarda
con la furia placata degli sguardi
6.

una scuola o riflessione del guardare
poteva, credo,
nascere solo da noi, nell'Occidente.
Se guardo l'altro, l'altro è mio,
se guardo costruisco terreni di nessuno,
espongo la mia tela,
del vuoto divento padrone, dell'altro
divengo suo schiavo.
Altrove — racconta l'amico —
su rotte algerine, scurissimi uomini scuri
setacciano a fondo quel pozzo ch'è l'occhio,
lo sguardo infuocato. Tu credi violenze,
pugnali degli occhi,
non pensi ad altre misure, ad altre durezze,
cristalli.
7.

Perduti fanciullini che cercate
le strade dell'est con travelcheques rubati,
l'Oriente è più vicino, è dentro casa.
Il carabiniere cieco
ha un bisnonno algerino.

mercoledì 18 aprile 2007

La linea del Sillaro


La linea del Sillaro (Campanotto 2006), che "non è un'antologia" come precisano più volte Salvatore Ritrovato e Matteo Fantuzzi, rispettivamente prefatore e curatore del libro, raccoglie alcuni degli ospiti della rassegna Degustare Locale, da tre anni attiva in Castel di San Pietro Terme, domus aurea dell'amico Matteo e crogiuolo nel quale s'è formata questa prima mappatura "del territorio emiliano-romagnolo", senza discriminazioni generazionali e stilistiche. Come infatti sottolinea Ritrovato, "gli autori seguono in ordine alfabetico, non di importanza (se di importanza si può ancora parlare)." E aggiunge: "Ovviamente la qualità dipende dall'autore, sia che pubblichi con un piccolo, con un medio o con un grande editore. Da una rapida scorsa dei testi degli autori qui selezionati, l'unico editore che ricorre tre volte è Garzanti, due volte Book e Donzelli, una volta Aragno, Archinto, Campanotto, Edizioni del Girasole, II Ponte Vecchio, Lietocolle, La Pilotta, La Mandragora, Manni, Marietti, Marsilio, Moby Dick, Raffaelli, ReEnzo." Insomma: il meglio della piccola editoria, a tenere insieme voci "assolutamente lontane ma tali nella loro capacità da non poter non essere ascoltate" (Fantuzzi).
Gli diamo credito, anche se i due amici non fanno poi nulla per sostenere il valore degli autori presentati (Bacchini, Bellosi, Brusa, Camporesi, Fabbri, Lauretano, Lombardo, Massari, Nadiani, Quintavalla, Rentocchini, Riccardi, Serragnoli, Sissa, Teodorani, Vezzali, Zattoni), delegando al lettore la gravezza del compito e fidando sulla notorietà degli stessi. Capita così che questo libro svolga una funzione meramente ricettiva, di registrazione priva di prospettiva critica, malgrado l'intenzione sia anche quella di favorire "l'incontro e il confronto, lo scambio di opinioni, il giudizio". Cosa che avverrebbe con maggior piglio, se qui ci si schierasse maggiormente, anziché avanzare l'ipotesi secondo la quale viviamo "in pieno deserto" con un proliferare di voci discordanti e "un preoccupante squilibrio tra sovrapproduzione e aridità del clima: tutti a morire di sete per la Poesia che non si trova" (Ritrovato).

Io credo che negli autori presentati la poesia ci sia, e così ovviamente credono coloro che hanno seguito (e finanziato) il progetto; appunto per questo, un tentativo di organizzare tale "linea", di scandagliarla, di verificarne la tenuta, sarebbe stato auspicabile, in modo tale che la mappatura non fosse di semplice catalogazione, bensì criticamente orientata e dunque stimolante sotto il profilo del confronto.

lunedì 16 aprile 2007

José Angel Valente

Scomparso nel 2000, José Angel Valente appartiene ai grandi autori della Spagna visionaria, dove corpo femminile e paessaggio si fondono nella luce calda inaugurata dalla poesia di Garcia Lorca. Qui, tuttavia, l'incisione si fa più densa, più scandita, a connotare la luminosa presenza di lei custodita nell'ombra, che il poeta rapisce per inoltrarsi ancor più nella notte. E' un viaggio che capovolge il biancore de La pioggia nel pineto dannunziana, una discesa agli inferi, sulla pelle della Grande Madre, di quel limo che coincide con l'Inzio, con le origini dei viventi e della poesia.



l'alba è il tuo corpo e tutto
il resto appartiene ancora all'ombra.

Le tue ondate lente forzano
l'esile membrana
del risveglio.

Annunci che: non il giorno,
bensì la quieta
durata del battito
nell'ombra matrice.

Ti annunci,
proseguita e continua come
la durata.

Durare, come dura la notte,
come la notte è solo corpo sommerso
della tua visibile luce.



Territorio

Ora entriamo nella penetrazione,
nel rovescio pungente
di ciò che infinitamente si divide.

Entriamo nell'ombra divisa,
nella copula della notte
con il dio che scoppia nelle sue viscere
nella scissione indolore della cellula,
nel rovescio della pupilla,
nell'estremità terminale della materia
o nel suo unico inizio.

Nessuno potrebbe strapparmi ora
al territorio impuro di questo canto
e nessuno ha in questo posto
autorità sul mio sogno.
Né dio né uomo.

Viene da sola dalla notte la notte,
come dalla durata l'interminabile,
come dalla parola il labirinto
che in essa trova l'entrata e l'uscita
e come dall'informe viene fino alla luce
il limo originale del vivente.

(trad. A. Ghignoli)

sabato 14 aprile 2007

Emergency




Lasciate Vivere la Tenerezza!




Le ragazze che passano nel tramonto
prima di scomparire nella notte
le graziose di vento e sorrisi
custodiscono un segreto fra i capelli
una parola lieve il frammento
di uno specchio sono la trasparenza
in cui riposa il giorno l’attimo
sospeso che dice della semplicità
del mondo solo che volessimo
cogliere l’armonia che il loro
fianco ci dona quando passano
le ragazze nel tramonto
camminando sottili incontro alle stelle







Lasciate che Emergency viva


Giulio Stocchi
Deborah Strozier

venerdì 13 aprile 2007

Jolanda Insana


Scrive Ciro Vitiello nell'Antologia della poesia italiana contemporanea (tullio pironti editore 2003) a proposito della Insana: "II linguaggio nell'atto di aggregarsi viene gestito dal pensiero che guida il fluire delle idee, delle immagini e delle forme o nel rigore della regola o in sciolta libertà. Agendo in origine il pensiero, questo si fa dominatore della creatività, inventa la realtà o trasforma quella che cade sotto gli occhi. Vedere e pensare sono enti diversi, pure sempre il pensare precede, ed è, leopardianamente, la finzione in virtù della quale lo sguardo mentale può rendere l'opaco trasparente, il vuoto agibile e visibile. In questa prospezione mentale sembra situarsi la poesia di Jolanda Insana, la cui matrice strumentale (di poetica abbondantemente espressa nelle opere) costituisce il fondamento di un processo formativo il cui connettivo linguistico ha uno spessore cogitativo.
[...] La scrittura ha un'andatura atonale, aritmica, antilirica, tipicamente modulata sulla tenuta del pensiero libero da vin­coli normativi. La forma poematica rende più coerente e compatto il tra­scorrere del discorso, pendente tra l'elegiaco e il narrativo pausato, in una versificazione dalle lunghe arcate. Spesso il poeta indugia a "mor­dere" il linguaggio, a riconnotarne la fisionomia, o gioca insistentemen­te per ricavare dalla parola deturpata o dilatata una virtuosa imitazione di un possibile incardinamento di quello che potrebbe divenire il vero (perché non lo è in sé)."


Da LA CLAUSURA

La parabola del cuore

vedo nel vuoto dove piove chiara salute e mi svuoto del superfluo
di presenze specchiandomi nella palla di cristallo
il tumulto è grande e non mi lasciano uscire
ma per chi parte reggono i muri e si fanno più arditi
ardendo in spazi più spazi
nel vuoto più vuoto dei trenta metri quadrati
serrati dalle grate

rinchiavardo l'unica porta e così è impossibile rientrare
a scaldare i lunghissimi piedi dalle belle dita irregolari
dentro il camino
e vedere quanto resiste e dura la camera di combustione
rinfocolata con l'arte che sai
e mi dispiace per te

sono qui e dici no all'abbraccio ammagatore
perché non vuoi che si veda quanto poco si ragguaglia la misura
ma io posso testimoniare che non fu illusione e la vista
durò aguzza per due notti
poi la visione per più di un mese e ora nell'addiaccio
l'estasi perde in levatura e stramazza in stasi

si prega di non abbandonare rifiuti
si legge sul sentiero che dalla spiaggia porta alla tua quarta casa
covo di cazzarne e straglio
bastardo e randa

l'empito per entrambi è rimesso in discussione
e la prima volta è sempre l'ultima
ma se esce pari vinco
e se esce dispari perdi

non riesco a riacciuffare il tuttocorpo effuso
dalla clausura della parlata monca e nel rintocco
del sangue il lutto è defraudato
ma quando dico di queste cose è di un'altra che parlo
di un'altra che finge di non parlare

so che per la consuetudine che hai di scozzare contro scogli
meno di un sughero pesi l'asino del sogno
al riparo di naufragi e dunque aspetto che la vela
approdi a riva perché calato il vento me ne torni alla mia stiva

fermamente risoluta a non tirare corde

offesa non ho che contemplarmi nella prima fenditura
riascoltando l'eco dell'ultima domanda
- io ti ho dato questa clausura e tu cosa puoi darmi tu? (...)



Jolanda Insana è nata nel 1937 a Messina, dove si è laureata con una tesi sulla Letteratura Greca. Dal 1968 vive a Roma. Ha tradotto Poesie di Saffo (Estro, 1985), Carmina Priapea (SE 1991), De Amore di Andrea Cappellano (SE, 1992) e per il teatro la Casina di Plauto e Le Fenicie di Euripide. In riviste e antologie ha pubblicato traduzioni di Alceo, Anacreonte, Ipponatte, Callimaco, Lucrezio, Marziale. Ha vinto il Premio Viareggio per la poesia con La stortura.
Ha pubblicato: Sciarra amara (1977) Fendenti fonici (1982) Il colluttano (1985) La clausura (1987) Medicina carnale (1994) L'occhio dormiente (1997), La stortura (2002), La tagliola del disamore (2005)

giovedì 12 aprile 2007

sui blogmeeting


In questo post segnalo un paio di uscite che mi riguardano. Su Tellusfolio riprendo la questione rete-bloggers-autorevolezza così com'è emersa al BlogMeeting di Monfalcone, collegandola con quanto discusso a Macerata e a Foggia nel 2006.


Invito poi a leggere quanto scrive Erminia Daeder a proposito de La distanza immedicata.

lunedì 9 aprile 2007

Tiziano Salari


Questi inediti di Salari, scritti tra l’ottobre 2005 e il giugno 2006, proseguono il suo viaggio alla ricerca del senso dell'essere, fra castità e terrore, fra la libertà sovrumana del divino e l’improvviso squarcio di luce nel cupo abitare terrestre. Attraverso una poesia che condensa l’astrazione in figure, Salari ci accompagna fra le fresche radure della Primavera leopardiana dove “ninfe… castissime” si bagnano nell'ora di Pan, in quel meriggio che è massima luce ma anche prossimità, per gli umani, con l'improvviso della morte. Eppure, sembra egli suggerirci, la morte non può essere l’ultimo viaggio, se davvero a muoverci è “la nostra disponibilità risorgente”, il solidale moto della vita verso “la piega verde” delle cose e la memoria (fra i moderni, foscoliana) dei defunti. Che cosa spinge infatti l’uomo a conservare traccia dei viventi e a sperare l’altezza, malgrado la storia sia un percorso disseminato di macerie, se non una sorta di energia sovrumana, che ci governa - o, meglio ancora e secondo la prospettiva spinoziana - alla quale siamo consegnati? Come il bambino freudiano supera il lutto per la perdita della madre (invero solo momentaneamente assente ma, per lui, perduta per sempre), gettando e riavvolgendo un rocchetto, così il poeta aduna a sé il paesaggio, ordinando nella scrittura i “campanili e i battelli oscillanti nella nebbia”, per "l'inganno consueto", direbbe Montale, un inganno necessario, tuttavia, a patto che la pienezza del mondo sensibile trovi nell’“oblio”, nel vuoto, nel "grande nulla" (utero e patria in Dino Campana) il suo compagno nuziale. Mi sembra stia in questo vorticare assediante di felicità e angoscia, di eros e thanatos, di comunione e solitudine la formula (tragica) salariana alla comprensione dell’essere, in un misto di gratitudine e incredulità.


da Il fruscio dell’essere
sez. omonima

8

quello che un poeta
finge a l’occhio
interiore, le ninfe
ai prati nelle castissime
abluzioni, oppure
Narciso evocato
alla fonte del terrore



11

e l’invisibile,
sfiorando l’ala
della collina, nel bianco
tumulto di un
assedio vorticando,
appare, dispare
la piega verde
la radura
della felicità



16

e si dovrebbe non credere alla morte
come all’estrema forma di esistere,
obliando le pungenti ansie ricurve,
e la costellazione dei nomi defunti,
la nostra disponibilità risorgente
a raccogliere il sasso caduto,
nel vento sottile dell’autunno
chiedendo alla dorata luce di resistere


18

essere bilingue, multilingue,
disorientato e
straniero nella propria lingua
in una sola lingua sradicato,
e su ciò, di cui si va parlando,
nonostante l’indicibile
nella notte di buio senza fondo
odore di neve e calicantus


dalla sezione –Due cani

FESTE DI SCRITTURA

come un bambino arrabbiato scaglia in terra il suo giocattolo
e poi lo richiama per controllare l'angoscia,
e nell'alto del seggiolone trascorre i giorni nebbiosi da re,
ma ricchi di godimento quando succhia il seno materno,
il latte puro fornito sontuosamente dalla montata lattea,
e lei sorride estatica componendo il quadro Madonna con Bambino,
nel tempo carico di terrore in cui tra l'essere e il non essere
il confine è leggero e l'Ombra si stende sulle tenere membra
dell'infante usurpatore, già Edipo e assassino del padre
prima di saperlo,

così egli allestisce feste di scrittura
pallida con la mano tremante
nel paese che ha d’intorno un lago di viola
e l’angoscia preme ai confini coi tratti di una scure
legata a un dito col filo dei campanili e i battelli
oscillanti nella nebbia pungono il desiderio di penetrante
memoria nella disfatta primavera di un corpo
nel gorgo del malessere necessario per intingere
nel calamo il vino della memoria e dell’oblio



LE MUSE VELATE

e la piaga velata del riconoscere
intanto che le Muse sfioriscono
i travestimenti del limite, la nebbia
fittissima che avvolge il prevedibile,
fino alla vertigine del distacco, all’accenno
di sfacelo
un giorno di totale ammassamento
cederà al fato e potrà dire lutto
e gioia significavano le lacrime
nei laghi di silenzio brunito

districa il nodo della perplessità
dirimendo i palliativi e le levità
gli inconfessati limiti
che ingombrano la via al Tutto
quando intuitivamente notturna febbre
lacera le maglie
e il disvelamento nutre di sé
nebbiosamente gli orli del sentire
nel tempo voltato
all’indietro per screpolare il futuro

e freddo: specchio alla mente:
intanto che i nomi si sfaldano
in una continua conversione,
questo disloca, l’infinito
trasmutare del senso
precluso, dilapidato
tutto
nel gremito reliquiario


Tiziano Salari (1938), saggista e poeta, vive a Verbania, sul Lago Maggiore.. Tra i suoi libri: per la poesia, Grosseteste e altro (1983), Alle sorgenti della Manque (1995), Strategie mobili (2000), Il Pellegrino Babelico (Premio Montano 2001) Versus (2003), Quotidianità della fine (Premio “Capoverso”,”Città di Bisignano” 2004); per la saggistica, Il grande nulla (1998), Le asine di Saul, 2004, Il grido del vetraio (in collaborazione con Mario Fresa, postfazione di Flavio Ermini), 2005, Sotto il vulcano. Studi su Leopardi e altro (2005). Ha pubblicato su varie riviste saggi su la poesia di Antonia Pozzi, Vittorio Sereni, Cristina Campo, Federico Tozzi, Giorgio Caproni, e ha approfondito particolarmente il rapporto tra poesia e metropoli con saggi su Pietroburgo, Manhattan, Trieste, Torino, Milano, Venezia. Sul sito http://www.fogliospinoziano.it/ si trovano alcuni suoi scritti dedicati al filosofo olandese.

domenica 8 aprile 2007

Buona Pasqua Zanzottiana

Così nel disagio del prato nell'oscuro del bosco
quasi sfrangiato scaduto male
o anche, al tramonto, animale
appello, richiesta di riconoscimento -

da sterilizzanti lunazioni e stonature
ritorno quasi affettuoso nell'oscuro
risarcimento dell'odore, nel lurido
del nido - noi scuotendo il capo - nostro umile:

forse entro abissi di bacche e fogliami superstite
prodursi in voto e profitto umano
d'oscuro da reinvestire in leggi
strappate-in-su, al reversibile, tendini

(e tu fuori mano annuisci povera bastarda folla,
entropie in barcollare riarso/oscuro, infittirsi di spettri
e strette nel bario, tiraemolla
di abitudini somme ed inani, d'invenzioni decrepite).

Dove valse cibarsi di fragole e lamponi, citando
citando la verità, dove delle ciliegie emersero i nòccioli
come pietredure nell'alone oscuro, evocando dal bando
del nottegiornoniente i più equivoci boccioli -

vedervi con uguale sgomento con uguale assenso
rinnovato in bianco, privo di riserva;
sentirvi, _ ā _ ē vicine come l'erba -->
oscuro del prato dove perii, dove perirò/sorgerò.

venerdì 6 aprile 2007

cellulari a scuola


A proposito dell'immagine maledetta degli adolescenti che infestano le scuole italiane, secondo l'ottica, povera, dei media e di molti politici italiani, io chiedo anzitutto ai proff.:
- Proibendo l'uso del telefonino in classe, deresponsabilizziamo gli adolescenti, evitando tra l'altro di chiederci come mai, durante le lezioni, i ragazzi hanno meglio da fare che ascoltarci? Forse le nostre lezioni sono noiose o, peggio, inutili sotto il profilo educativo e/o conoscitivo?
- In ogni caso, proibirlo tout court in tutto lo spazio scolastico non rientra nella generale fascistizzazione della scuola, dove, all'esempio, si preferisce il divieto?
- Perché poi, i proff, li usano lo stesso nel medesimo edificio? (ciò vale anche per le sigarette). l'autorità non concide con l'autorevolezza, anzi: più cresce la prima, meno impegno c'è per realizzare la seconda.
- Perché non cominciamo ad interrogarci su che cosa vogliono dirci i ragazzi quando mettono in piazza i nostri panni sporchi? E ancora: a chi si rivolgono?

- Chi ci guadagna a scaricare il processo educativo e formativo degli adolescenti tutto sulla scuola? Ma almeno, su questo punto, siamo tutti d'accordo;
- La paura per l'uso a videocamera del cellulare nasconde il nostro umanistico disprezzo e la nostra incompetenza per la tecnologia?
- Quanto pesa, nel bullismo, la depressione in cui vivono i ragazzi, dovuto spesso a famiglie in cui ciascun adulto ha in mente soltanto la professione?
- E quanto pesano, nel bullismo, i miti della civiltà dello spettacolo, che vengono assorbiti acriticamente dai ragazzi proprio perché in cerca di un'identità vincente?
- infine: perché stiamo zitti di fronte a tanto sfacelo?
- E aggiungo: chiaro che la svogliatezza e la sciatteria di alcuni (molti?) nostri colleghi e dei nostri parlamentari (di cui vediamo, per fortuna, l'operato attraverso l'occhio crudo della TV) sono legatissime al comportamento incivile dei nostri studenti; e chiaro che i messaggi mass-mediali quasi esclusivamente mirati a formare clienti ed elettori toglie ai ragazzi il pane per crescere bene.

mercoledì 4 aprile 2007

Gëzim Hajdari


Terzo incontro con la poesia albanese (a Cura di Anila Resuli)


Gëzim Hajdari è nato nel 1957 a Lushnje (Albania), si è laureato in Lettere Albanesi a Elbasan e in Lettere Moderne alla Sapienza di Roma. Nel 1990, dopo ben cinque anni di censura, pubblica la sua prima raccolta di poesie dal titolo Antologia della pioggia, edita dalla casa editrice N. Frasheri, con sede a Tirana. Anche il suo secondo libro Il diario del bosco subisce la stessa sorte da parte dei “censori”, ma questa volta non verrà mai pubblicato. Nel 1991 fonda con altri intellettuali il giornale “Il momento della parola” di cui diventa vice direttore. Nello stesso tempo collabora al giornale nazionale “Republika” e insegna letteratura nel liceo scientifico della sua città. Nel 1992 è costretto a lasciare il proprio paese. Da quell’anno vive come esule in Italia, nella città di Frosinone. Attualmente è considerato tra i migliori poeti viventi. Ha vinto diversi premi di poesia, tra cui il prestigioso “Premio Montale” per la poesia inedita. Le sue poesie sono tradotte in greco e in inglese. Hajdari scrive sia in albanese che in italiano, rinnovando un’antica tradizione di poeti (da Seneca fino a Keats, Nabokov, Yeats, Celan) che hanno scritto nella lingua del paese ospitante. Temi ricorrenti nella sua poetica sono la solitudine (condizione esistenziale quasi catartica), il viaggio (come esule, ma anche come essere umano) ed elementi naturali come la pietra, la terra, il cielo.
Tra le opere, oltre quella citata, ricordiamo: Muzungu. Diario in nero, Poema dell'esilio-Poema e mërgimit, Spine nere, Stigmate - Vrage

Da Stigmate/Vragë

*
Quanto siamo poveri

io in Italia vivo alla giornata

tu in Lushnje non riesci a bere un caffè nero

la nostra colpa: amiamo la terra

la nostra condanna: vivere soli divisi dall'acqua buia


ritornerò in autunno come Costantino

mentre sulle colline natali tu già hai raccolto l'origano

da portare nella mia stanza ancora sgombra

ora vivo al posto di me stesso

lontano da un paese che divora i propri figli


*

Ho girato su e giù per le strade di Roma

per vendere il mio Corpo Presente

è l'ultimo giorno dell'anno santo

come posso giungere a festeggiare con te dopo otto inverni

in Occidente

il viaggio costa venti volte il prezzo del mio libro di poesie

e nei tuoi occhi la mia assenza diventa più profonda

sulle tue labbra secche il mio nome è pronunciato più spesso

alti sono i muri d'acqua che ci dividono

e sotto le loro ombre cresce spaventata la nostra vita


*

I tuoi poeti cantano ai tiranni
perché i tiranni li affascinano
non sono uomini liberi i tuoi poeti
i tuoi poeti non vogliono morire da poeti
con umiltà di cane accanto ai propri tiranni
cercano di dividere il grande Vuoto con confini
e brindare sotto le ombre delle bandiere
i tuoi poeti non hanno sete d’amore
ma d’acquavite
chiusi nei piccoli cieli
lasciano che si laceri la Parola



*

Fiume tu devi raccontare che sono stato anch’io come
il grano del campo la rosa canina del bosco oscuro
ho vissuto come te sempre con addosso la roba umida
affamato di esistenza incantato dal girasole
in un secolo in cui la gente
camminava guardando per terra
ho trascorso da solo sere di pioggia tagliente
dietro vetri bagnati
con il pensiero di creare con il coltello di ieri
un’altra patria di pietra
nel mio corpo tremante dell’est



*

E’ scritto che non avrò mai un punto fermo
né una porta da varcare sera e mattina
né una soglia dove poggiarmi con la mia follia
quanto ho sognato che qualcuno mi svegliasse di buon’ora
mi accompagnasse con lo sguardo alla partenza
e mi aspettasse con impazienza al rientro dall’immenso
mai un dolce sussurro all’orecchio
da piccolo mio padre mi mordeva la testa
quando perdevo una pecora al pascolo
dormivo nel pagliaio la notte
chi veglierà su di me un giorno in mezzo
alla stanza sgombra
chi mi butterà un pugno di terra fresca
chi scriverà sulla mia pietra grezza due parole semplici
chi dirà per me una preghiera dopo l’addio
con me sempre in sibilo del vento dei viaggi
e l’insicurezza dell’indomani
perché sono nato? perché sono vissuto? perché ho cantato?
i miei laggiù se ne fregano dei miei libri
da me aspettano solo belle macchine e milioni!
brutta sorte la mia, terribile la pena:
fuori da te e dalla tua lingua



La poesia di Gëzim Hajdari nasce come poesia dell’esilio: tutta la condizione umana ruota intorno alle radici in un miscuglio forte di metafore e simboli. Non vi è felicità o consolazione in questa condizione, ma rabbia fitta e densa che parte già dalla terra natale con la persecuzione del poeta stesso come Intellettuale nella propria terra, e Intellettuale in esilio, come portare della cruda verità sulla “condizione” dei poeti/intellettuali in patria. La poesia quindi denuncia un’insoddisfazione, un peso gravoso che accompagna il poeta durante ogni pensiero della giornata, sulla vita, sulle cose e sulle persone che frequenta ogni giorno. I volti quindi diventano delle richieste di risposte, delle domande continue su quello che l’esilio lo portò a lasciare. Anche l’amata è vista come il confine tra patria ed esilio: la sorte è una pena, un’attesa continua di qualcosa che mai verrà restituito. Come poeta si sente di denunciare il vero, come uomo si lascia sgretolare i nervi, i sentimenti e il cuore in un abisso di “non-speranza”. Nemmeno l’amore quindi può consolare. Persino la morte sembra un ulteriore esilio dove nessuno sarà presente, dove la propria gente nemmeno riconoscerà il poeta, l’uomo stesso. Naturale quindi il porsi la domanda “perché sono nato?”: il negare l’esistenza stessa è quindi meglio che vivere senza esistere nel cuore di chi l’ha visto crescere, la propria terra.

domenica 1 aprile 2007

Aldo Ferraris


Il nuovo libro di Aldo Ferraris, Danza di nascite (Azimut 2006) mette in scena l'archetipo junghiano dell'Anima, ossia quell'"eterno femmineo" che abita la psiche maschile e che in Ferraris si organizza secondo una costellazione ispirata al mito di Eurinome e di Demetra (figura che egli scinde in quelle di Kore, Persefone ed Ecate).

Le poesie che seguono cantano la danza "selvaggia e sensuale" di Eurinome, che sedurrà Ofione, "il grande serpente nato dal vento del nord", tanto da spingerlo a fecondare la dea, la quale, trasformatasi in bianca colomba, partorirà infine l'uovo cosmico (argomento di cui abbiamo parlato nel post del 22 febbraio).

Si tratta di una lettura non del tutto condivisa dagli storici delle religioni, ma certo affascinante, rinviando essa al mito della Grande Madre e a quella, implicita nell'archetipo dell'Anima adottato da Ferraris, dell'eroe.
Danza di nascite è un libro maturo, che consiglio vivamente.



I

Volteggia sul paesaggio il tuo mantello di pioggia
disegna anche e spalle di fioriture ingorde ma
l'elsa di ogni goccia nasconde una mano esperta
il pugno senza unghie della tua violenta bellezza.


IV

Di continuo falchi alzano il loro volo per nutrirti
e anellidi ermafroditi scompongono la tua pazienza,
agli estremi ti raggomitoli come in danze magnetiche
affilando la lama sul cuoio teso tra due precipizi gemelli.


V

L'insetto che regola lo spazio oltre l'unghia della talpa
ignora i mutamenti che l'hanno reso padrone e nocchiero
ignora la pressione dello sguardo che separa le tue ere
e lo spinge nelle stagioni come un pollice di seme.


VII

Si deforma la luce al passaggio del tuo esercito nano
si sbriciola in alba come calpestata da corvi senza pace,
piccole fiamme attenuano la penitenza del tuo gioco
inseguono l'ultima ombra fuggiasca sino ai bordi del sole.


XI

Accudisci una quinta stagione nel solco dei tuoi seni
la nutri pescando nel nulla che separa acqua e cielo
la proteggi dall'odio di un nome non ancora pronunciato
un nome dalle vocali come aghi di silenzio nella gola.