lunedì 26 novembre 2012

Serve leggere ai poeti?



Nel post precedente si ragionava, en passant, sulla relazione lettura-scrittura. O meglio: sull'importanza della lettura per chi voglia cimentarsi con la poesia. Riprendo l'assunto da un libro di Daniele Barbieri, Il linguaggio della poesia (Bompiani, 2011). In breve: la scelta del linguaggio quotidiano dei Crepuscolari si comprende solamente dal confronto con il preziosismo dannunziano. La bufera dei futuristi apre una terza via, "irriverente" dice Barbieri a pagina 157, che si smarca dalle due precedenti, che le nega, in nome del presente, non più languido, ma energico, elettrizzante. "Ogni passaggio – scrive poco più in là – ha ridefinito la norma". Tesi convincente, che appunto presuppone consapevolezza: scrivere del quotidiano, oggi, non ha infatti la stessa valenza di quando lo faceva Gozzano. Tanto più dopo gli studi francofortesi sul rapporto tra linguaggio e ideologia e la pratica che ne ha fatto la neoavanguardia italiana. La lettura aiuta a capire questa complessità. Insegna a essere prudenti quando usiamo la lingua, e non soltanto per la nota ragione secondo cui è lei, piuttosto che noi, a parlare; dobbiamo essere prudenti perché esiste una tradizione autorevole, un canone, che condiziona il senso di ogni parola che scegliamo (e dalla quale, in parte, siamo scelti). Canone, ossia poesie che sono il meglio che ha prodotto una generazione. E di generazioni, da Dante a oggi, ne sono passate parecchie. Se diciamo "amore" dobbiamo sapere come lo pronunciano Petrarca e Tasso e Leopardi e Foscolo e Pascoli e D'Annunzio eccetera. Un eccetera che arriva a De Angelis e a Mariangela Gualtieri. E a tanti altri, come ben sa chi legge.

Tuttavia la conoscenza non fa nulla di nuovo. La conoscenza mette ordine all'esistente, aiuta a vivere. Fa del lettore, un buon lettore. La poesia buona la scrive invece chi ha talento. Ma chi ha solo talento, al massimo fa i fuochi d'artificio, va a capo con grande intuizione, indovina qualche metafora. Anche chi ha talento deve sapere che la bellezza della lingua è un fatto culturale, che passa per il sublime e l'antisublime, per la rarefazione celeste e l'orrido, per la forma e per l'informe, come ben dice Rimbaud nel 1871. La lettura aiuta a districarci in questo labirinto; il talento a fare il salto nello spazio bianco della pagina per dare vita a qualcosa che vale la pena di leggere.

Qualcuno potrebbe obiettare: ma chi stabilisce le gerarchie del talento? Rispondo: vogliamo dire che Dante non aveva talento? che Leopardi poteva fare l'idraulico? Che Sanguineti è stato solo un docente coltissimo che ci ha abbindolato con i suoi coup de théâtre? Scommetto che su Sanguineti il dubbio qualcuno lo avanzerà. Anche in quel caso occorreranno parecchi libri per fondare l'obiezione, che dovrà nascere dal confronto con quanto si scriveva alla metà degli anni cinquanta e agli inizi degli anni settanta, due momenti decisivi della storia poetica italiana. La sua scrittura ha senso se contestualizzata con quelle precise tensioni storiche e letterarie. Non si fonda in esse, ma è capace di lasciarle essere nelle sue crepe. In altre parole, ha dovuto immergersi in esse, conoscerle e farne esperienza, prima di prendere la parola. Il talento, poi, ne ha indirizzato la forma, che non è contenitore, non lo è mai, bensì bordo estremo di un sistema tensivo in cui l'autore, ciascun autore, al tempo stesso si riconosce e si disconosce. L'insoddisfazione per la propria opera e il desiderio di riformarla, nascono da qui.


martedì 20 novembre 2012

Ma scherziamo?



Vi siete accorti dell'incredibile salto nell'Europa che ha fatto Sanguineti con Laborintus? E del modo straordinario in cui poi ha coniugato la deriva storica con quella personale negli anni Settanta? E della Ragazza Carla, che ne dite? L'avete letta? Avete colto la complessità del poemetto di Sereni Un posto di vacanza? Tornare alla semplicità? Sì, forse, ma con le nevrosi di Saba e Penna, con la montagna di libri sulle spalle di Caproni. E Zanzotto? Pare che non abbia epigoni oggi.

Non è facile scrivere dopo questo cimitero portentoso? Beh, allora, si smetta o resti tutto nel vostro cassetto, ma non mi si dica: "questa è poesia" perché si sta offendendo il pensiero luminoso di una tradizione che probabilmente non conoscete. Oppure siete troppo presuntuosi per non sentirne la grandezza e non vi accorgete che i vostri versi sono acqua stagna, cispe, escrescenze per dermatologi, macchie da mettere in candeggina. E a voi che siete un passo più avanti, dico di avere l'umiltà, ma soprattutto l'ostinazione per cercare, senza sedervi soddisfatti alla prima rima ben riuscita e dirvi poeti soltanto perché avete vinto un premio. Ma dov'è il tormento, l'insoddisfatta febbre che tiene viva la voce? Comunque sappiate che non si è mai poeti, non lo si è mai abbastanza. E alla fine di ogni testo, non lo si è più, sino al prossimo, se viene. 

giovedì 15 novembre 2012

Matteo Bianchi




Gli "schiocchi di merlo" montaliani diventano Fischi di merlo nell'omonimo libro di Matteo Bianchi, e la parola da chiedere ai poeti, sempre sotto l'ala degli Ossi, si coniuga alla prima persona singolare: "Codesto solo oggi / riesco a dirti / e macchiato di realtà, / corrotto forse, / o meglio, distorto: / non so chi mai / mi cercherà / prima di rovistare / in qualche sillaba acerba."

Malgrado un citazionismo colto, con Saba, Ungatetti, Pascoli, Raboni, Verga disseminati nei versi brevi, il limite di questo libro sta proprio nell'acerbo che si respira di tanto in tanto. Certo l'età ha la sua parte in tutto questo (Matteo è nato nel 1987), circostanza che lo porta a raccontarsi usando una poesia dal forte impatto comunicativo, ma rinunciando sia alla ricerca stilistica – possibile anche nella linea sabiana, come dimostrano alcuni poeti nati negli anni Settanta e Ottanta – e sia all'azzardo che, alla sua età, ci si aspetta quando si dice amore. Specie se tormentato. Il fatto è che questo giovane poeta ferrarese è un moderato per scelta, un bravo ragazzo che pensa alla poesia come un luogo carico di nostalgie, dal quale lanciare messaggi (molti infatti i testi con dedica). La preoccupazione comunicativa costringe l'elemento tensivo ad acquietarsi in un ritmo regolare, immersivo, al fine di essere compreso. Non c'è nulla di male in tutto questo, ma certo risulta assai innocuo rispetto alle lacerazioni che stiamo vivendo. E che un lettore attento si aspetta dalla poesia, per andarla a cercare. Non bastano le sillabe acerbe o i fischi di merlo per chiedere udienza in un panorama poetico ricco come quello italiano; si pensi, per restare nell'area generazionale, a come piantano il coltello nelle contraddizioni della loro città Nader Ghazvinizadeh e Roberta Sireno, parlando di Bologna.

Più convincenti mi sembrano i suoi lampi definitori, gli improvvisi in cui l'identità si dà scacco, ma senza troppo piangersi addosso: "Sono beato / tutto sommato / di questa calda / tacita oscurità" oppure "Non c'è sollievo / a questa nostra fine // Entrambi saremo / almeno tutt'uno / con i nostri / disincantati / secondo fini". Quello che da lettore chiedo a Matteo è che la sua parte animale, quel lupo che ciascuno nasconde, come scrive a pagina 16, finalmente prenda la parola per dialogare con la sua intelligenza, così da forgiare strutture snelle in cui labirinto e passione, letture e selva siano amalgamate dallo stile. Colloquiale, certo, ma come di voce che cammina sui carboni ardenti.


Molto diversa è la lettura di Mario Specchio (1946-2012), che insegnò Lingua e letteratura Tedesca all'Università di Urbino e Siena.


«Non sono accattivanti queste poesie di Matteo Bianchi, al contrario. Graffiano con la precisione di un diamante la cui luce trascorre sulle cose prima di ab­bagliare gli occhi di chi le guarda. C'è una saggezza amara e antica in questo giovane poeta che sembra aver diluito il futuro prima ancora di averlo vissuto e mostra la maturità di cui parlava Mauriac quando scriveva che si ha l'età delle proprie sofferenze. Matteo Bianchi ha introiettato la lezione di Montale e gli "schiocchi di merli" del poeta ligure sono divenuti 'fischi', suoni prossi­mi alla vocalità eppure sempre trattenuti in un al di qua della coscienza dove la città e le sue strade sospese in una magia dimessa, gli amici e gli amori, i ri­cordi e i presagi parlano solo quando tutto è stato detto e le parole sono chia­mate a testimoniare, attraverso un gioco di echi e di rimandi analogici, ciò che resta di quel silenzio: "Ciascuno nasconde un lupo / che schiva la vista altrui / e si ripara alla penembra, / nell'armonia dei sensi bui." È questa dimensio­ne 'notturna' che colpisce in queste liriche, ma proprio perché il buio non ar­riva mai ad annullare la luce bensì ne rende più perspicua la trasparenza: "Si impara a masticare / pure la polvere lunare: / il peso dei sogni caduti." Matteo Bianchi si è sottoposto ad un duro e periglioso apprendistato, quello che pren­de le mosse dal segno meno, dal negativo della vita e della storia e lo ha fatto con determinazione e consapevolezza. Consapevolezza anche di possedere strumenti espressivi già straordinariamente affinati e resi lucidi da una sa­piente miscelazione di passione e rigore entro cui la sordità della vita e il cru­dele arbitrio della morte si annunciano minacciosi, ma altrettanto vigorosa è la difesa apprestata dalle parole, una corazza morbida come la pelle e resi­stente come cristallo di rocca, "ma la mia pelle sarà dura / la mia pelle sarà di ghiaccio."»


Per chi volesse farsi un'idea personale, l'ottima occasione è a portata di mano: martedì 20 novembre, al Bistrot di Venezia, il libro sarà presentato da Paolo Ruffilli, editore e notissimo poeta. 




da Fischi di merlo (Edizioni del Leone, 2011)



I merli si prendono gioco del mio quartiere
cantando prima ancora che albeggi.
Risparmiano a chi dorme di sasso
lo sconto duro della sveglia
e dei sogni remoti,
difficili da riportare alla mente:
sono spasmi del cuore
da lasciare intorno agli occhi,
fuori dal quadrante.
Meglio un fischio di festa,
conscio però del suo tentativo
di volare oltre ai balconi di panno,
prima che riparta il giorno;
come al disco in vinile manca una nota
o la ruota non si adatta alla strada,
così la penna alla carta,
alla schiena del merlo,
rovente si stacca.



**


Semmai incerto,
hai avuto fortuna
qualcuno ti cercasse,
prima di ascoltarti
sugli scabri scalini
di troppe lune passate
ad indagare
il tuo limite disperso.

Codesto solo oggi
riesco a dirti
e macchiato di realtà,
corrotto forse,
o meglio, distorto:
non so chi mai
mi cercherà
prima di rovistare
in qualche sillaba acerba.
Scrivo per me,
anzi, per quello migliore
che ha partecipato
sin da principio
meno degli altri
e tu sapevi bene
quanto invece conterà;
quello che sta dietro
le quinte dell’animo
e tira il fiato per noi:
serba per te, per l’altro,
per tutti i figuranti
e solo, infine, per sé
un mestolo di ambrosia
e di nettare pulito
dalla fragile accozzaglia
che ci è davanti.



**


Ciascuno nasconde un lupo
che schiva la vista altrui
e si ripara alla penombra,
nell’armonia dei sensi bui;
ma quando appare la luna
il dannato cosciente
evade dalla norma
e balza tanto in alto
quasi da afferrarla,
l’ispirazione a volare via.




**


Sotto il tono dello slancio
andava il semaforo
e iniziava a lampeggiare;
autorizzavo il mio passaggio.

Quando si storce un ingranaggio
e si è distratti dalla posta in palio,
sfugge un istante al guinzaglio
per uno scherzo di senno
che non afferriamo …
i remi si incagliano
nei tralci fioriti della discesa,
la canoa molla il guado
e svampita
la Speranza di una vita,
in prua, nostra compagna
si dà alla fuga
un poco annaspando.

Si rassereni, Lei,
che leggerà questi versi
caduchi in altra forma,
ricordando Sé sulla riva
che mi guardava
mentre affondavo,
scomparendo nel fango.



**


Penavo nel farti bastare
la mia poesia interpretata;
ieri non ti tastavo,
oggi nemmeno ti sfioro.
Avrei obbligato tutta la vita
frusciare nelle fronde,
per aiutare
le tue ali straziate
a ritrovare il salto,
non la salita.

Si agitavano i rami intanto,
l’erba trasaliva
e il vento scrosciava …
a colmarmi, il fogliame
dei nostri silenzi
distanti un paio di passi.
I fiori di ortica estasianti,
venuti alla luce a fatica,
vermigli, cocenti
in fuga dal padre:
Efébo taceva nell’arsura
che mi imponeva.

E i ramarri sulle rocce
a sangue freddo,
si godevano le larve
delle cavolaie indifese,
cangianti.



**


È una folle impresa
andare a caccia dell’amore
che ha tracciato l’altro me
come brezza sulla sabbia
dalla violenza della risacca lontana
pochi tratti, qualche ruga …
e un momento dopo è svanita,
è uscita dal bagnasciuga.
È un’assurda pretesa
il desiderio così distinto
nel mare caldo del compagno:
il mio egoismo ha vinto.
Se fosse poi una pozza amara?
Che importa, pesa la quiete
del vento camminato insieme,
non la fanfara della corrente.
Proverò allora di continuo.
Almeno ora …
finché l’anima mia non avrà scordato
l’onda che si schianta tra gli scogli
da un dì all’altro e per sempre
compagna eterna di una vita assente.




**


Perché a volte
fa così ribrezzo
essere ciò che siamo?
Uomini
e nulla più?
I fili d’erba
avvertono la debole brezza
solo quando accarezza il suolo.




**


Avere la via tutta per sé
possederla seppure scomoda,
ciottolata assolata
là in mezzo al paese.
Avere intorno le case
ad altezza d’uomo,
alla tua misera altezza:
quella quotidiana
che scansi davanti alla specchio
ogni mattina.

Le rondini accaldate
scendono a terra,
non giocano
sul marciapiede del viale
e la gente è ai balconi,
affacciata alle finestre ingiallite
delle case basse del porto.
Un’assurda indifferenza
ti attraversa, ti pervade
il fragore schivo del mare
frammisto all’intimo odore
degli usci delle case.
Perché continuare
a camminare?
Mi voglio fermare.



Matteo Bianchi è nato nel 1987 a Ferrara, città nella quale si è laureato in Lettere Moderne; oggi studia Filologia e Letteratura italiana presso l'Università Ca' Foscari di Venezia. A. distanza di tre anni è andata in ristampa la sua prima rac­colta: Poesie in bicicletta (Este Edition, 2007): terzo premio Niccolini '10, fina­lista al Premio Rhegium Julii '08. Ha inoltre ottenuto buoni risultati in vari con­corsi letterariper l'inedito - a livello nazionale - vincendo due edizioni del Premio Caput Cauri '09 e '06, nonché diverse edizioni del premio cittadino Dante Alighieri. Suoi testi sono apparsi nelle antologie poetiche Svuotatasche dell'anima '10, Sedici poeti ferraresi emergenti '09, Città della Spezia '08, e nelle riviste Alpha Litterae, Isola Nera, Poeti e Poesia e L'Ippogrifo periodico ufficiale del Gruppo Scrittori Ferraresi. Ha fondato l'Associazione Culturale Gruppo del Tasso insieme ad altri giovani artisti, della quale è presidente. Ultimamente tiene la rubrica di cri­tica d'arte Icaro sulla rivista letteraria II libro volante (La Bancarella Editrice, Piombino), collabora con SITI, trimestrale di attualità e polìtica culturale dell'Associazione Città e Siti Italiani patrimonio Mondiale Unesco, e ha prefato la silloge Poesie dimenticate (TLA, 2010) dì Gìosuè Arnone.

venerdì 9 novembre 2012

A proposito dell'Inno nazionale



L'inno di Mameli è un canto ispirato al bisogno di libertà dallo straniero. Mameli infatti fu un irredentista, che collaborò con i milanesi durante la guerra contro gli austro-ungarici e fu con Garibaldi e Mazzini per liberare Roma dai francesi e dall'assolutismo di papa Pio IX.

Divenne inno nazionale provvisorio nel 1946, per volontà del ministro della guerra Cipriano Facchinetti. Tale provvisorietà è tuttora in atto, non essendo ancora inserito, nell'articolo 12 della Costituzione repubblicana, un rigo che lo confermi in via definitiva. La consuetudine, tuttavia, aveva deciso da un pezzo la sua funzione: quell'inno, musicato da Michele Novaro, già si cantava nei momenti più patriottici del Risorgimento, sino alla Resistenza ossia in circostanze di guerra o, perlomeno, di organizzazione ideologica delle coscienze in funzione unitaria. Infatti il canto, composto nel 1847, è fortemente bellicoso, così come voleva il romanticismo politico del XIX secolo.

Speravo che fossimo usciti dall'idea che la guerra fosse la linea conduttrice della nostra storia. Speravo che la vittoria fosse sulle ingiustizie sociali ed economiche, non espressione di un dominio coloniale (perché questo fu la vittoria romana sui cartaginesi) e sulla volontà di umiliare gli sconfitti (tagliare la chioma, ha questa funzione). Speravo che la lingua dell'Italia nuova fosse autenticamente umile e sincera, manzoniana al limite; non certo pomposa e retorica come quella del povero Mameli, giovane dell'aristocrazia sarda: piacerà forse perché tanto simile al politichese? Non sarà che il Risorgimento sta ancora patteggiando il potere con l'aristocrazia contemporanea,  non tanto di sangue, ma di toga (da intendersi non in senso giuridico, ma corporativo)? Probabilmente i governanti di oggi leggono "per Dio" non come un'esclamazione di un giovane entusiasta, ma quale complemento di fine: si vuole forse la guerra santa, la vittoria non tanto su un nemico terrestre, ma sul male ontologico?

Forse è il caso che, chi ha deciso l'obbligo d'insegnare l'inno a scuola, definisca meglio l'antagonista. E poi: davvero vuole che insegniamo l'integralismo religioso, il colonialismo, la retorica, l'odio verso gli sconfitti?

Non credo che la classe dirigente sia consapevole di tutto questo. Se lo fosse sarebbe diabolica; semplicemente usa la leva del sentimento patriottico perché è la via più facile per trovare l'unità nazionale, dopo che si è mostrata totalmente in difesa e dei grandi capitali finanziari e della Chiesa nostrana. Qui è davvero diabolica, ma io non gli proclamo la guerra santa. Sono un democratico pacifista e credo nella libertà di parola e nella necessità di informazione. Anche di insubordinazione, se necessario.




INNO di MAMELI


Fratelli d'Italia
L'Italia s'è desta,
Dell'elmo di Scipio
S'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci,
l'Unione, e l'amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Dall'Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn'uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d'ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò


lunedì 5 novembre 2012

Convegno su Silvano Martini



POETICHE DEL PENSIERO
  

Biblioteca Civica di Verona, via Cappello 43
Sala Farinati
Sabato 17 novembre, ore 10.00

TRE TEMPI PER UN CIELO
Incontro con la poesia, la prosa, l’estetica di Silvano Martini (1923-92)

RELATORI
Stefano Guglielmin  Il “difficile” nella poesia di Martini
Agostino Contò  Le carte di Martini in Biblioteca Civica
Paolo Donini  Apparire all’abisso. Incursione tra gli scritti d’arte di Martini
Tiziano Salari  La nuda vita nella prosa di Martini

Gli studenti del Liceo delle scienze umane Montanari di Verona
dialogano con i relatori e mettono in scena
alcuni testi di Silvano Martini


A cura di Flavio Ermini e Ranieri Teti

Ulteriori notizie e programma completo del convegno sul sito:


Un assaggio da Esecuzione (Anterem, 1991)



1

contrasti di ghiaie nel percussore lo salva il giro
della pista niente proponeva la pioggia sul braccio
dormiamo insieme nell'oro incerto che scompiglia
benne tramagli e carmeli d'ossa

bandiere e lini esitando sgretolano il racconto
insistito limone che divampa se più non canta
per un transito d'anni nella respirazione domestica
stivale in varianze per visitazioni