
Francesco Tomada è un amico di Blanc. Assieme a Luigi Metropoli (altro amico d'eccellente fattura, e non solo intelletuale) abbiamo deciso di fargli una sopresa: io gli posto alcune poesie tratte dal suo nuovo libro (A ogni cosa il suo nome, Le Voci della Luna, 2008) e Luigi gli scrive una recensione. Ecco fatto!
In trincea con la vita
Un libro che sia tale rigetta ogni tentativo di riduzione. Quando si parla di poesia il lettore avveduto si aspetta che nella trama fonica del verso vi sia un riverbero di significazioni, uno sconfinamento in altri territori. Il verso dunque funge da cerniera tra uno stimolo estetico ed uno conoscitivo: è una linea di confine. La bellissima raccolta, fin dal titolo, di Francesco Tomada, A ogni cosa il suo nome, tematizza tale confine, la frontiera, rendendola geografica, memoriale, affettiva, storica: c'è umanità (tanta), una grande abilità nel raccordare il privato con la storia, la memoria col presente, gli oggetti (e i luoghi) con la parola, senza scorciatoie. Un oggetto si manifesta nella sua evidenza, come i resti del MIG nel museo di Karlovac, ma improvvisamente viene trascinato in una girandola di sensi, ricordi, prospettive, politiche e private, storiche e emotive. La concretezza che Tomada ha saputo donare alle cose (e agli affetti) non si spegne nella fredda denotazione, ma squarcia un mondo, indica una strada percorribile tra parole e referenti, si decanta in finissimo distillato di pensiero, lascia lì il lettore a interrogarsi; il poeta ci fa toccare con mano la più porosa grana della nostra e altrui esistenza quando ci conduce in dolenti e amare chiuse (un colpo di fioretto, a ben guardare), un assunto che d’improvviso scarta di lato, apre un varco in quella che sembra una conclusione quasi sentenziosa, e invece pone ulteriori domande, infligge più profonde ferite, ci ricorda che “tre diviso due fa zero” (nasce così la parola FRAGILE sui cartoni di una famiglia bosniaca che parte; i dieci centimetri che rappresentano una distanza siderale…). La sezione In suo nome, a metà strada tra un dialogo a distanza e un salmo responsoriale, investe con intensità travolgente – in un pathos che fa a meno della retorica –; più calata nella storia Io vivo qui, specie il vibrante e rabbioso prosimetro VII che ristabilisce equità, al di là di ogni artefatta ideologia, e restituisce quanto perduto (un nome, una vita) ad un pubblico ufficiale che decide di schierarsi dalla parte dei partigiani comunisti. La materia su cui si traccia questa frontiera è sottile, fragile e rende la terra di confine, che Tomada abita, la martoriata terra di tutti. Leggendo questo libro ci si ricorda che una visione, una lettura non tendono al bello, ma a qualcosa che è più simile ad ustioni sulla pelle e a un malessere dalle parti dello stomaco e che, dopo, qualcosa cambierà per sempre.
IV.
Il museo della guerra di Karlovac è
una caserma bombardata che puzza di urina
nel cortile ci sono cannoni e mezzi corazzati
quelli nemici semidistrutti
quelli croati nuovi e lucidi
come se la battaglia dovesse ricominciare domani
nel mezzo quello che resta di un Mig
i ragazzini lo guardano entusiasti
gli corrono attorno
ma io vorrei dirgli che la coda di un aereo abbattuto
non è come quella di una lucertola
che si stacca senza dolore
se la stringi tra le mani
sulla fusoliera c’è una stella rossa
vorrei dirgli che anche in volo
non ha mai brillato come quelle vere
dal suo cielo di lamiera
VIII. Anonimi si nasce
I tuoi occhi hanno il colore di terra bagnata
se io fossi contadino direi buona da coltivare
ma da contadino mi sentivo solamente
quel fare grossolano e inadeguato delle mani
quando ho messo in te il mio seme
il mio gesto voleva essere di amore
ma somigliava più a un atto primitivo
un urlo lanciato con il ventre
mentre tu trasformavi in un embrione
il mio sentirmi vivo
I. Io vivo qui pt. I
Una volta sono venuto qui a Redipuglia, tra tutti i nomi ne cercavo
uno per mio figlio che stava arrivando, cercavo un’idea. Poi ho
scelto altro, non volevo che avesse un’eredità così pesante, bastava
già il mio cognome. Eppure qui di nomi ce ne sono abbastanza,
trentamila nomi per intere generazioni di figli del nordest e
settantamila militi ignoti, anche per tutte le volte che si è fatto
l’amore e non ne è nato niente.
II. 1920
C’è questa foto del millenovecentoventi
dove si vede distrutta la casa che adesso abitiamo
una granata italiana l’aveva colpita
proprio la casa proprio la camera
dove poi abbiamo concepito i figli
ma di quei momenti nostri non ci sono immagini
e la vita quando esplode dentro non fa nessun rumore
e anche io ti ho posseduta così si dice
ma in realtà non ho posseduto niente
sei come questa terra dove per lasciare un segno
è inutile combattere bisogna appartenere
diventare umili e abitare con pazienza
come fa il colore su una rosa
XII. Io vivo qui pt. II
Ti voglio descrivere un orizzonte:
dal pendio del Podgora alla conca dove riposa la città
e poi su al labbro scuro del Sabotino
saranno tre chilometri in linea d’aria.
Adesso lo voglio misurare:
per riempire il cielo serve un pugno di rondini in volo;
novant’anni fa per prendere questa terra
morirono quattrocentomila soldati.
Gorizia ha quarantamila abitanti, per ciascuno di noi ci sono dieci morti.
Le rondini invece non bastano per tutti.
Per questo, quando ne arriva una, fa primavera.
***
(parla lei)
Sembrava bello che costruissero le case al posto dei campi
poter vivere in un posto dove prima si era solo lavorato
forse ho sbagliato perché era il tempo della tv in bianco e nero
e non ho mai guardato fino in fondo il colore dei tuoi occhi
ma in te ho creduto davvero mi sembravi la liberazione
dopo un’infanzia di mattoni e stracci e fratelli da crescere
forse ho sbagliato perché le ragazze di buona famiglia hanno fretta
e così tanta paura della solitudine da correrle incontro
forse perché lavoravi come meccanico di aerei
e ho pensato che sapevi aggiustare le cose
e se tornavano a volare i mostri da dieci tonnellate di metallo
allora avrei potuto farlo anch’io che un giorno ci avevo provato
saltando dal secondo piano del fienile con un ombrello per paracadute
e un poco di leggerezza dovevo averla già dentro di mio
se non mi ero fatta niente
(parla lei)
Abbiamo ristrutturato una casa per viverci
travi a vista e odore di malta e legno
un nido d’amore dicono ma io
non ho mai visto animali con un nido di cemento
a volte stiamo insieme come è scritto si deve fare
a volte tu esci e non so dove e con chi vai
quando avrò una figlia
per prima cosa le insegnerò che gli uomini
certe sere vengono troppo presto
ma in altre non arrivano mai
(parla lei)
Un giorno voglio crocefiggerti sul letto usando le mie braccia
riprendermi il piacere ed il dolore della prima volta
per ogni notte in cui sei stato indifferente sarò il giudice e la pena
tu sarai la terra dove scavo un solco passando e ripassando con i piedi
la traccia a semicerchio consumata dai cani alla catena
(parla il figlio)
Racconti spesso che dopo l’armistizio del ‘43
i tuoi ti mandarono a Paluzza
per paura dei tedeschi
abitavi da uno zio sacerdote
portavi il latte dal casaro alla mattina presto
poi giocavi tutto il giorno fra prati in discesa
e mulattiere perché le scuole erano chiuse
io passo spesso a Paluzza d’inverno
so che una volta vorresti venire anche tu
ma è meglio di no
piuttosto tieniti stretti i ricordi dell’unico anno
in cui sei stata davvero bambina
oggi le strade sono asfaltate le case quasi tutte nuove
nessuno fa fieno e sembra che l’erba cresca per niente
poi la segheria in fondo al paese l’hanno comprata
i Gartner da Wurmlach - forse non li temi come allora
.......................ma sono arrivati i tedeschi
[...]
(parla lei)
E so di non essere mai stata bella come volevi
ho il corpo minuto il bacino sporgente di ossa
spigolose come le figure nei disegni dei bambini
i seni troppo piccoli per allattare un neonato
dunque anche per soddisfare un uomo cresciuto
un corpo da serva più che da moglie
si sarebbe detto una volta
ma ci ho provato
ho provato anche a somigliare alle altre donne che incontravi
vestirmi come loro truccarmi come loro
fino ad accorgermi che quando facevi l’amore con me
era loro che sognavi
[...]
(parla lei)
Un giorno voglio crocefiggerti sul letto dove mi piegavo dalle doglie
per il secondo parto pensavo tu scherzassi quando ti chiedevo
di portarmi in ospedale perché stavo sempre peggio
e tu mi rispondevi “un attimo e finisce la partita”:
io aspettavo un figlio, tu che nei minuti di recupero
Altafini segnasse la rete del pareggio
[...]
V.
Se quello che stiamo vivendo è l’amore
cerchiamo che cosa c’è oltre
perché avevamo giurato due cose
la prima: saremo fedeli non per dovere
ma per volontà
seconda: accontentarsi
è come tradire
X. Tre diviso due
Ricordo che un giorno scherzavamo
se ci lasciassimo cosa sarebbe dei nostri tre figli
uno e mezzo a testa?
li taglieremmo a metà?
era un gioco stupido, ancora più stupido
adesso che sembra avverarsi
c’è una realtà dove tutti si perde
e tre diviso due fa zero
Francesco Tomada è nato nel 1966 e vive a Gorizia. La sua prima raccolta, “L’infanzia vista da qui” (Sottomondo), è stata edita nel dicembre 2005 e ristampata nel marzo2006; nel 2007 ha vinto Premio Nazionale “Beppe Manfredi” per la migliore opera prima. È vincitore e segnalato in diversi altri concorsi. I suoi testi sono stati pubblicati in Slovenia, Canada, Francia, Slovacchia, e tradotti anche in altre lingue. E' inserito nell'antologia "Dall'Adige all'Isonzo. Poeti a Nord-Est" (Fara 2008)