martedì 30 dicembre 2008

Poeti 2008



Come ogni anno, faccio una sintesi del lavoro svolto. Come ogni anno, mi chiedo perché usi gran parte del mio tempo libero in questo luogo. Come ogni anno, non ho una risposta definitiva. Divulgare la poesia? Perché farlo? E se scrivessi della corsa di mezzofondo? Correre dà meno emozioni della poesia? Meno conoscenza? E la politica? E la scuola? E' solo una questione di competenze? Intanto che queste domande girano, ecco la sintesi:



n. post: 81


poeti italiani pubblicati: 42


Mario Fresa, Claudia Ruggeri, Francesco Tomada, Pier Maria Galli, Luisa Pianzola, Mariangela Gualtieri, Paolo Badini, Maria Marchesi, Gino Scartaghiande, Adam Vaccaro, Antonella Pizzo, Francesca Matteoni, Luigi Cannillo, Alberico Sala, Anna Maria Farabbi, Alessandra Conte, Giorgio Bonacini, Stefano Lorefice, Luciano Troisio, Danni Antonello, Paola Febbraro, Chiara De Luca, Patrizia La Grasta, Andrea Raos, Annamaria Ferramosca, Daniela Cabrini, Elisa Davoglio, Cristina Annino, Matteo Fantuzzi, Fabia Ghenzovich, Alessandra Palmigiano, Alessandro Ghignoli, Lucetta Frisa, Paolo Fichera, Lucianna Argentino, Iole Toini, Matteo Bonsante, Vincenzo Anania, Silvia Comoglio, Valentino Ronchi, Faraon Meteoses, Paolo Donini



poeti non italiani: 5

Christine Koschel, Sinan Anton, P.L. Labarthe, Alain Robbe-Grillet, Max Loreau


narratori: 1

Elisa Davoglio

mercoledì 24 dicembre 2008

Zaher Rezai


Zaher Rezai era un bambino-saldatore afgano, fuggito da casa per salvarsi, e morto, invece, il 10 dicembre a Mestre, schiacciato involontariamente dal Tir al quale si era legato nel sottopancia. La storia è stata ripresa da molti giornali e siti web. Il suo bagaglio stava in un sacchetto trasparente, con dentro quattro animali giocattolo (un uccellino, un leone, una giraffa e un'alce), il foglio di espulsione dalla Grecia, una scheda telefonica e un taccuino scritto in persiano antico. Semianalfabeta, Zaher Rezai aveva imparato a memoria, e poi trascritti sul suo taccuino, dei versi antichi, che lo rassicuravano nei momenti di paura. Questi:


Foglio 9

Tu porti il profumo delle gemme che sbocciano,
sei come un fiore di primavera

Mi faccio per te inebriato e felice
quando vieni a cercarmi

È dolce il tuo affetto
amo parlare con te



Foglio 8

e anche quando mi togli la parola
il tuo pentirti è bello

Tu sei un amico incantevole
sei una seta di passione e bellezza

Ora vediamo fino a quando
t’accorderai col cuore mio


Foglio 11

Questo corpo così assetato e stanco
forse non arriverà fino all’acqua del mare.

Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino,
ma promettimi, Dio,
che non lascerai finisca la primavera.

Oh mio caro, che dolore riserva l’attimo dell’attesa
ma promettimi, Dio, che non lascerai finisca la primavera.


Foglio 13

Tanto ho navigato, notte e giorno, sulla barca del tuo amore
che o riuscirò in fine ad amarti o morirò annegato.

Giardiniere, apri la porta del giardino; io non sono un ladro di fiori,
io stesso mi son fatto rosa, non vado in cerca di un fiore qualsiasi


BUON NATALE

venerdì 19 dicembre 2008

Mario Fresa



Si comincia dal confine dei corpi, dal loro stare nei pressi del senso, in un cerchio che la parola sfibra in vaghezza e biancore. L'identità si perde e si ritrova, in un movimento che è riposo e pulsione, quiete e fuoco, tanto che si potrebbero confondere: "Ma quanta gioia pare 'l mio tormento" recita l'esergo di Ugo da Massa, l'aspro sonettista d'amore del XIII secolo, apripista di un libro, Alluminio (Lietocolle, 2008), in cui l'amore condensa in olfatto e visione, in percezione uditiva e tattile, intanto che Mario Fresa attinge all'onirico, a quel sentire barocco che non ha più certezze sul vero, tanto che sogno e realtà sembrano entrambi partoriti dal limbo o dallo stato prenatale. Appunto perciò, egli inscena un rovistare nei cespugli, nell'ombra, ovunque si dia oscuro anfratto da attraversare, quasi a voler finalmente incontrare la luce. La vita, ci dice, è questo migrare estenuato verso il chiarore, un lungo e inquieto seguitare una sterpaglia, caricandoci via via i piccoli doni che riusciamo a raccattare. Alluminio è l'involucro lucente con il quale conservarli, ma è anche l'abbraccio di questo libro prezioso.


I

Così noi siamo rimasti al fiume,
sulla strada confinata di carezze, nella lotta
della gioia:
nel mutamento dell’adagio si è caduti
in quell’immenso fiato e nella vaga,
trascinata bianchezzadi quegli anni.

Qui mormorava il nastro della gola,
c’era l’immensa porta che inghiottiva i nostri passi,
in un istante solo;
e invece poi nessuno ha ricordato le parole
che migravano stupìte, nel cielo retrocedendo
con una dolce danza:«ma guarda
come ci succhia, adesso, guarda come
ci rinnova, questa fervida luce
respirata»

l’esile bocca disse che fu sovrano incendio
e che fu preda.


IV

Il freddo scivola spezzando la tua voce risplendente
fra le porte della casa
e il tremolare della ferita dolce
poi riluce sulle mani, sopra i lampi
della neve che misurano i tuoi passi:
ci siamo riparati nei mantelli
come in docili gusci respiranti.
Proprio qui si riconosce l’implorante
luce notturna che adesso prova, ansiosa, nuove
mosse per abbracciare il fuoco
del sudario, l’alto sospiro
della memoria: e ancora è viva
questa mano che germina sottile
e già richiede un morbido risveglio,
una bendata resistenza.


V

Conoscere il centro, la carezza, l’occhio bruciante
mentre adesso si risvegliano minute
le profezie discese nella sera
dei dolori: così andremo col passeggio che ribolle
sui candidi riflessi, finiremo
nella morte lentissima di luce:
sulle veloci labbra si è riposata lieve l’ombra
per sognare la vittoria sulle cose

Poi c’è
il sonno pesantissimo che annuncia fuochi
di serpente, vento sull’uscio

La nudità si perde nella netta resistenza
degli schianti, nel silenzio leggero
dell’uscita:

sui passi è ricaduta l’ultima foglia,
il seme
di una pioggia luminosa.


VI

Il sonno bagna il tuo respiro che si è appena percepito
dentro l’ombra: piano risale il gesto
avvolto dall’assillo dei fondali.
Poi si rinnova, adesso, l’aria bruciante,
esplosa sulle pareti nude, e nel passaggio
si rafforza la galleria di questi suoni
ribollenti nella luce.
La mano ascolta il fiotto
lancinante dell’acqua sfregolata sulle persiane
dure: e tu scompari nell’allargata
goccia delle carezze,
e la gola dorata già pronuncia
la gioia inarrivabile, segreta:

«Qualcosa è qui, toccami ancora,
non hai cercato bene…».


VIII

Nella grazia implorante s’inseguono le ombre
dei nostri corpi accesi nella morsa
dei colori: si dispiegano i rami già stupìti
nel turbinio dell’aria, rivive una tempesta
azzurra che vibrando poi risale
sui profumi del crepuscolo,
sui piumaggi del respiro favoloso;
poi la vista già riluce tra i riverberi
degli aghi, e il suo fiato lontano è circondato
da una rissa di friabili movenze: così l’odore
immenso è attraversato
da fagotti di rumori incandescenti,
da bagliori trafitti di anfore perdute…


XIV

Tra le mani la palma la splendente creatura
e il chiaroscuro
l’oro della colonna
la penombra dei gesti la devozione quieta
l’altezza delle mani
e l’imponenza dell’acqua sovrastante
e poi la strada stretta
che ci osservava sempre
la famosa battuta l’andare circospetti
e i gran colori disciolti sulle gambe
l’immenso esplodere dei passi
l’abito nuovo che si fondeva

con la parete oscura.


XVIII

Poi mi chiedevi un dono, un orologio per contare
le formiche degli assalti, le feste vinte
da un angelo leggero:
una ressa d’introvabili parole che invitava
all’ingegnoso salto nel buio.
Era un docile lamento che imbrogliava la vista
dei giganti: io ti guardavo
ansiosamente stringere la mano
dei penultimi confini.


XIX

Tenue, così, come uno sguardo
labile, magro;
dunque abbàssati nel sonno breve,
l’allegrezza verrà,
non pronunciata, come un esatto,
docile bisbiglio.

Dunque tu accogli questi solenni doni:
pazientemente qui bisogna
rilegarli nella notte dell’ascolto,

nell’alluminio delle superbe luci.



Mario Fresa è nato a Salerno nel 1973. Ha pubblicato: Liaison (introduzione di Maurizio Cucchi, 2002, Premio Giusti Opera Prima, terna Premio Gatto), L’uomo che sogna (2004, Premio Capoverso – Città di Bisignano), Il bene (ed. Marocchino blu, 2007) È presente in varie antologie, tra le quali Nuovissima poesia italiana (a cura di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi, 2004) e Il corpo segreto (a cura di Luigi Cannillo, 2008). Una sua nuova raccolta poetica è appena uscita sull’«Almanacco dello Specchio».

lunedì 15 dicembre 2008

due interviste in rete


Per gli amici a cui sto a cuore, poeticamente parlando, segnalo due mie interviste postate di recente in rete. La prima è opera di Maria Pina Ciancio per il sito LucaniART, all'interno del progetto Scrittori & scrittura; la seconda è uscita un mese fa per Bassanonet a cura di Laura Vicenzi. Ringrazio pubblicamente entrambe.


venerdì 12 dicembre 2008

Christine Koschel


Presento alcune poesie di Christine Koschel, tradotte da Cristina Campo a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, non incluse nell'edizione adelphiana della Campo, bensì curate da Amedeo Anelli per Le Lettere in un esile ma intenso libro dal titolo L'urgenza della luce, che contiene anche traduzioni di Elémire Zolla. Poetessa perfettamente in sintonia con la religiosità ontologica della Campo, Christine Koschel è la punta felice di un albero radicato in Hölderlin e Celan, ossia in quella tradizione che riconosce allo stile la forza di coniugare bellezza e pensiero, nella consapevolezza di vivere in un tempo della povertà, in cui il canto non può che nascere asciutto, vigile, prudente. La Koschel, per ragioni generazionali e sulla scorta degli studi francofortesi, fa i conti anche con l'evenienza della società massificata-massificante, piovra che lapida il sublime e l'antisublime, in nome del kitsh e dell'infondatezza consumistica. A questa inciviltà senza teleologia, miseramente ribadita dalla nostra classe dirigente (al di là della contingenza critica attuale), ella contrappone l'ebbrezza di chi sa guardare l'essenziale da un confine in movimento, imprendibile eppure necessario, per riportare in "piazza" la giusta misura delle cose, il loro essere mondo che si offre autenticamente alla finitezza dell'esserci.


1

L'abbozzo regale del mondo
emerge
dal grembo dei suicidi:
dal grande occhio affamato
di coloro
che in veste di fuoco descrivono
correndo una piazza.



3

Il poeta quale fondatore:
cozza con la fronte
i cervelli scorrendo di lobo in lobo -
uomo di spada che vaga mendicando -
che la mandria da voti non può permettersi.



4

'Urgenza della luce'

A chi rimbomba il tamburo del teschio
tra rovinii di parole
- quale di esse può risorgere
per afferrare un sorso di respiro
per dondolarsi nella cuna della bocca
per ferrigna recarsi
nell'arengo della parola? -
colui sfida di colpo l'incendio,

Dolore della luce
che lo costringe al verso oscuro -
crisi di astenia
della lingua, lo dicono.



5

È esposto
su una fetta di pane
il poeta morto.

Nei dislivelli dell'analisi
spasimano i versi:
su quale fuoco di esperienza
puntiamo noi l'occhio spirituale -
o siamo forse tesi

sopra la croce della fuga?

Sta il suo lettino
nella biblioteca reale -
all'inquilina di una sola stanza
trincea del sonno.
Ma l'opera s'inforna
nel colombario, l'archivio:
sepolcro della parola
che respira ancora!

Chi, goloso di fatti,
ha fame di metafore?




QUESTO AUTUNNO È ALLA FINE

Questo autunno è alla fine. Come un fuoco
ricco d'animali e chiaro -
un fuoco metafisico, un'infinità purificata -
ma limitato da ombre. Apriamo le ombre, apriamo
i morti. Entriamo nello splendore di vorace febbre
nella febbre delle stelle, in un tempo di passione
della profonda vigilanza.



Christine Koschel è nata nel 1936 a Breslavia in Slesia. Nel 1965 lascia la Germania e si stabilisce a Roma, dove vive tuttora e dove allaccia uno stretto legame di amicizia e colla­borazione con Cristina Campo e Ingeborg Bachmann, della quale curò, alla fine degli anni settanta, per Piper Verlag (Monaco di Baviera), l'intera Opera

lunedì 8 dicembre 2008

Claudia Ruggeri


Le poesie di Claudia Ruggeri hanno una forza che non deve nulla alla sua biografia, se non per ragioni di contingenza. Utile comunque il commento di Alessandro Canzian, lasciato su LiberInVersi circa un anno fa, quando pubblicammo la poetessa leccese: «il "Neobarocco" che Claudia va creando ed esaurendo in se stessa ha giustificazione e grandezza solo se inserito» nell'evidenza che «il Salento è una terra che è ancora barocca». [...] «Nel Salento, e sto pensando ad esempio alla scrittura di Michelangelo Zizzi (amico di Claudia Ruggeri), si sta ancora scrivendo con questa tendenza all'epica incompiuta, alla forza gridata e querelata che in qualche modo si piega su se stessa».
Legato all'analisi testuale, invece, il commento di Mario Bertasa, sempre nel medesimo post: «L’operazione di Claudia Ruggeri mi pare sia quella di affondare le mani nell’argilla linguistica e allegorizzante del Sommo per reimpastarla in modo sconvolgente, riplasmarla, facendo precipitare pezzi di paradiso e purgatorio nella strozza di un inferno che così perde l’evidenza del suo registro “basso"» [...] «Rime infernali ma non aspre, non chiocce nella loro sonorità, quelle della Ruggeri – la misura con cui si addensano le allegorie è il segno dello sgomento, un inferno non plastico, non terrigno, in cui un corpo, dantescamente parlando, non può abitare né transitare per uscirne»
Dal canto suo Mario Desiati, nella prefazione a Inferno minore (peQuod 2006), riprendendo uno stilema di Giulio Mazzoni, rileva il suo «forte straniamento soggettivo» oltre che «la concentrazione di saperi e stili» e il «medioevalismo».
Consiglio i lettori di tenere a mente queste indicazioni, tutte pertinenti, tutte a far parola intorno alla scrittura, là dove, forse, vorrebbero nel contempo svelare qualcosa che riguardi non tanto la biografia, bensì la sua interruzione, quello scarto dal solco abitudinario, che continuamente ci interroga, ci chiama, ci spinge altrove.



Corrotto barocco

dentro la torre che tutto nasconde
alla valanga che tutto ricopre
nella caduta che fissa per sempre;
la calce intatta e il giro saldo
in alto t'avrei lavato i piedi
oppure mi sarei fatta altissima
come i soffitti scavalcati di cieli
come voce in voce si sconquassa
tornando folle ed organando a schiere
come si leva assalto e candore
demente alla colonna che porta
la corolla e la maledizione di gabrieleamore
che porta un canto
ed un girare intorno
cinque volte
ed essere a corona ma lontana
allo zaffiro che inzaffira fermo (o pare
quieto e intanto segue e adora - altra
altitudine altra sosta- lo zaffiro
che entra e fa divino ed una luce forsennata
e intesa tutta cima nuda ed in eterno perché lui la
tocchi sposti il perpetuo martirio di letizia
lui che la precede (io
t'avrei offerto cornici che indorano radici poi
che mossa un'impronta si smodi ad otto tentacoli poi
che ne escano le torture
se sonno e danza non li disfanno


Il Matto II (Morte in allegoria)
Ninive

Tu ti dai pena per quella pianta di ricino (…) che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: ed io non dovrei avere pietà di Ninive quella grande città…” Giona 4,10

ormai la carta si fa tutta parlare,
ora che è senza meta e pare un caso
la sacca così premuta e fra i colori
così per forza dèsta, bianca; bianca
da respirare profondo in tanta fissazione
di contorni ò spensierato ò grande
inaugurato, amo la festa che porti lontano
amo la tua continua consegna mondana amo
l’idem perduto, la tua destinazione
umana; amo le tue cadute
ben che siano finte, passeggere

e fino che tu saprai dentro i castelli, i giardini
fiorire, altro splendore sai, altra memoria,
altro si splende si strega, si ride, si tira
la tenda e libero si mescola alle carte; ma
i giardini si nascondono con precisione
dove cerchi la larva del tuo femminino e l’arresto
l’appartenenza inevitabile
all’Immagine all’inevitabile distensione
delle terre trascorse delle altre ancora
da nominare chiamarle una poli l’altra tutte
le terre perfette alla mente afferrata
di nomi che smodano scadono che portano
alla memoria o la stravagano.

(crescono ricini presso ninive
ecco, vedi, come sviene)



Il Matto capovolto
Palestina

" Y no echeré de meno ni de mas no l'impurtamcia si la circumstancia" (Pablo Neruda)


questa che ora interroga, t'arrovescia
l'inizio; t'avviva a questo Inverso
cui un dio non corrispose; tu sei
l'oggetto in ritardo, l'infanzia persa
su tutte le piste, l'incrocio rinviato; sei l'amnistia
dell'idioma viaggiato; ma salve, la primavera
ti rassegna, di vòlta in vòlta carta
sveste percòte per cose fitte fitte
afflitte da memorie; t'installa nella voce
con un esercito a mille aste, e così
fortemente tu chiami e così ti legava
il tuo passo recente; dimmi se di uno Stagno
snidi l'Imperfezione, oppure le maiuscole
rimangono incredibili: sono le 'nulle'
degli alfabeti in cifre, il segno
che non scatta, un ariele distratto...
oppure sul tuo capo la Torre
capovolge; e con un salto dal basso
ti drizza: ma sei in un balzo (ma appena)
o nella capriola che prima t'agganciò
di passi; o c'è chi ti da un Regno - una parola
d'Ordine almeno - insomma un esito una ribalta, come
si dice, un tuffo; e forse una Città
dove rivolge l'ennesimo esodo
dove su apre per dita bendate per gli esuli
grandi, o per la fase nuova del terreno

(leviamole la femmina, diamo l'idiota a questa lesione.
oppure 'cosa' resta vecchia l'insensazione)


Tragedie, sogni e misteri II

"Voi non potreste mai smarrirvi..."
(La città morta, Gabriele D'Annunzio)

(dimenami con ordine la sillaba

(prestami la parola che si addica: aulika; che sia forte o poeta
che ti copio come capita ora che il mio racconto è andato a male
come credo che succeda a un certo punto che sfugga la pagina
esatta il rigo la parola giusta da riscrivere in cima al verso
o da rimare con quella appresso; per imparare a scrivere a mac­-
china una buona volta con due dita e spaginare così a caso
dannun-
zio tragico per rubargli il rigo esatto la parola così
per massacrarla con due dita una buona volta IMPARARE.




Lamento della sposa barocca (octapus)


T'avrei lavato i piedi
oppure mi sarei fatta altissima
come i soffitti scavalcati di cieli
come voce in voce si sconquassato
rnando folle ed organando a schiere
come si leva assalto e candore demente
alla colonna che porta la corolla e la maledizione
di Gabriele, che porta un canto ed un profilo
che cade, se scattano vele in mille luoghi
- sentite ruvide come cadono -; anche solo
un Luglio, un insetto che infesta la sala,
solo un assetto, un raduno di teste
e di cosce (la manovra, si sa, della balera),
e la sorte di sapere che creatura
va a mollare che nuca che capelli
va a impigliare, la sorte di ricevere; amore
ti avrei dato la sorte di sorreggere,
perché alla scadenza delle venti
due danze avrei adorato trenta
tre fuochi, perché esiste una Veste
di Pace se su questi soffitti si segna
il decoro invidiato: poi che mossa un'impronta si smodi
ad otto tentacoli poi che ne escano le torture.


La pena dell'attore

“se il chiarore è una tregua, la tua cara minaccia la consuma”(Eugenio Montale)

è qui che incontro l’ultimo Cattivo, il residuo
rosicchio di semenza, l’antenato Attore; dal precipizio
accanto, il suo spettatore lo trattiene
a un fronte candidissimo; dal vano
che cava e spaventa in tanta mediterranea
Evidenza; da dentro questo volo che caverna rotondo,
maniaco; dal ventre, che scaraventa;
che mostro Balena l’accolga, l’incaglia;
gli dia un esilio vero, un lungo errore


Preghiera dell'Attore

"Nulla finisce o tutto, se tu folgore lasci la nube." (Eugenio Montale)

anima che risiede, che sotto 1 gran sabbione
alleva la deessa, Macchia pulcherrima, tenera
ancora sia pure dentro a un logoro in un ingorgo
ultimo adunami gli idioti del viaggiare falsa
che sia situami in una febbre inonda tempesta
il fogliame o cedilo a un fuochista ad un'infanzia
mondana a chi se distragga travesti
la caduta sbattila in una vista che
su di me tradisca suvvia esilii



Claudia Ruggeri nasce a Napoli nel 1967 e muore suicida a Lecce nel 1996.

Bibliografia essenziale
Inferno Minore (L’incantiere, rivista universitaria, Lecce 1996)
Inferno Minore (peQuod ed, Ancona 2007)

venerdì 5 dicembre 2008

Cerco poeti di talento


Da qualche giorno, l'editore Gianfranco Fabbri mi ha chiamato a dirigere la collana Laboratorio, delle edizioni L'arcolaio, di Forlì. Occasione straordinaria per chiarire il senso, anzitutto a me stesso, della relazione fra poesia e tecnica, due azioni molto lontane malgrado la comune radice etimologica. Per me, infatti, Laboratorio non riguarda l'esercizio del poeta arguto, capace di moltiplicare i pani e i pesci facendo leva sul miracolo degli abbracadabra, ma semmai rinvia a quella miscela laborintica, in cui il lavoro, il labirinto, lo star dentro l'uno e l'altro da parte di una singolarità consapevolmente attenta, danno fuoco alla creazione, attraverso una lingua aperta al futuro. E sto parlando del libro, non soltanto del singolo testo. In questa prospettiva, la collana Laboratorio dovrebbe ospitare progetti organici in grado di dare forma al sistema/problema libro, evidenziando ricerca, consapevolezza, talento. Il condizionale sottolinea la possibilità che qualche autore stia avviandosi su questa sguarnita strada, la intraveda e, pur non avendola ancora sottomano, voglia comunque fissare in una pubblicazione il proprio percorso.

Questo messaggio è rivolto a chi ha un libro da laboratorio e a chi è convinto di avere comunque intrapreso un viaggio sperimentale: L'arcolaio aspetta il dattiloscritto.

lunedì 1 dicembre 2008

Francesco Tomada


Francesco Tomada è un amico di Blanc. Assieme a Luigi Metropoli (altro amico d'eccellente fattura, e non solo intelletuale) abbiamo deciso di fargli una sopresa: io gli posto alcune poesie tratte dal suo nuovo libro (A ogni cosa il suo nome, Le Voci della Luna, 2008) e Luigi gli scrive una recensione. Ecco fatto!



In trincea con la vita

Un libro che sia tale rigetta ogni tentativo di riduzione. Quando si parla di poesia il lettore avveduto si aspetta che nella trama fonica del verso vi sia un riverbero di significazioni, uno sconfinamento in altri territori. Il verso dunque funge da cerniera tra uno stimolo estetico ed uno conoscitivo: è una linea di confine. La bellissima raccolta, fin dal titolo, di Francesco Tomada, A ogni cosa il suo nome, tematizza tale confine, la frontiera, rendendola geografica, memoriale, affettiva, storica: c'è umanità (tanta), una grande abilità nel raccordare il privato con la storia, la memoria col presente, gli oggetti (e i luoghi) con la parola, senza scorciatoie. Un oggetto si manifesta nella sua evidenza, come i resti del MIG nel museo di Karlovac, ma improvvisamente viene trascinato in una girandola di sensi, ricordi, prospettive, politiche e private, storiche e emotive. La concretezza che Tomada ha saputo donare alle cose (e agli affetti) non si spegne nella fredda denotazione, ma squarcia un mondo, indica una strada percorribile tra parole e referenti, si decanta in finissimo distillato di pensiero, lascia lì il lettore a interrogarsi; il poeta ci fa toccare con mano la più porosa grana della nostra e altrui esistenza quando ci conduce in dolenti e amare chiuse (un colpo di fioretto, a ben guardare), un assunto che d’improvviso scarta di lato, apre un varco in quella che sembra una conclusione quasi sentenziosa, e invece pone ulteriori domande, infligge più profonde ferite, ci ricorda che “tre diviso due fa zero” (nasce così la parola FRAGILE sui cartoni di una famiglia bosniaca che parte; i dieci centimetri che rappresentano una distanza siderale…). La sezione In suo nome, a metà strada tra un dialogo a distanza e un salmo responsoriale, investe con intensità travolgente – in un pathos che fa a meno della retorica –; più calata nella storia Io vivo qui, specie il vibrante e rabbioso prosimetro VII che ristabilisce equità, al di là di ogni artefatta ideologia, e restituisce quanto perduto (un nome, una vita) ad un pubblico ufficiale che decide di schierarsi dalla parte dei partigiani comunisti. La materia su cui si traccia questa frontiera è sottile, fragile e rende la terra di confine, che Tomada abita, la martoriata terra di tutti. Leggendo questo libro ci si ricorda che una visione, una lettura non tendono al bello, ma a qualcosa che è più simile ad ustioni sulla pelle e a un malessere dalle parti dello stomaco e che, dopo, qualcosa cambierà per sempre.



IV.


Il museo della guerra di Karlovac è
una caserma bombardata che puzza di urina
nel cortile ci sono cannoni e mezzi corazzati
quelli nemici semidistrutti
quelli croati nuovi e lucidi
come se la battaglia dovesse ricominciare domani

nel mezzo quello che resta di un Mig
i ragazzini lo guardano entusiasti
gli corrono attorno

ma io vorrei dirgli che la coda di un aereo abbattuto
non è come quella di una lucertola
che si stacca senza dolore
se la stringi tra le mani

sulla fusoliera c’è una stella rossa
vorrei dirgli che anche in volo
non ha mai brillato come quelle vere
dal suo cielo di lamiera



VIII. Anonimi si nasce


I tuoi occhi hanno il colore di terra bagnata
se io fossi contadino direi buona da coltivare
ma da contadino mi sentivo solamente
quel fare grossolano e inadeguato delle mani
quando ho messo in te il mio seme
il mio gesto voleva essere di amore
ma somigliava più a un atto primitivo
un urlo lanciato con il ventre
mentre tu trasformavi in un embrione
il mio sentirmi vivo


I. Io vivo qui pt. I


Una volta sono venuto qui a Redipuglia, tra tutti i nomi ne cercavo
uno per mio figlio che stava arrivando, cercavo un’idea. Poi ho
scelto altro, non volevo che avesse un’eredità così pesante, bastava
già il mio cognome. Eppure qui di nomi ce ne sono abbastanza,
trentamila nomi per intere generazioni di figli del nordest e
settantamila militi ignoti, anche per tutte le volte che si è fatto
l’amore e non ne è nato niente.



II. 1920


C’è questa foto del millenovecentoventi
dove si vede distrutta la casa che adesso abitiamo
una granata italiana l’aveva colpita
proprio la casa proprio la camera
dove poi abbiamo concepito i figli
ma di quei momenti nostri non ci sono immagini
e la vita quando esplode dentro non fa nessun rumore
e anche io ti ho posseduta così si dice
ma in realtà non ho posseduto niente
sei come questa terra dove per lasciare un segno
è inutile combattere bisogna appartenere
diventare umili e abitare con pazienza
come fa il colore su una rosa


XII. Io vivo qui pt. II


Ti voglio descrivere un orizzonte:
dal pendio del Podgora alla conca dove riposa la città
e poi su al labbro scuro del Sabotino
saranno tre chilometri in linea d’aria.

Adesso lo voglio misurare:
per riempire il cielo serve un pugno di rondini in volo;
novant’anni fa per prendere questa terra
morirono quattrocentomila soldati.

Gorizia ha quarantamila abitanti, per ciascuno di noi ci sono dieci morti.
Le rondini invece non bastano per tutti.
Per questo, quando ne arriva una, fa primavera.


***


(parla lei)


Sembrava bello che costruissero le case al posto dei campi
poter vivere in un posto dove prima si era solo lavorato
forse ho sbagliato perché era il tempo della tv in bianco e nero
e non ho mai guardato fino in fondo il colore dei tuoi occhi
ma in te ho creduto davvero mi sembravi la liberazione
dopo un’infanzia di mattoni e stracci e fratelli da crescere
forse ho sbagliato perché le ragazze di buona famiglia hanno fretta
e così tanta paura della solitudine da correrle incontro
forse perché lavoravi come meccanico di aerei
e ho pensato che sapevi aggiustare le cose
e se tornavano a volare i mostri da dieci tonnellate di metallo
allora avrei potuto farlo anch’io che un giorno ci avevo provato
saltando dal secondo piano del fienile con un ombrello per paracadute
e un poco di leggerezza dovevo averla già dentro di mio
se non mi ero fatta niente

(parla lei)


Abbiamo ristrutturato una casa per viverci
travi a vista e odore di malta e legno
un nido d’amore dicono ma io
non ho mai visto animali con un nido di cemento
a volte stiamo insieme come è scritto si deve fare
a volte tu esci e non so dove e con chi vai
quando avrò una figlia
per prima cosa le insegnerò che gli uomini
certe sere vengono troppo presto
ma in altre non arrivano mai


(parla lei)


Un giorno voglio crocefiggerti sul letto usando le mie braccia
riprendermi il piacere ed il dolore della prima volta
per ogni notte in cui sei stato indifferente sarò il giudice e la pena
tu sarai la terra dove scavo un solco passando e ripassando con i piedi
la traccia a semicerchio consumata dai cani alla catena



(parla il figlio)


Racconti spesso che dopo l’armistizio del ‘43
i tuoi ti mandarono a Paluzza
per paura dei tedeschi


abitavi da uno zio sacerdote
portavi il latte dal casaro alla mattina presto
poi giocavi tutto il giorno fra prati in discesa
e mulattiere perché le scuole erano chiuse


io passo spesso a Paluzza d’inverno
so che una volta vorresti venire anche tu
ma è meglio di no
piuttosto tieniti stretti i ricordi dell’unico anno
in cui sei stata davvero bambina


oggi le strade sono asfaltate le case quasi tutte nuove
nessuno fa fieno e sembra che l’erba cresca per niente
poi la segheria in fondo al paese l’hanno comprata
i Gartner da Wurmlach - forse non li temi come allora
.......................ma sono arrivati i tedeschi



[...]

(parla lei)


E so di non essere mai stata bella come volevi
ho il corpo minuto il bacino sporgente di ossa
spigolose come le figure nei disegni dei bambini
i seni troppo piccoli per allattare un neonato
dunque anche per soddisfare un uomo cresciuto
un corpo da serva più che da moglie
si sarebbe detto una volta
ma ci ho provato
ho provato anche a somigliare alle altre donne che incontravi
vestirmi come loro truccarmi come loro
fino ad accorgermi che quando facevi l’amore con me
era loro che sognavi

[...]


(parla lei)


Un giorno voglio crocefiggerti sul letto dove mi piegavo dalle doglie
per il secondo parto pensavo tu scherzassi quando ti chiedevo
di portarmi in ospedale perché stavo sempre peggio
e tu mi rispondevi “un attimo e finisce la partita”:
io aspettavo un figlio, tu che nei minuti di recupero
Altafini segnasse la rete del pareggio


[...]


V.


Se quello che stiamo vivendo è l’amore
cerchiamo che cosa c’è oltre
perché avevamo giurato due cose
la prima: saremo fedeli non per dovere
ma per volontà
seconda: accontentarsi
è come tradire


X. Tre diviso due


Ricordo che un giorno scherzavamo
se ci lasciassimo cosa sarebbe dei nostri tre figli
uno e mezzo a testa?
li taglieremmo a metà?
era un gioco stupido, ancora più stupido
adesso che sembra avverarsi
c’è una realtà dove tutti si perde
e tre diviso due fa zero



Francesco Tomada è nato nel 1966 e vive a Gorizia. La sua prima raccolta, “L’infanzia vista da qui” (Sottomondo), è stata edita nel dicembre 2005 e ristampata nel marzo2006; nel 2007 ha vinto Premio Nazionale “Beppe Manfredi” per la migliore opera prima. È vincitore e segnalato in diversi altri concorsi. I suoi testi sono stati pubblicati in Slovenia, Canada, Francia, Slovacchia, e tradotti anche in altre lingue. E' inserito nell'antologia "Dall'Adige all'Isonzo. Poeti a Nord-Est" (Fara 2008)