lunedì 5 gennaio 2015

François Bruzzo su Antonio Porta

 


Qualche tempo fa Rosemary Liedl, vedova di Antonio Porta, mi spedì un articolo scritto su suo marito dallo studioso – italo-francese e vicentino d’adozione –  François Bruzzo, che uscì il 2 luglio 1993 su “Il Gazzettino”. Lo ripropongo, per affetto verso tutti i protagonisti della vicenda e perché è un bell’articolo, ricco di informazioni rare e preziose.

 

 

Antonio Porta, la voce forse più significativa della poesia italiana dell'ultimo trentennio, presente nelle più varie antologie della poesia italiana del Novecento; deceduto il 12 aprile del 1989. a Roma mentre si preparava ad intervenire al Maurizio Costanzo Show, era nato a Vicenza il 9 novembre 1935, e non a Milano, come riportano le più varie fonti biografiche, dalle antologie anche più serie sino alle enciclopedie, dizionari e storie della letteratura italiana.


Così, Porta che viene facilmente indicato come figura ideale del poeta milanese (erede delle istanze poetiche della "Linea 1ombarda" definita da Luciano Anceschi nel '52 come "poetica degli oggetti"), il cui esponente più prestigioso era Vittorio Sereni; Porta il cui nome è legato alle scosse più avvincenti e salutari che la sua generazione abbia regalato alla poesia italiana e che pertanto si fondeva alla perfezione con l'immagine di una cultura che a Milano era maggiormente aggiornata sulle idee che provenivano dal resto dell'Europa e soprattutto d'oltralpe; Porta il più affermato dei novissimi, sperimentali, del Gruppo 63, della neoavanguardia, è nato e ha soggiornato con il vero nome di Leo Paolazzi sui pendii che portano a Monte Berico. Cancellare Vicenza dalla sua vicenda anagrafica corroborò l'intento della scelta di uno pseudonimo.


Se a Milano, figura della metropoli europea, va la parte dichiarativa e manifesta della sua poesia, in qualche modo la sua urbanità che ne legittima l'accettazione moderna e avanguardistica; al passo con le esperienze europee, a Vicenza tocca qualcosa come 1a parte di Dio, per riprendere un' espressione di Gide, cioè, la parte della testura più che della struttura: in altre parole, Vicenza ricopre la funzione di un interdetto che assume anche il ruolo di una regola, regola che preme nella scrittura di Porta come un non detto dall'enorme forza di gravità comparabile all'efficacia della sua segretezza. L'aura di impronunziabilità con la quale Porta ha sigillato per un'intera vita le "sillabe che nominano la sua famiglia a Milano nel dicembre del 1936. A Vicenza dei Paolazzi rimarrà Bonfiglio, nonno di Leo, che è all'origine della presenza della famiglia Paolazzi in quella città in quanto vi risiede dal novembre del 1922 in strada delle Scalette di Monte Berico 2, fino al 1949 per poi trasferirsi a via Dante 15, presso una sua figlia. A Trento Bonfiglio Paolazzi aveva svolto un'intensa attività politica al parlamento di Vienna come deputato clericale eletto nelle file del Partito popolare trentino nel 1911 cede il posto ad Alcide De Gasperi. Il suo arrivo a Vicenza è probabilmente dovuto alla presa in mano della questione trentina da parte dei rappresentanti fascisti che avevano già manifestato a Trento la violenza della loro politica nazionalistica prima ancora della marcia su Roma.


Dopo la morte della moglie, Bonfiglio si fa prete all'età di 74 anni e dice, a quanto pare, la sua prima messa nel Duomo di Vicenza il 24 maggio 1954. La forte educazione cattolica impartita dalla personalità di Bonfiglio ai suoi discendenti giunge fino a nipoti come si può vedere dalla presenza a Monte Berico di padre Rigobello che è primo cugino di Leo alias Antonio Porta.


Da questa educazione non doveva certo essere esente lo stesso Leo che nel 1960 si Laurea in Lettere moderne all'Università Cattolica di Milano. D'Altronde, benché abitasse a Milano dal 1936, vale a dire dall'età di un anno, il futuro Antonio Porta soggiornava spesso a Vicenza: lo ricorda la signora Rina Bedin, vicentina che dal 1936 al 1939 seguì a Milano i Paolazzi come baby-sitter di Leo e del fratello minore Mario e che da allora si è sempre mantenuta in contatto con l'intera famiglia. Ed è proprio nella casa del nonno delle Scalette di Monte Berico da dove poteva vedere la città raccolta attorno alle sue cupole che il giovane Leo passava i giorni delle sue ricorrenti presenze a Vicenza.


Ora non c'è dubbio che vi sia stato da parte di Antonio Porta un attento occultamento delle coordinate anagrafiche e biografiche di Leo Paolazzi che quic'interessano, e l'uso dello pseudonimo sembra ripercorrere qui la sua funzione forse più comune e ovvia di negazione del nome del padre e di tutto ciò che esso comporta di lascito paterno e patrilineare.


Se proviamo a interpretare l'autofinzione che sorregge il personaggio di Antonio Porta milanese, la Vicenza di Leo Paolazzi che viene inabissata nei recessi segreti della memoria, sembra albergare il nodo certamente problematico del farsi di una personalità in quell'insieme di vissuto e di immaginario dei rapporti in seno alla famiglia che Freud chiamava "romanzo famigliare". Inoltre la Vicenza segreta di Porta sembra celare il problematico radicamento della sua scrittura poetica. Leo Paolazzi si rivela allora compagno necessario dalla cui negazione e probabilmente tormentato rifiuto e rigetto doveva nascere il poeta Antonio Porta milanese. La vicenda di Porta sta a dimostrare - come ce ne fosse ancora bisogno - che la scrittura e l'invenzione poetica e artistica moderna sorgono da uno sconforto, da uno stare male nella propria pelle che per un poeta è la propria lingua, il proprio nome, e che scrivere come l'ha detto in modo folgorante Rimbaud vuole dire tentare d'inventare una nuova lingua, salpare verso un nuovo mondo con un nuovo nome e una nuova genealogia che mira a fare dello scrittore un soggetto generato dalla propria opera.


Le informazioni biografiche sono abbastanza incomplete per dar luogo ad un'interpretazione solida, esse sono limitate a note biobibliografiche più o meno lunghe ma aggiunte al passato vicentino qui appena abbozzato, offrono abbastanza materiale per elaborare alcune ipotesi sulla manovra sotterranea delle origini di Porta nella sua opera.


Innanzitutto voler essere milanese piuttosto che vicentino ha una ovvia ragione quando si è poeta d'avanguardia all'inizio degli anni Sessanta: una città di provincia fra le più conservatrici e cattoliche, rannicchiata all'ombra del suo santuario come un Belacqua dantesco, è luogo certo ideale per Bonfiglio Paolazzi ma costituisce l'opposto più sistematico dell'apertura intellettuale sull'Europa e della circolazione delle idee che la città lombarda poteva offrire. Ma non c'è una successione fra il mondo di Paolazzi e quello di Antonio Porta milanese.


Paolazzi rimane in qualche modo ossequioso nelle file di Bonfiglio mentre Porta si ribella contro i linguaggi della tradizione inseguendo la traccia notturna e ctonia della parola poetica, viaggio nel cuore delle tenebre di risonanza orfica e dantesca allo stesso tempo. Ora si può percepire nel disegno dello pseudonimo scelto da Leo Paolazzi l'unico modo per essere sincero di fronte a sé stesso, una possibilità di aprirsi a un «se stesso» che così si muove nella distanza in cui si muove un personaggio di finizione.


Se lo pseudonimo si rivela un buon strumento per penetrare nel labirinto della propria soggettività come in quella di un personaggio, la finzione anagrafica dell'origine milanese può offrire la via la più corta e la più sicura per aprire silenziosamente, senza essere visto, la casa della memoria vicentina. È probabilmente troppo presto per ricostruire il giusto peso del nucleo affettivo che in qualche modo arroventa la vicenda vicentina di Porta, qualcosa che comunque per il poeta, l'artista della parola, passa per il linguaggio, ovvero si cristallizza in nomi e parole altamente significanti, talmente significanti che il migliore modo per venirne a capo, intenderli, interpretarli, leggerli è di evitare di pronunciarli nella loro greve evidenza per invece aggirarli in modo che il loro contenuto si riveli.


Nella raccolta «Passi passaggi» che Porta dà alle stampe nel 1980 (Mondadori) c'è un testo intitolato «Il segreto» datato nel 1979 e che fa parte di una sezione intitolata «Sulla nascita», appunto. Questo testo offre argomenti strategici sulla questione della nascita vicentina di Porta. Inizia cosi: Amico, voglio confidarti un segreto, / da molto tempo provo questo desiderio / di avvicinarmi al tuo orecchio peloso di lupo / sillabare tutte quelle parole che dicano / quello che non riesco a sapere. Questo segreto é «l'ombra», dice il testo, in me sta la voglia di provare «che in qualche luogo ci sono», che in qualche luogo sta la mia nascita, il nodo della mia soggettività, in aperta campagna, forse, di fronte / alla città sepolta dai veleni. Questi ultimi versi contengono due importanti componenti della poesia di Porta: da una parte la campagna i suoi oggetti, i suoi paesaggi, la sua vita e suoi usi che hanno una presenza forte per un poeta metropolitano (quale lo suggerisce la volontà di nascere milanese), dall'altra una città delimitata (di "fronte" dice il testo), spesse volte descritta dall'alto, come lo è spesso la città di provincia in letteratura, la stessa Vicenza.


La metropoli invece viene vista dalla sua illimitatezza, dal suo effetto mare e spesso chi la guarda vi è immerso. Ora la città di Porta tende a raccogliersi, come d'altronde il piccolo Leo l'aveva spesso vista dalla casa delle Scalette di Monte Berico... In quanto ai "veleni" potrebbero significare la problematicità del nodo affettivo che Vicenza poteva evocare nell'immaginario portiano. Nel medesimo testo, in un verso strategico che precede quelli appena commentati, si può leggere nel segreto delle parole, in anagramma, il nome della città natale, diventata parola sotto le parole, fantasma che abita il discorso poetico: Amico, avvicina la tua bocca languida e ferina / che voglio soffiarci dentro le parole / travasarci la diffusa essenza dell'ombra.

 


François Bruzzo: acquisito il baccalauréat philosophie (in Francia, con menzione ottimo), frequenta per 3 anni (1971-1974) i corsi di arte drammatica di Jean Meyer  al Teatro dei Célestins di Lione, Laurea dell’École des Beaux-Arts di Besançon (Francia, menzione  ottimo), Laurea in Lingua e letteratura francese all’Università di Padova (con una tesi sul linguaggio poetico dell’avanguardia francese degli anni  settanta che ottiene massimo dei voti con invito alla pubblicazione), Docteur dell’Écoles des Hautes Études en Sciences Sociales (con una tesi diretta da Louis Marin sulla relazione fra letteratura e arte nell’invenzione letteraria dell’ottocento francese, menzione très honorable, massima distinzione con pubblicazione).

Presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociale è stato allievo di Algirdas-Julien Greimas, Gérard Genette, Jacques Derrida, Louis Marin. Lettore di lingua francese all’Università di Padova dal 1980 al 1986 diventa ricercatore di letteratura francese alla IULM nel 1986 dove da allora insegna.

Ivi ha insegnato anche Storia del Teatro e dello Spettacolo  per quattro anni consecutivi dal 2000 al 2004 e Storia della Lingua francese. Ha fondato un centro universitario teatrale nel 1999 specializzato nel  recitare in varie lingue europee (tournée in Italia e all’estero. È autore di numerosi testi teatrali  regista, scenografo e attore con  collaborazioni e partecipazioni nel campo del cinema.


 

4 commenti:

  1. sono in molti che mi chiedono chi ha scattato la foto. Il fotografo è Fabrizio Ferri. Forse è il testo sotto la foto, pubblicata su Vogue, che è interessante.
    La trascrivo integralmente.
    Le parole che uniscono (titolo)
    Antonio Porta è l'uomo che Rosemary ha scelto di amare.
    «Un poeta. Il padre dei nostri figli. Un caratteraccio con cui viaggio attraverso le minuzie quotidiane. Un poeta che ho scoperto studiando la sua opera, osservandolo agire, mettendo ordine nel suo archivio. Insieme abbiamo fondato un'agenzia letteraria: Agenzia. Sono nata in America e il mio approccio alla cultura è diverso. Qui, in Italia, la cultura è poco materiale e troppo letteraria. Abbiamo unito, Antonio e io, le diverse esperienze puntando su obiettivi comuni. In quanto filtro fra editore e autore, vorremmo stimolare la produzione italiana. Questo lavoro di setaccio ci permette di comunicare fra noi a qualsiasi ora del giorno o della notte».

    Rosemary Liedl è la donna che ha affascinato il poeta.
    «Insieme nutriamo il nostro desiderio di conoscere. I 19 anni che ci dividono mi portano nuova freschezza con gli occhi della generazione dopo la mia. Rosemary è un caratteraccio che, sommato al mio, crea certezze, punti di riferimento. Il progredire diffuso della cultura con momenti di punte supremi è cosa, per noi, esaltante. La lingua italiana si è arricchita, non è lacerata, bombardata come alcuni pensano. Io cerco racconti, leggo pacchi di roba. In Italia esiste un grande fermento. Sono onnivoro non solo per quel che riguarda i cibi, ma anche per i linguaggi, le parole.
    Con Rosemary condivido il mio lavoro artigianale di falegnameria del linguaggio».

    Benedetta Barzini


    Da: DONNA, International Fashion Magazine, - anno 5 - n. 60 – Dic. ‘85/Genn. ’86 numero speciale: Storie di coppia d’amore e di moda
    © Edimoda S.p.A., Milano

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    1. Grazie Rosemary per questa preziosa testimonianza!

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  2. Molto interessante la lettura dell'articolo di F. Bruzzo.
    Mi è piaciuta in modo particolare l'interpretazione psicoanalitica che "porta" alla luce il lavoro sotteraneo dell'inconscio nell'invenzione della scrittura e della poesia.
    Ringrazio Stefano che saluto caramente.

    Stefania Bortoli

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  3. Li ho amato e conosciuti da vicino e da lontano. Abitando i navigli e abitando la letteratura fu fatale, come con Alda Merini.
    Lo straordinario magnetismo della sua mente era pari alla grande "porta" affettiva aperta verso le persone, e i poeti.
    Riceveva anche a mezzanotte i giovani che volevano discutere con lui, assetati di consigli.
    Unico da solitario, e unico come creatore di legami. In "Vitae" (La vita felice, 2017) antologia di miei racconti ne faccio un ritratto molto più ricco.

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