giovedì 15 aprile 2010

Scritti nomadi (una lettera)



Inauguro una rubrica intitolata "Lettere agli amici", che ha il pregio, spero, di evidenziare in via informale le mie idee intorno alla poesia. Sono lettere autentiche, dalle quali ho tolto il nome del destinatario per ovvie ragioni di privacy. La prima riferisce al mio primo libro di saggistica edito, scritto tra il 1999 e il 2001, Scritti nomadi. Spaesamento ed erranza nella letteratura del Novecento (Anterem 2001)



autunno 2001

Caro Alfonso (Cariolato),

non ho resistito a lungo alle questioni, certo stimolanti, che mi hai posto. Cercherò allora di rispondere ad alcune.

Il titolo. il nomadismo cui allude il titolo, è anzitutto il mio, nell’accezione più ordinaria (più turistica): nella composizione del libro mi sono mosso con una certa arbitrarietà, passando di luogo in luogo con la curiosità e l’entusiasmo di chi visita un paese nuovo. Certo una mappa, in testa, l’avevo. Anzi, più che una di mappa circostanziata, si trattava di un’impressione da verificare, che tu hai colto benissimo: se davvero, dopo Nietzsche, l’erranza diventa condizione ordinaria della presenza conseguente alla perdita del centro, essa dovrà lasciare traccia anche nello spazio letterario.

Posta così, tuttavia, la questione avrebbe avuto un’evidente lacuna, giacché mi avrebbe obbligato a verificare sugli autori l’aderenza o meno alla verità nietzscheana. Il nomadismo di Zarathustra sarebbe in altri termini diventato il modello, “l’istanza ultima”, la “semplice presenza” cui riferire le altre possibili erranze, con evidente contraddizione (almeno se accettiamo l’idea che l’essere non sia l’ente). Per dirla in breve, ho evitato di definire nomadismo ed erranza perché volevo che essi emergessero dai singoli autori. Presupposto dunque che tutti i grandi scrittori del Novecento partecipassero dell’apertura epocale additata da Nietzsche – che tutti cioè vivessero nell’infondatezza del principio, e patissero per questo, e magari lottassero per contrastarne la deriva – ho preferito interrogare i modi della loro presenza, quel loro guardare oltre la soglia che, sin da subito, diventava necessità all’avvio, al cammino.

Proprio per questa ragione, e come tu stesso affermi, credo che non ci sia un solo modo di vivere lo s-centramento. Canetti, Jabès, Camus e Borges non dicono le stesse cose, ma in comune hanno – come sottolineano i titoli dei paragrafi e, occorre dirlo, in via approssimativa, utile a portare in temperatura la questione affrontata successivamente nel testo – una certa propensione a pensare il libro quale metafora del mondo, a concepire l’estraneità quale dimensione dell’abitare (è vero che in Jabès questo ha ben altre conseguenze, per esempio, che in Camus), ad aver vissuto nomadicamente (condizione probabilmente inessenziale rispetto alle altre, ma reale). Capisco che questi sono autori fondamentali che avrebbero dovuto occupare maggior spazio nel mio lavoro…

Scritti Nomadi è un libro nato quale momento critico e interno al mio fare poetico; come necessità dunque di carattere personale, così da chiarire, anzitutto a me stesso, quali spinte profonde sottendano la mia scrittura. Ciò anche per motivarmi a continuare, così da non sentirmi operatore dell’ozio o del privilegio, bensì in fratellanza stretta con il respiro dell’origine (sia essa principio unico o apertura rizomatica e imprendibile).

In secondo luogo, SN si è voluto confrontare con il canone letterario novecentesco, con quell’idea, dunque, in gran parte stereotipata delle scansioni epocali; per esempio, l’idea che il neorealismo recuperi il soggetto, fondandolo sui valori dell’antifascismo, oppure che la neoavanguardia sia oppositiva al facile realismo degli scrittori del secondo dopoguerra. Queste due idee sono state necessarie allorché si sono manifestate; trovarono cioè legittimazione nei bisogni d’identità delle generazioni che si sono succedute. Oggi, tuttavia, credo che la nostra generazione possa ripensare l’intero Novecento senza nostalgia per l’identità e, cosa che ancor più mi preme, possa scrivere in una leggerezza nuova (non serve chiamarla post-moderna, lasciamo stare i nomi), svincolata dalle categorizzazioni, dalla gerarchie, e fissa invece, paradossalmente fissa, nell’oscillazione della presenza che si sa infondata. Un sapere, sia ben chiaro, che non vuole essere “modello primo”, bensì felicemente socratico, operativo, nel senso della messa in opera della parola che, portando con sé il reticolo dell’identità e del suo da-dove, li lasci essere nella loro prossimità imprendibile. Prossimità che, come insegna Heidegger, è anche massima lontananza.

Il chi e il da-dove diventano così i luoghi appellanti con i quali giocarsi il senso della scrittura. Questo, almeno, è quanto accade a me. E non ti dico la fatica che devo fare per cercare di stare in prossimità (ovviamente senza garanzie di riuscita) di quell’eigen che, probabilmente, è il luogo da cui chi e da-dove s’aprono divergendo; il “luogo del poema”, dunque, nell’accezione usata da Heidegger ne In cammino verso il linguaggio: “L’Ort, come quel che riunisce, trae a sé, custodisce ciò che a sé ha tratto, non però al modo dello scrigno, bensì in maniera da penetrarlo della sua propria luce, dandogli solo così la possibilità di dispiegarsi del suo vero essere” (trad. A.Caracciolo).



Indice del volume

Introduzione



Cap. I La responsabilità nell’erranza

1.1 La presenza e il libro
1.2 Lo straniero e l’esilio
1.3 Sul nomadismo degli autori


Cap. II La lacerazione nel labirinto

2.1 Introduzione
2.2 La matrice gnostica del pessimismo di Samuel Beckett
2.3 Mirlitonnades o del silenzio che suona
2.4 Le temporalità possibili nella Cantatrice calva di Eugène Ionesco
2.5 La Storia e Dio nell’ultimo Ionesco


Cap. III L’occasione resistenziale

3.1 Introduzione
3.2 Beppe Fenoglio ovvero la Resistenza come iniziazione
3.3 Identità ed epicità negli antieroi fenogliani
3.4 Lo spaesamento dell’Agnese


Cap. IV Realismi e generazioni

4.1 Introduzione
4.2 Il volo di Calvino
4.3 Paolo Volponi: tra Edipo ed Utopia


Cap. V L’esperienza del dolore nei “Novissimi”

5.1 Introduzione
5.2 Il margine indòmito della poesia di Edoardo Sanguineti
5.3 L’Orco di Alfredo Giuliani
5.4 Antonio Porta: il cantore della caducità
5.5 La Resistenza intratestuale di Nanni Balestrini
5.6 La ragazza Carla o della parola che salva


Cap.VI Le metamorfosi di Orfeo

6.1 L’Orfeo che morde il frutto nei Sonetti rilkiani
6.2 L’Orfeo-Salvatore di Dino Campana
6.3 L’Orfeo in fasce della Parola innamorata
6.4 La feconda debolezza d’Orfeo nella poesia di G.Conte
6.5 Post scriptum


Cap.VII Soglie

7.1 La parola aurorale di Georg Trakl
7.2 L’esperienza del limite nell’ultimo Zanzotto
7.3 Il pensiero poetante di Flavio Ermini



Cap. VIII Per una ridefinizione del Postmoderno

8.1 Il Postmoderno: una questione controversa
8.2 Del mostrarsi e del celarsi
8.3 Utopia, collocazione, tradizione
8.4 la fine della Storia e la pietas postmoderna
8.5 Conclusioni (e note sulla sensibilità postmoderna nella scrittura italiana contemporanea)

5 commenti:

  1. margherita ealla15/4/10 23:09

    bella questa nuova rubrica!
    e mi sembra che questa "via informale" risulti proprio congeniale (azzarderei socratica) rispetto a "scritti nomadi, per chi come me ti segue (segue Blanc) con interesse e passione, ma certo non del tutto equipaggiata a dovere.

    Grazie perciò della condivisione della lettera.
    trovo anche ottimo avere inserito l'indice del libro.

    ciao!

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  2. per la cronaca: la lettera la spedii ad un amico filosofo, che ora lavora all'università di padova.

    Frazie Margherita per l'incoraggiamento. ne posterò una ogni mese, circa.

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  3. Bene. Allora ne leggeremo una al mese, per imparare.

    E' tornata la foto con la maglietta!
    Ciao.

    ft

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  4. le cose vanno e vengono :-)

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  5. Molto bene Ste!
    quando penso agli scambi epistolari, mi viene in mente quello occultato per anni tra Rilke Pasternak e Cvetaeva.
    questo è meno drammatico ma "tecnicamente" avvincente.
    grazie
    r.

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