venerdì 5 maggio 2017

Raffaele Marone: Camminata contemporanea. A Beirut, ad esempio


Museo nazionale di Beirut (foto di R. Marone)

Una specie di deformazione professionale: chi per lavoro immagina spazi, quando arriva per la prima volta in un sito, sia esso antropizzato o di natura, andandosene in giro comincia a guardarlo come se dovesse abitarci, o come se dovesse pensare lì un disegno che lo trasformi, per abitarlo. La mente comincia a selezionare elementi da raccordare, fili ideali da congiungere, per istruire una interpretazione che è già immaginazione di una possibilità nuova di abitare.

Ma a Beirut quel tipo di sguardo, più o meno fecondo in altri luoghi,  sembra richiedere un cambio di attitudine.  Attraversando la città, innumerevoli cantieri segnati da altissime gru e scavi profondi, facciate bucherellate da migliaia di fori di proiettile esplosi durante i lunghi anni della guerra civile, vaste aree archeologiche, alti muri sovrastati da enormi rotoli di filo spinato, grattacieli scintillanti, grandi e desolati spazi vuoti, vecchie case cadenti, moschee e chiese… e poi lingue diverse che si incrociano ovunque, tante fedi diverse che si incrociano, soldati con i mitra spianati e mendicanti, donne all’ultima moda e sacerdoti di mille chiese… una moltitudine di strati di materiali e di immateriali diversi si affastellano, si sovrappongono, si giustappongono rendendo inestricabile l’accumulo di segni.
Così ti rendi conto che lo stereotipo di Beirut “soglia tra Oriente e Occidente”, che come uno slogan ha potuto spiegare in estrema sintesi il senso della città fino al secolo scorso, non può più essere il piano su cui fondarne un’interpretazione attraverso l’abitare oggi (ogni abitare è un interpretare).

Qui ogni volta che si tende un filo mentale tra un frammento di senso e un altro, il filo si spezza, o un capo non raggiunge quel che vorrebbe legare, oppure si attorciglia.
Ci vuole uno sguardo archeologico che scava, riconosce, pulisce, e mette da parte. Lo sguardo archeologico ha quel distacco dall’oggetto osservato che Agamben ritiene indispensabile per carpire la contemporaneità.

La contemporaneità è, cioè, una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo. Coloro che coincidono troppo pienamente con l’epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono tenere fisso lo sguardo su di essa.
(da “Che cos’è il contemporaneo”, 2010)

Sfalsarsi. Chi abita la contemporaneità cerca non più solo tracce che possano ricostruire antiche narrazioni che, rendendone riconoscibili le differenze tra esse, restituiscano convivenze un tempo possibili. Chi abita la contemporaneità piuttosto cerca frammenti di elementi che appaiano potenzialmente dialoganti per tessere trame nuove tra gli uomini. Quindi può trovare forme nuove alle cose degli uomini e significati inattesi, generati dal solo desiderio di vivere in pace: un abitare allo stato nascente.

La capitale del Libano di oggi non è altro che un ingrandimento al microscopio, una zoomata profonda dentro l’indistinto ovvero quel che è gran parte del mondo contemporaneo. Anche là dove sembra che le identità sociali e culturali siano più circostanziate e stabili si possono ritrovare quegli stessi affastellamenti, sovrapposizioni, giustapposizioni di frammenti che spesso originano conflitti.

Beirut appare allora come paradigma di ogni città del mondo e torna in mente il Celati del “Bazar archeologico” (1975).

…frammenti, oggetti, relitti d’un passato ormai privo di contesto, rovine della storia oramai perdute per la storia: nuovi silenzi che sorgono là dove poco prima c’era un linguaggio capace di parlare dell’esperienza originale e delle motivazioni di quegli oggetti… oggetti segnati da un taglio storico che li rende spaesati o spaesanti, e in cui è proprio la perdita dell’origine a creare il loro interesse di oggetti di riflusso, finora dimenticati. È il bazar al posto del museo, nel senso che gli insiemi di oggetti di un bazar si organizzano secondo una tassonomia fluttuante, non consegnata alla logica di una classificazione che funga da autorità impersonale… è insomma l’oggetto dimenticato che emerge come scarto o detrito di un contesto inabissatosi, e di cui non si può raccontare la storia… Ma con questi oggetti non c’è identificazione possibile: le motivazioni che li hanno prodotti non sono quelle per cui noi li ricerchiamo e li disseppelliamo dall’oblio… raccolta di tracce di sistemi scomparsi, la cui testimonianza è solo testimonianza di un taglio.


Un possibile abitare la contemporaneità sta nel lavorare dentro quel taglio che ha generato quei “relitti d’un passato ormai privo di contesto”, senza l’imperativo concettuale di ricucire; con distacco, per quanto possa essere difficile.


Il lavoro di Raffaele Marone  (Napoli 1960) attraversa l’architettura, le arti visive, la musica, la poesia.
Sue poesie sono state pubblicate su “Le Voci della Luna” e, in rete, su “Blanc de ta nuque”.
Ha ricevuto dei riconoscimenti al Premio di poesia Montano.
Ha pubblicato libri, progetti e saggi di architettura, tra cui i più recenti Fare luoghi. Abitare come arte d’insieme (2015) e Architetture di terre con un mare in mezzo. La porosità come carattere mediterraneo (2016).

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