Museo nazionale di Beirut (foto di R. Marone)
Una specie di deformazione
professionale: chi per lavoro immagina spazi, quando arriva per la prima volta
in un sito, sia esso antropizzato o di natura, andandosene in giro comincia a
guardarlo come se dovesse abitarci, o come se dovesse pensare lì un disegno che
lo trasformi, per abitarlo. La mente comincia a selezionare elementi da
raccordare, fili ideali da congiungere, per istruire una interpretazione che è
già immaginazione di una possibilità nuova di abitare.
Ma a Beirut quel tipo di sguardo,
più o meno fecondo in altri luoghi, sembra
richiedere un cambio di attitudine. Attraversando la città, innumerevoli cantieri
segnati da altissime gru e scavi profondi, facciate bucherellate da migliaia di
fori di proiettile esplosi durante i lunghi anni della guerra civile, vaste
aree archeologiche, alti muri sovrastati da enormi rotoli di filo spinato,
grattacieli scintillanti, grandi e desolati spazi vuoti, vecchie case cadenti,
moschee e chiese… e poi lingue diverse che si incrociano ovunque, tante fedi
diverse che si incrociano, soldati con i mitra spianati e mendicanti, donne all’ultima
moda e sacerdoti di mille chiese… una moltitudine di strati di materiali e di immateriali
diversi si affastellano, si sovrappongono, si giustappongono rendendo
inestricabile l’accumulo di segni.
Così ti rendi conto che lo
stereotipo di Beirut “soglia tra Oriente e Occidente”, che come uno slogan ha
potuto spiegare in estrema sintesi il senso della città fino al secolo scorso, non
può più essere il piano su cui fondarne un’interpretazione attraverso l’abitare
oggi (ogni abitare è un interpretare).
Qui ogni volta che si tende un
filo mentale tra un frammento di senso e un altro, il filo si spezza, o un capo
non raggiunge quel che vorrebbe legare, oppure si attorciglia.
Ci vuole uno sguardo archeologico
che scava, riconosce, pulisce, e mette da parte. Lo sguardo archeologico ha
quel distacco dall’oggetto osservato che Agamben ritiene indispensabile per carpire
la contemporaneità.
La contemporaneità è, cioè, una singolare relazione col
proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più
precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso
una sfasatura e un anacronismo. Coloro che coincidono troppo pienamente con
l’epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono
contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono
tenere fisso lo sguardo su di essa.
(da “Che cos’è il contemporaneo”, 2010)
Sfalsarsi. Chi abita la
contemporaneità cerca non più solo tracce che possano ricostruire antiche
narrazioni che, rendendone riconoscibili le differenze tra esse, restituiscano
convivenze un tempo possibili. Chi abita la contemporaneità piuttosto cerca
frammenti di elementi che appaiano potenzialmente dialoganti per tessere trame nuove
tra gli uomini. Quindi può trovare forme nuove alle cose degli uomini e
significati inattesi, generati dal solo desiderio di vivere in pace: un abitare
allo stato nascente.
La capitale del Libano di oggi
non è altro che un ingrandimento al microscopio, una zoomata profonda dentro
l’indistinto ovvero quel che è gran parte del mondo contemporaneo. Anche là
dove sembra che le identità sociali e culturali siano più circostanziate e
stabili si possono ritrovare quegli stessi affastellamenti, sovrapposizioni,
giustapposizioni di frammenti che spesso originano conflitti.
Beirut appare allora come
paradigma di ogni città del mondo e torna in mente il Celati del “Bazar
archeologico” (1975).
…frammenti, oggetti, relitti d’un passato ormai privo di contesto,
rovine della storia oramai perdute per la storia: nuovi silenzi che sorgono là
dove poco prima c’era un linguaggio capace di parlare dell’esperienza originale
e delle motivazioni di quegli oggetti… oggetti segnati da un taglio storico che
li rende spaesati o spaesanti, e in cui è proprio la perdita dell’origine a
creare il loro interesse di oggetti di riflusso, finora dimenticati. È il bazar
al posto del museo, nel senso che gli insiemi di oggetti di un bazar si
organizzano secondo una tassonomia fluttuante, non consegnata alla logica di
una classificazione che funga da autorità impersonale… è insomma l’oggetto
dimenticato che emerge come scarto o detrito di un contesto inabissatosi, e di
cui non si può raccontare la storia… Ma con questi oggetti non c’è
identificazione possibile: le motivazioni che li hanno prodotti non sono quelle
per cui noi li ricerchiamo e li disseppelliamo dall’oblio… raccolta di tracce
di sistemi scomparsi, la cui testimonianza è solo testimonianza di un taglio.
Un possibile abitare la
contemporaneità sta nel lavorare dentro quel taglio che ha generato quei “relitti d’un passato ormai privo di contesto”, senza l’imperativo concettuale
di ricucire; con distacco, per quanto possa essere difficile.
Il lavoro di Raffaele Marone (Napoli 1960) attraversa l’architettura, le
arti visive, la musica, la poesia.
Sue poesie sono state pubblicate
su “Le Voci della Luna” e, in rete, su “Blanc de ta nuque”.
Ha pubblicato libri, progetti e
saggi di architettura, tra cui i più recenti Fare luoghi. Abitare come arte d’insieme (2015) e Architetture di terre con un mare in mezzo. La porosità come carattere mediterraneo (2016).
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