Il progetto poetico di
Elena Cattaneo ne Il dolore un verso dopo (Puntoacapo Editrice – Collezione Letteraria, 2016) è ambizioso fin dal titolo dell’opera, perché è ben noto che in
poesia scomodare gli assoluti come nel caso di “dolore” può risultare
pericoloso, può portare ad un’asettica astrazione, eppure è proprio quel
riferimento a “un verso dopo” che credo dia una maggiore chiave interpretativa,
quasi a voler testimoniare la volontà di un superamento, di una via di fuga dal
dolore che trova senz’altro nella scrittura un appiglio, per quanto precario.
Quel dolore che è tuttavia pervasivo, latente in ogni gesto o azione, che sa
operare a “tempo indeterminato”, come
il perfetto impiegato di una fabbrica della follia, della consunzione, e assume di volta in volta nel lavoro
poetico sembianze o simbologie diverse come quella del “diavolo” o della “melagrana
sfatta” o di “brutti muri d’intonaco”
portando sempre alla inevitabile conclusione, perentoria: “Più capisco e più ho paura”. È quasi
superfluo dire che una poesia di questa natura non può se non prendere le mosse
da forti, incisive esperienze di vissuto – e crediamo di non sbagliare
nell’assumerlo come un dato di fatto - ma l’autrice riesce con accortezza (o
forse per necessario pudore) a non esplicitarle e quindi evita di cadere in un
autobiografismo che rischierebbe di trasformare la sua poesia in atto
auto-consolatorio o solipsistico. Anzi è grazie al dono del transfert, alla
virata percettiva quasi fino al simbolismo onirico che questa esperienza
esistenziale – vera e dura al contempo – e con lei il cammino personale
dell’autrice diventano – credibilmente – viatico dalla valenza universale ed hanno
quindi quella necessità espressiva e contenutistica che la poesia pretende
(come fa ben notare Ivan Fedeli nella illuminante postfazione).
La prima sezione
dell’opera emblematicamente intitolata “Canti
dell’insonnia” ci pare pervasa da un intreccio sotterraneo, da una
costruzione quasi di tipo drammatico, senza che la trama sia mai dichiarata, sembra
anzi procedere per frammenti di un poema non scritto: in un testo si dice
infatti “e nessun attore sa, veramente, /
cosa deve fare”. I vari testi hanno continui rimandi fra di loro, a tratti una
sentenziosità che sembra al contempo interrogativa ed interlocutoria, lascia
aperta la strada della soggettivazione per il lettore. Si vedano versi
emblematici come “Nel tempo percepiamo un
fuscello di noi. // Basta quello.”, “Domani lo stesso, e ancora, e poi di nuovo.”
efficacemente ripetuto nel testo quasi a voler sottolineare la categoricità
del pensiero, ma di converso anche una meccanicità che non dà via di scampo, e
ancora “La circolarità perfetta non ha /
bisogno di noi”. Un’umanità quindi che assiste come comparsa ad un dramma
al di fuori della sua portata o nel ruolo di esclusa, che cerca di contrastare
con armi spuntate l’accadere del mondo, alla ricerca di una possibile linea di
galleggiamento, “il puntino stella” (e
si noti la pregnanza di questo diminutivo che dice tutto) o un “dio” (non a caso scritto in minuscolo,
con sapiente allusività) che altrove “Diventa
subito un ghigno. // Mi è consono”. Ghigno come ineluttabile storpiatura di
un ipotetico sorriso, di una felicità possibile. La verità è altra: “Nella morte la vita si nutre.” o ancora “si passa dai santi ai morti” – e si
badi bene, non viceversa. Tutto
procede per annichilimenti progressivi dell’essere, cancellazioni e
liquefazioni dei tratti distintivi della persona (“la bocca cancellata”, “gli occhi bassi”), esperienze di
dissoluzione (evidenti i riferimenti alla lezione di Eliot, alla morte per
acqua o per fuoco, come in “Come un
bambino che annega in silenzio, sott’acqua”: chiusa splendida e terribile).
Un agone arduo in cui l’uomo si deve confrontare a denti stretti con la propria
“imperfezione”, senza moneta di
scambio durevole che la risolva, nella prospettiva unica e certa “Che la salita è lunga.”
La sezione "Sintesi I" amplifica
questa poesia come drammatizzazione dell’essere: si vedano ad esempio “Jesi e
le marionette” con i “corpi di legno farsi vivi” e ancora
altrove “giullare scomposto”, “testa di
pezza”, “Dalla volta / oscura / del teatro”. Le poesie “Il nemico”, “L’orafo”
e “Stabat Mater dolorosa” – quasi una sacra rappresentazione in miniatura - sembrano
procedere per dramaticae personae,
sempre nel solco della lezione eliotiana arricchita dalla cifra personale
dell’autrice. Anche la parola, strumento della poesia, può in questo mondo
stravolto divenire inganno: si veda la splendida “Le parole” dove ogni verso è
realmente necessario, il linguaggio scarnificato ed amplificato di senso.
Memorabile la chiusa: “Le parole sono
trappole / e ci si lascia / ammansire /per non uccidere / troppi predatori.”,
con questo verbo impersonale che unisce all’altro, esclude di nuovo la poesia
come consolazione, io che dunque si fa altro da sé. E tuttavia, nonostante la
icasticità della chiusura della sezione, il titolo Sintesi I lascia intendere
che sia prevista una seconda parte, ma non presente in questo libro, un
deliberato omissis: questo elemento conferma ulteriormente la volontà di una
poesia in fieri, genera quel senso di attesa funzionale a una poesia per
frammenti, che come si diceva sopra è a nostro giudizio elemento caratterizzante
di questa autrice.
La sezione "Piccolo
Quaderno" comprende testi abbastanza eterogenei, molti dei quali probabilmente anteriori
rispetto alla parte iniziale del testo. A poesie che traggono spunto da
occasioni di viaggio in cui l’autrice dimostra anche la capacità del lampo
impressionistico e dell’interiorizzazione del paesaggio, si aggiungono altri
testi in cui si sviluppa ulteriormente l’altro leit-motiv dell’opera, ossia il
tema della maternità. Soggetto che compare fin dall’avvio (“La mamma piange la notte” è il primo verso del libro) quello
della maternità, come anello di giunzione fra non-essere ed essere, womb-tomb di
dylaniana memoria, dono di vita che racchiude in sé il grumo della morte,
maternità come strumento non-salvifico di conoscenza (si veda “grembo / lacerato” con caustico
enjambement). Nascita anche come nominazione dell’essere, che si dà dunque nome
ma pur sempre conscio della sua ambiguità, dell’incapacità di svelare il senso
delle cose (si vedano “Genesi” e la efficace chiusa di “Io” dove il nome
diventa quasi retaggio mitico, laccio inesplicabile: “Elena degli enigmi, / Elena dei sussurri, / Ileni persa in un vento
di sogno.”). Tema questo che meriterebbe un’analisi a sé, più ampia che non
è qui possibile condurre – data la complessità delle raffinate citazioni eliotiane.
Merita rimandare il lettore all’approfondimento di testi come “Spingo forte” in
cui la maternità sembra poter vincere il giogo di dolore, farne “pane nuovo” da un “cranietto di bimbina prematura” (dettaglio espressionistico che
s’imprime nel lettore), o “Il Gioco” con il riuscito effetto dialogico a
sorpresa, solo ingannevolmente condotto con un linguaggio per così dire ingenuo
o quasi infantile, o “E adesso” dove ricompare il tema del nome come sbaglio /
equivoco e merita ricordare la bella similitudine che dà colore al testo (“come una brutta mongolfiera / piena di
vanità infiammabili.”). Magistrale l’incipit di “1998”, il verso “Agosto chimico.” inquietamente puro
nella sua asintatticità.
Il libro si chiude con
la riuscita poesia “Attraversamenti” (coincidente con il titolo della sezione)
concentrato di potenza espressiva e linguaggio erosivo, detonante. A conferma
della dedica iniziale (A Penelope, Molly
e tutte le altre – e in questo “tutte le altre” sta il vero ganglio del
messaggio) l’io poetico si astrae ad emblema del femminino come grumo di dolore
e nucleo irrisolto, “Vecchia nave / allo
sfasciacarrozze”, ripetizione incessante di un perpetrarsi d’errore ed
inganno, di un’umanità relegata a un “altrove utile al collezionista”. L’esistenza
– crediamo di poter dire - si sostanzia dunque nell’attesa, nell’ambire ad un
ritorno che sia scoperta di sé, “ritrovata
unità” e consenta il valico a quel “verso
dopo”, l’attraversamento appunto. Sembra
quasi volerci dire Elena Cattaneo, alla maniera del suo amato Eliot, che solo
da un cumulo di macerie si può cercare di puntellare una ragione di vita,
appunto da una “serenità trasfigurata. /
E intanto una molly aspetta.”
Da
Elena Cattaneo, Il dolore un verso
dopo, Puntoacapo Editrice – Collezione Letteraria, 2016
*
La
mamma piange la notte,
stanca
vaga tra
la
strada sporca
che
non rimanda
un
sogno
ma
solo la vita cruda.
Vede,
così le pare,
una
melagrana sfatta
di
biglie rosse che fuggono tra i tombini
o
si lasciano schiacciare
dalla
velocità.
La
mamma prega la notte,
oppressa
da un amore ammalato,
così
alto e rarefatto
da
togliere all’amore pensieri che possano
zavorrare
la mente.
La
mamma piange la notte,
a
orbite roteanti.
Cerca
un puntino luminoso
nel
suo cielo, il puntino-stella.
Come
canta la mamma che piange la notte,
vuole
conforto,
vuole
che la dolce vita che le dorme accanto non finisca mai
Rispondile
dio, falle sentire delle voci
e
illudila che sia il tuo sibilo quel suono
che
la tormenta.
*
Ogni
sera parlo con il diavolo, quando stacca dal lavoro.
È
stanco e sfatto, non ha un giorno di tregua.
Con
me si rilassa, non deve recitare la parte.
Rotea
gli occhi, si schiarisce la voce, ritira gli artigli
e si liscia le corna.
A
notte inoltrata, a volte, trovo mi assomigli.
Gli
chiedo di stare un po’ al mio posto, gli porgo la chiave
ma lui si rifiuta.
È
furbo e scaltro.
Sa
che rimestare il dolore e servirlo per cena è meno faticoso
che farsi sfondare il cuore
dall’amore
che sarà.
Col
male ci campa a tempo indeterminato.
Aspetta
che una lacrima scenda, mi accarezza soddisfatto
e
in un soffio mi lascia chiusa in paradiso.
Ma
prima o poi io scappo…
*
In
fila la macchina
si
avvicina, si schiaccia, bramosa
di
arrivare.
Si
arruffa e annusa chi la precede
con
fretta, ha fame.
Un
pezzo di asfalto, lo pneumatico caldo,
un
metro, un metro, uno soltanto.
Defilata
la macchina,
ha
trovato un sentiero,
furba
lo percorre,
certa
dell’arrivo.
Illusa,
baldanzosa e rapida,
scende
e risale, ha fame, ha fame,
ha
fame.
Si
aggrotta il cofano, si avvilisce il faro,
la
fila l’aspetta, calda e compatta.
Mesta
s’infila, lasciandosi portare,
la
meta è lontana, la fame dovrà aspettare.
Domani
lo stesso, e ancora, e poi di nuovo.
Domani
lo stesso, e ancora, e poi di nuovo.
Elena Cattaneo è nata a Milano nel 1971. Dopo la Laurea in
Lingue e Letterature Straniere presso la Libera università di lingue
e comunicazione IULM di Milano, con una tesi sul poeta inglese
Charles Tomlinson (Charles Tomlinson e la poesia americana, 1995,
relatore Edoardo Zuccato), si è specializzata in studi di traduzione
in
Inghilterra e ha conseguito
un Master of Science allo UMIST di Manchester con una tesi dal
titolo Italian
Literature in English Translation, 1996.
Opera nel mondo della musica classica e si dedica a progetti di
traduzione. È presente in diverse antologie e siti web. Il dolore un
verso dopo è la sua seconda pubblicazione preceduta, nel
2015, dalla
silloge Sopravvissuti
(Prospettiva Editrice –
pubblicazione premio
per
la vittoria del concorso BrainGNU 2014).
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