Nelle
traiettorie dei poeti c’è quasi sempre un’acme di confronto frontale con la
morte.
Questa
ospite sotterranea di ogni scrittura e ogni forma d’arte, pur abitando
preferibilmente sottotraccia nell’opera, a un tratto scoperchia la superficie del testo
e mostra il suo antico volto ossuto, fissa l’artefice in faccia.
Nel
cammino poetico di Stefano Guglielmin
Ciao cari è presumibilmente la raccolta incaricata di pronunciare questo
sollevamento della morte sopra il livello della testualità.
Ma
mentre in molta letteratura e poesia il confronto si produce nei termini del
lutto, epicedio o elegia, oppure in una soffocante perlustrazione dei perimetri
terminali della finitezza, in Ciao cari,
sin dal titolo, il tema della morte risulta complanare all’accadere stesso
della scrittura.
E
la poesia, epigrammatica e confidenziale al tempo stesso, compie una traduzione
bipolare dalla terra dei morti all’esperienza dei vivi o meglio, degli ancora
viventi, senza che tra le due si frapponga la dismisura di un’eternità.
L’ancora vivo infatti parla ai già morti condividendo il dono di quell’ancora, come se tra i due vi fosse
complanarità esistenziale e non iato. Straordinariamente, con il suo timbro
poetico egli li trattiene in colloquio sulla soglia, per quanto trasparsi ormai
da raggi nullificanti.
Domina
i testi un tono di allocuzioni mai finitive, tanto meno celebrative bensì
pacatamente quotidiane, in fieri, affermativamente interroganti e perciò aperte
al risuonare pur impensabile di una risposta.
E
i vari episodi, sviste, manchevolezze rimasti irrisolti nella relazione
amputata dalla scomparsa di uno dei due interlocutori, vengono trattati come ancora passibili di sviluppo, di
chiarimento e restituzione.
Il
segreto di questo libro, nella sua prima sezione, è forse l’inattesa
comunicabilità di vita e morte, la familiarità superstite, pacata e piana, tra
chi parla nella luce e chi nell’ombra tace, in un silenzio vicinissimo, da una
stanza che pur serrata rimane lì
accanto, poeticamente accessibile.
E
forse questa prospezione confidente deriva la sua possibilità di pronuncia da
un altro dato originale del libro: la piccola Spoon River di Guglielmin non accoglie infatti persone esemplari,
modelli e tipi umani illuminati da fari fosforici, bensì un registro di perdite
generazionali, elencate per nomi e per date, un bollettino di guerra gremito di
per lo più brevi, per lo più suicidarie esistenze, di cristalli giovanili
infranti.
Ed
è proprio la giovinezza, la comunanza della giovinezza, a fornire il terreno alla
comunicabilità del discorso tra l’ancora vivo
e i già morti. A consentire non
banalmente di salutare con il ciao del
bar i cari entrati nell’abisso.
Essere
stati giovani insieme significa, per l’esperienza e la reciprocità di allora, essere già estinti nel presente,
che si sia vivi ancora o
anagraficamente morti di già.
È
quell’allora a fornire l’avverbio
connettivo tra ancora (vivo) e già (morti).
Ed
è per virtù di quell’allora che il
vivo può condividere il discorso con i suoi cari morti, perché essi soli sono
con lui depositari del comune passato. Del pio
passato, come lo definisce la Micol
di Bassani, che lo identifica con una giovinezza la cui altra sigla letteraria
è forse soltanto A Silvia, figure
entrambe di morte prematura ovvero:
precedente alla maturità.
Guglielmin
ci parla così della solitudine propria di ogni adulto, nella cifra del distacco
definitivo dalla giovinezza, di cui progressivamente, per chi ha in sorte di
superarne l’età, è fatale condividere il sapore solo con chi vi è scomparso
dentro, senza giungere a uscirne.
Nella
seconda sezione del libro, la trama di persone di cui l’intera raccolta è
intessuta, si riveste dapprima di anonimi, nell’esperienza generalizzata della
perdita, e poi, puntualmente per un intellettuale, di ritratti d’autore.
Unica
compagnia che regga il confronto con la vivezza biografica delle frequentazioni
giovanili, sono infatti gli artisti, i poeti, gli scrittori degli anni
formativi e poi delle letture senza termine né cronologia.
Il
fantasmatico tessuto relazionale che uno
sguardo va nutrendo mentre scruta pagine e pagine oltre la miopia, al bagliore
smorzato di un paralume, forse commentando qua e là un verso, un’immagine, un
concetto con le ombre di ragazzi e ragazze, complici per sempre di un’antica
avventura.
Paolo Donini
Stefano Guglielmin, Ciao cari, La Vita Felice, MI 2016
Lettura precisa e curata per un libro che apprezzo moltissimo.
RispondiEliminaFrancesco
Grazie Francesco. Se posso dire, Paolo Donini è un critico molto originale, libero nel pensiero e, oltretutto, un ottimo poeta.
RispondiEliminaConcordo con Stefano. Donini, a cui ho avuto il piacere di scrivere una nota per un suo poemetto, è poeta di valore che dimostra eccellenti qualità anche come critico. La sua lettura del tuo libro coglie, tra gli altri, un aspetto fondante: non c'è frattura tra vita e morte, ma un legame esistenziale che unisce gli "ancora vivi" ai "già morti". Ciò a significare una corrispondenza dolente ma affettiva e presente fra gli uni e gli altri, in cui l'intimo di una scrittura essenziale sorge a poesia. Complimenti al poeta e al lettore.
RispondiEliminaGiorgio Bonacini
Grazie Giorgio. Anche a me è piaciuto il rilievo sugli ancor vivi e i già morti, assieme all'idea che la perdita della giovinezza sia il primo lutto, la cui esperienza ci permette di re-istituire autenticamente la relazione con i cari trapassati.
EliminaAnch'io ho letto e apprezzato profondamente questo libro, questo suo confrontarsi scabro e (poeticamente e dunque intellettualmente) onesto con il tema della fine, con un linguaggio sempre asciutto, essenziale
RispondiEliminaGrazie!
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