Parto dalla constatazione
amara di Alfonso Berardinelli, secondo la quale la poesia italiana patisce da
trent'anni un'infatuazione celaniana che la rende gratuitamente oscura. Di
Celan, lascia intendere, ce n'è uno. Giusto. E la moda è sorella di madama morte.
giustissimo. Però, forse, occorre distinguere (ecco una delle funzioni del
critico) tra gatti, volpi e poeti. I primi due praticano qualsiasi landa dia
frutti, dal criptico al prosastico, pur di restare a galla. I poeti, invece, si
fanno scrivere dalla propria collocazione. Bene allora chi nasce da Celan, chi
da Sanguineti, da Luzi, da Caproni eccetera. Chi nasce da un uovo autorevole
per poi, se ha talento, camminare con le proprie gambe. Chiarezza e oscurità
sono solo due indicatori, troppo elementari per rendere giustizia di 800 anni
di poesia italiana. E nemmeno il fatto che viviamo in una società di massa ci
autorizza a dare per scontata la semplicità, sicuri che non sia omologazione.
Qui su Blanc si leggono poeti
spesso appena usciti dall'uovo, talvolta ancora con un piede nel tuorlo. Come
Gabriele Gabbia, sicuramente con qualche eccesso ermetico (talvolta persino
imbarazzante: "radice d'abisso", "la fissità inquieta / d'un
nulla") e forse con letture jabesiane e rilkiane (cosa che dovrebbero fare
tutti, anche gli amanti della poesia limpidamente comunicativa), oltre che
edipicamente sedotto/affascinato dal "nulla" come da una madre, che
lo trattiene di qua del mondo, fuori dagli odori della strada. Eppure, La terra
franata dei nomi (L'Arcolaio, 2011) è un'opera prima che vale la pena di
leggere, se non altro per comprendere come l'interrogazione dell'origine non
sia un vezzo soltanto delle generazione passate, ma appartenga a chiunque viva
la parola nella sua radice fondante, prima di qualsiasi necessità sociologica.
Semmai, nello specifico, è da capire se sia possibile raccontare il binomio
parola-essere, con metafore più nitide, il cui codice sia inscritto nel
patrimonio comune e magari più ancorate al mondo fenomenico. Io credo che
Gabbia viva sulla propria pelle l'estraneità da se stessi di cui parla Mauro
Germani nella sentita prefazione, la viva nella convinzione che se
stessi sia l'universo da esplorare prima di cominciare il viaggio nel mondo.
Io credo invece che parola,
intimità, mondo e percezione siano insieme e che compito della poesia sia
tenerli nel quadrato del loro dialogo reciproco ed essenziale. Senza pretesa di
possederlo. Cognizione che si legge anche ne La terra franata dei nomi e
che emergerebbe ancor più chiaramente se il poeta subisse meno il fascino delle
parole assolute, troppo grandi per un uomo. Troppo grandi e dannose perché poi
ad esse si inchioda.
I
Dimora negli intestini
la terra franata dei nomi.
Là, dove nessuno sa.
Dove non c’è dove
ogni cosa
è radice d’abisso.
Là fiorì il tuo nome.
*
II
Era quel nome a conoscerti
nella sua pena in causa,
mentre fuori
la consuetudine interna,
lede
il suo grembo:
lo strattona:
lo cancella.
*
XVII
Mente, l’occhio
nella sua cocchia.
Solo empie vuota
sciacqua. E rabbercia il suo
cavo,
nulla.
*
XXIII
Non
nel compiuto
nel gesto, nello scacco
l’adempìto. La parola
che scardina e rimuove
redime.
*
XXXVI
La tua religione sprecata
nell’invoco alla lingua di tuo padre
come sgorgo divino plasmato,
che implode ferito. Sangue
che chiede e non dona, non sana,
affonda.
*
XXXIX
Bisogna non dirsi, non
pronunciarsi, esimersi
per riceversi. Eludere
il proprio enunciato, il
proprio interno
dettato – per cospargersi
e congiungersi
occorre disconoscersi.
*
XLIX
Io sarò voi –
i morti, tutti,
noi, voi
dopo di me, quando
solo, soffierò
lo sguardo, da ciascuno
di voi tutti
su ognuno
di me.
*
LII
Tu fughi ogni inizio –
non permane questa vista,
questa offerta, questa ridda
composta, appena lambita,
intuita, dell’ordine cieco,
deciso, dell’occhio.
Gabriele Gabbia è nato nel 1981 a
Brescia, ove risiede. E' diplomato in discipline artistiche. Sue poesie sono
apparse su antologie nazionali e internazionali.
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