domenica 1 aprile 2012

Enio Sartori, Tra bosco e non bosco



Nel saggio Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto (Quodlibet Studio, Macerata 2011) Enio Sartori declina l’ontologia della differenza sulla necessità di abitare poeticamente la terra e la lingua. Si tratta di un lavoro non soltanto dalla valenza teoretica, ma anche antropologica ed etica, al fine di rimettere in gioco i principali stereotipi del pensiero dominante, a partire da quello identitario. Scelta obbligata all’interno di una koinè culturale come quella veneta, nella quale vive ed opera l'autore, fortemente segnata da forme di centralizzazione del soggetto, scremato sino al punto da estromettere ogni intromissione/contaminazione dell'altro, da intendersi quale forma dell'eccesso, della scissione, dello scarto, del barbarico, di quanto insomma scardina alla radice la sicurezza dell'identità centripeta ed escludente.

   Di contro all’idea di un’autenticità da ricostruire, emarginando le spinte allotrope e le torsioni del contemporaneo, Sartori ribadisce dunque l’importanza di ripensare l’identico a partire dalla crepa plurale che lo lascia essere, sulla scorta di Derrida e Nancy, ma anche, sotto il profilo della lingua, degli studi lacaniani sulla «lalingua», ossia quel venire al mondo della parola prima che diventi discorso, l'imprendibile del godimento pre-logico, materico, quando suono e significato vibrano nel corpo del neonato, depositandosi in una memoria che la civilizzazione tende a rimuovere.

   Questa costellazione di problemi, che, irrisolta, si condensa storicamente nella crisi di rappresentazione del sé e nella conseguente costruzione di fortini etnici bellicosi, Sartori la riconosce integralmente nel Galateo in bosco zanzottiano, opera che tiene insieme, metamorficamente, la civiltà e la selva già nel titolo, anzi, ci spiega lo studioso, nella complessità stessa del «bosco», di quell'«aperto che è dantescamente abisso della nostra perdizione e contemporaneamente radura della nostra esposizione all'essere». Come nella lichtung heideggeriana, noi siamo infatti appropriati alla contrada e, nel medesimo tempo, non lo siamo, abitando il tramezzo, quale modo di vivere paesaggio e identità in una coappartenza espropriante, che salva entrambi.

   Molto bravo Sartori ad attraversare con rigore queste tematiche, moltiplicandole nei temi cari a Zanzotto, quali il «petel» - con i suoi tratti lalinguistici (il godimento, il balbettio afasico, la lallazione, il dialetto, la relazione con la lingua madre, l'infanzia) – e la storia quale luogo franto, della nevrosi del senso, che il poeta cerca di ricomporre nella lingua, pur sapendola «luogo della manque à être del soggetto». Concetto lacaniano, ma sedimentato in Zanzotto, sia pure per via intuitiva, esistenziale, almeno a partire da Vocativo, che Sartori non soltanto mette in scena quale humus su cui la poesia tout court agisce, riconoscendole, appunto, la capacità di ricondurre il soggetto alla «mancanza originaria» che lo costituisce, ma anche quale perno su cui rifondare concretamente il senso del luogo, finalmente vissuto quale dimensione di espropriazione-riappropriazione identitaria, il che significa, sulla scorta H. Maldiney ma non solo, «pensare la struttura fondamentale del nostro essere nel mondo nella forma di uno stare in eccesso rispetto alla partizione di soggetto e oggetto, di io e mondo, di ordine psicologico e ordine mondano poiché ciò che costituisce il luogo 'proprio' del soggetto» sta appunto nel continuo tracimare dell'identico nel differente, in un costante, eppure mai ripetitivo, «aver-luogo» della singolarità, in cui, come scrive Sartori, "simultaneamente si danno il bosco e il non-bosco, il qui e il là» d'ogni presenza.

   Lo studio si avvia dall'analisi di «Gnessulògo» – poesia cardine del Galateo (sia pure esclusa dall'oscar curato da Agosti nel '93) – ch'è il modo profondo di sentirsi del poeta, il suo stare in posizione aperta al luogo ontologico, crocicchio del «movimento inaugurale, attraverso cui attivamente e incessantemente autodeterminarsi nei singoli luoghi», un abitare la soglia, che è «oltranza» e «oltraggio» nel contempo, luogo a venire colto nel suo farsi, e sfida, resistenza, polemos costitutivo del corpo e della parola, un farsi «più in là / intangibile" come scrive Zanzotto nella poesia inaugurale di Beltà.

  La messa in relazione dell'abitare la terra poeticamente, propria di chi sa essere «gnessulògo», con la mancanza ad essere del soggetto, che ha nella lalingua la sua cifra biologica, costituisce il fulcro della ricerca sartoriana e viene a completare un lavoro decennale sul rapporto tra territorio, straniero e sacralità, colto attraverso lo studio di due eroi fondatori e civilizzatori dell'altovicentino, quali Sant'Orso, la cui vicenda è assimilabile per molti versi a quella di Edipo, e a «prete Zuane», che inaugurò la ricchezza mineraria dei Tretti, altopiano liminare all'area scledense. Entrambi gli eroi, ma soprattutto il secondo, presentano alcuni caratteri del Trickster, cui riferisce Sartori nello stesso saggio sul poeta solighese, in Galateo figura del perturbante, che libera il rimosso, instradando alla parola poetica. Questo «dio birbante che strizza l'occhio oltre ogni cesura e censura», come scrivono Radin, Jung e Kerényi ne Il briccone divino, lo si riconosce infatti, afferma Sartori, laddove la lingua «si produce per passaggi veloci, per scarti, per derive di senso, attraverso salti stilistici continui, cambi di tonalità, balzi da una lingua all'altra, sberleffi e parodie linguistiche, ambiguità ed equivoci continui, paradossali antinomie, costruzioni di ponti tra parole, mostrando una passione per le soglie linguistiche, per i crocevia, i bivi, le interruzioni, i sentieri interrotti a partire dai quali si apre il cuore della parola». E lo stile, ci conferma l'autore, è centrale «per riportare in superficie gli strati profondi del tempo» depositati in essa, laddove cuore e tempo trattengono le stratificazioni del senso ancora fertili perché sotterranee, non ancora incasellate, e dunque neutralizzate, nel discorso della civilizzazione. Che pure è radura, galateo imprescindibile, ma sempre dal bosco tenuto aperto nella sua possibilità deviante, mutante, viva perché vivo è il luogo in cui esso fiorisce.

Stefano Guglielmin ne "La Clessidra" n.2, novembre 2011

Qui altre recensioni al libro.

Enio Sartori, docente di Lettere presso il Liceo Sociale “Arturo Martini” di Schio, direttore di «Trickster», Rivista del Master in Studi Interculturali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova, è dottore di ricerca presso il Dipartimento di Italianistica della stessa Università. Si occupa delle relazioni tra lingue, territori e migrazioni, in particolare nel Nordest. Tra le sue pubblicazioni si ricorda la prosa poetica Vedi alla voce corpo (Ellemme, Roma 1989), il saggio di antropologia culturale e religiosa Alla soglia dell’alba. Il Summano e la leggenda di sant’Orso tra mito e storia (Signum, Padova 2000), l’audiolibro di poesie in dialetto vicentino Parole suonate in controcanto (Il Narratore, Padova 2002). È anche autore dei testi dell’album di Patrizia Laquidara Il canto dell’anguana (Slang Records, Brescia 2011) vincitore del premio Luigi Tenco 2011 per la categoria "Album in dialetto"

3 commenti:

  1. Ivan Crico30/5/13 07:34

    Non ho letto il saggio ma, per dare un'idea di ciò che era (ma secondo me è ancora il veneto d'oggi più avanzato) spero possa interessare questa mia intervista uscita su "Il Messaggero Veneto" a Manlio Cortellazzo, poco prima della sua morte.
    Il grande "Dizionario Veneziano, della lingua e della cultura popolare nel XVI secolo" a cura di Manlio Cortellazzo, edito recentemente da La Linea editrice di Padova, sarà certamente ricordato come una delle opere più importanti, in questo campo - non solo in Italia - del passato e del nuovo millennio. Senza tema di esagerazioni. Si tratta, difatti, di un libro di più di 1500 pagine, disseminate da una quantità impressionante di citazioni e rimandi, frutto di un paziente lavoro di decenni negli archivi e nelle biblioteche basato su di una preparazione scientifica di altissimo livello ma mai disgiunta da una partecipe adesione emotiva alle vicende umane che questi segni traghettano, da quei secoli lontani, fino alle rive del nostro presente.
    Emerge, sfogliando queste pagine, l'immagine di una Venezia che è, al tempo stesso, gelosa custode (come sempre sarà) del proprio passato, fucina ribollente di nuove idee e porto aperto su cui attraccano, dai mari e dalle terre più remote, bastimenti carichi non solo di mercanzie, opere d'arte, ma anche di parole, che sono parole arabe o fiorentine, greche o tedesche, dalmate o spagnole. Venezia allora, come New York o Londra oggi, accoglie nel suo grembo d'acqua e luce le voci del mondo, se ne lascia compenetrare senza mai alla fine - com'è accaduto anche in queste città - rinunciare a quella che è stata la sua prima voce.
    Cortellazzo - considerato il decano degli studi dialettologici italiani ma anche coautore di un celebrato dizionario etimologico italiano - ha svolto anche lunghe campagne di studi nella nostra regione, a Grado soprattutto, per studiare le nostre parlate. Ed è forse qui, dove ancora miracolosamente sopravvivono molte parole ormai scomparse nel Veneto odierno, che questo libro - anche tra i lettori friulani - potrebbe trovare alcuni tra i suoi più ammirati lettori.
    Com'è la nata, professor Cortellazzo, l'idea di questo Dizionario Veneziano?
    Io frequentavo la Fondazione Cini, assieme a Gianfranco Folena che era il direttore dell'Istituto di Lettere. Lui aveva molte idee: una di queste, era quella di fare un Lessico in schede, depositato presso quella Fondazione. Io che frequentavo abitualmente la biblioteca, dove c'erano tanti testi, ho pensato allora di scegliere un secolo, il XVI, e di far schede per questo vocabolario. Poi mi sono detto: ma perché lasciarlo lì, che dopo diventa difficilmente consultabile anche per chi ci va? Facciamolo a titolo proprio e così, un po' alla volta, in più di quarant'anni, ne è venuta fuori quest'opera...
    E così, pazientemente, ha iniziato uno spoglio sistematico di tutte le testimonianze scritte riguardanti quel periodo.
    Di tutto ciò che è stato edito ed è stato raggiungibile. Tutte le commedie, le poesie, che ve ne sono moltissime, inventari: un ampio ventaglio di fonti che mi hanno permesso di fare un'opera così grande, grande anche perché un esempio che aveva tre parole importanti al suo interno, per capirci, l'ho poi ripetuto per tutte le tre parole. Una cosa molto utile per il lettore che, in questo modo, non è costretto a correre dietro ai rinvii.
    (prima parte)

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  2. Ivan Crico30/5/13 07:36

    (seconda parte)
    Ma come le è nata la passione per lo studio di questi antichi linguaggi?
    Dunque, io ho sempre avuto la passione dialettologica, perché quando si nasce in un ambiente dialettofono viene spontaneo interessarsi del linguaggio parlato in quel luogo. Mi ricordo che - avevo diciassette anni - mia mamma era solita ricevere degli accattoni e, mentre gli offriva il caffelatte, io mi mettevo lì, facevo finta di interessarmi delle mie cose, e invece annotavo tutto. Vuol dire che l'avevo proprio insito in me questo desiderio di registrare il parlato. Poi, naturalmente, dipende anche dalle circostanze della vita: una è legata al fatto che, quando sono andato a chiedere la tesi di Laurea da Carlo Tagliavini, che allora era un mostro sacro della dialettologia, mi consigliò di fare - sapendo che ero stato in Grecia - uno studio sugli elementi italiani in greco. Però, c'erano già due studiosi americani che avevano scritto sull'argomento con l'intenzione di pubblicare la loro ricerca. Era inutile fare un doppione, e allora la scelta si spostò su "Elementi greci nel veneziano": ecco, la mia tesi di laurea è stata su questo argomento che mi ha portato via abbastanza tempo. Dopo ho conosciuto Folena, che come ho detto lavorava alla Fondazione Cini, con il quale ho iniziato a collaborare. Ovviamente ero in pieno ambiente veneziano, con una biblioteca piena di tanti testi veneziani, ed ho iniziato così per conto mio a preparare queste schede, un po' alla volta, e, in attesa di un editore che non veniva mai, incrementavo sempre di più nelle sue dimensioni quest'opera.
    Quando si è sbloccata questa situazione?
    Solo di recente. L'attuale pubblicazione è stata poi un caso e una fortuna. Durante il tragitto in automobile con un'editore di scolastica, io stavo parlando e lui, interessato, mi chiese cosa stavo facendo. Gli raccontai la storia di questo lavoro e lui mi disse subito: "Lo pubblico io!". Un vero mecenate! Ma, forse, non si era bene reso conto subito a cosa andava incontro... Comunque ha mantenuto la parola e l'ha pubblicato a sue spese. Solo in un secondo tempo, dopo la sua uscita, ha ricevuto un sostegno dalla Regione Veneto attraverso l'acquisto di un certo numero di copie. Così, dopo molti tentativi andati a vuoto con tanti enti pubblici e privati, ho avuto finalmente la soddisfazione di veder data alle stampe quest'opera. Ecco la sua genesi.
    Lei ha dedicato molto tempo anche allo studio degli idiomi veneti del FVG. In cosa consiste l'importanza, dal punto di vista culturale e linguistico, delle comunità venetofone - tra cui alcune antiche come quella gradese, bisiaca e maranese - presenti nel FVG?
    È l'arcaicità. Sono zone rimaste staccate dall'evoluzione che ha interessato le altre parlate venete: non credo che oggi Venezia, per fare un esempio, eserciti più qualche influenza su Grado. Sono rimaste staccate mantenendo così, almeno in parte, un loro aspetto originale.

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  3. Ivan Crico30/5/13 07:37

    (terza parte)
    "Lingua", "dialetto": come vede questa distinzione?
    Di solito come un errore di valutazione. Si adopera la stessa parola "lingua" per designare due cose diverse. Un conto è la lingua "ufficiale", scelta che qui è ricaduta sull'italiano, e sotto stanno i dialetti. Che non sono dialetti dell'italiano: l'italiano è un altro dialetto, è un dialetto anche lui. Il veneto si è formato tra l'altro prima della nascita dell'italiano, prima erano tutti fratelli, "volgari" si chiamavano nel Trecento, non si chiamavano neanche "dialetti". Il fiorentino ha avuto la fortuna, la previdenza, il merito, gli autori, ecc. che hanno spinto tutti gli altri fratelli a sceglierlo come lingua di riferimento rinunciando un po' alla loro autonomia ed accettato il predominio toscano. Ma, dal punto di vista linguistico, non c'è alcuna differenza, sono fratelli, fratelli nel senso che escono dalla stessa matrice latina e poi si sono sviluppati autonomamente, a seconda dei vari contesti, in tutto il territorio. Qualcuno, poi, è stato più fortunato e qualcuno più sfortunato.
    Si tratterebbe dunque di una distinzione artificiosa?
    Si tratta di una distinzione di tipo politico o letteraria. Lingua e dialetto sono due cose incomparabili. Il veneto non è un dialetto dell'italiano. Non ha niente a che vedere o, se vogliamo, l'unica cosa che li accomuna è la comune origine.
    Un'ultima domanda. Da parte delle istituzioni statali si continua però a negare lo status di lingua ad un linguaggio che, anche dal suo ultimo lavoro, risulta invece straordinariamente ricco e, in più, con una letteratura così vasta e importante. Cosa ne pensa?
    Il veneto (sorride) è tanto scontato che si tratta di una lingua, per noi, che neanche ci si pensava di doverlo dichiarare!

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