mercoledì 9 marzo 2011

Piccolo canone ad uso del lettore curioso



Questo testo uscì nel n.13 de "La Mosca di Milano" (dicembre 2005). L'interessante mi pare risieda nel suo testimoniare il laboratorio da cui, più tardi, uscì Senza riparo, ma anche nel fatto che precede di poco l'apertura di Blanc de ta nuque. S'intitola L'improvviso e il lucente.


Vorrei costruire un piccolo canone personale, formato dagli autori italiani del secondo Novecento che hanno in qualche modo alimentato la mia passione per la poesia; si tratta di un gioco, naturalmente, con tutta la serietà del caso, dove a vincere, spero, è la poesia stessa, con i suoi percorsi sotterranei e le sue uscite allo scoperto, improvvise e lucenti.

Di sicuro (avevo circa vent'anni) l'incontro con l'antologia dei Novissimi fu decisiva, anzitutto per "l'idea della poesia quale mimesi critica della schizofrenia universale, rispecchiamento e contestazione di uno stato sociale e immaginativo disgregato" e poi perché mi aiutò a prendere le distanze da un'io eccessivamente lirico, forgiatesi sulla schiera, per altro dignitosissima, del cantautorato degli anni Settanta. In particolare, di Alfredo Giuliani mi colpì la capacità di fondere dinamicamente il surrealismo visionario con il sentimento della finitezza, tipico della cultura romantica, ma depurato dalle implicazioni idealistiche di stampo neohegeliano, e vicino invece al 'tragico' di Michelstaedter. Dal canto suo Pagliarani, con La ragazza Carla, mi diede un modello irripetibile di poemetto storico-esistenziale, attraversato dalla contaminazione dei codici, che permetteva di inserire il prosastico nel lirico senza comprometterne l'unità. La sua poesia, in effetti, come quella di Giuliani, rimise in circolo l'antico e il moderno, la spinta neoavanguardista della "riduzione dell'io" con l'impossibilità di farlo, innescando così un gorgo assai fecondo (e non ancora del tutto esplorato). Anche Gli strumenti umani di Sereni, in questo senso, furono capaci di unire la storicità dell'io con le "storte sillabe" montaliane, dando nuovo ossigeno a quei poeti che non scelsero la linea schizomorfa; quel Sereni che, con Un posto di vacanza, riuscì a rendere credibile una forma-poemetto, al pari della Ragazza di Pagliarani, in cui caducità, viandanza e conoscenza s'incontravano.

Per quanto mi riguarda, devo dire che a colpirmi maggiormente, negli stessi anni in cui scoprii i Novissimi, furono i poeti della generazione nata con Il pubblico della poesia: fra tutti, leggo ancora oggi assiduamente Milo De Angelis, che è riuscito a portare a compimento la tensione mitica di Pavese, coniugandola con la poesia civile di Fortini, il tutto mediato da un'esperienza di vita, in specie giovanile, esposta e senza rete; ma certo ebbe grande effetto su di me anche l'acquisto di Piumana, di Cesare Viviani, che venne a coincidere con le mie prime letture freudiane e con il convincimento - scolasticamente germogliato, leggendo Bergson e Pirandello - che la parola non appartenesse all'autore, bensì alla vita quale flusso di energia costantemente in fieri.

Fra i libri "canonici" al femminile, forte fascino esercitarono le Variazioni belliche e Serie ospedaliera di Amelia Rosselli, straordinaria artefice di un verso libero "post-tonale" capace di parlare lucidamente d'amore, nonché La terra santa di Alda Merini, che piega la funzione poetica alla piaga allucinata della sua degenza manicomiale, anche lei trasformando l'immobilità in vortice amoroso, come recita la chiusa di Laggiù dove morivano i dannati: "e il tuo corpo andava in briciole, / delle tue briciole bionde e odorose / che scendevano a devastare / sciami di rondini improvvise".

Un'altra poetessa per me significativa, che adopera la lingua come un martello, è Jolanda Insana: la scoprii nell'antologia di Mario Lunetta, Poesia italiana oggi, ricchissima fonte sulla scrittura poetica della fine degli anni Settanta, nella quale ebbi modo di conoscere anche Gianni Toti, poeta dagli "sfavillanti deliri lessical / sintattici / semantici" come scrisse Lunetta, ma anche capace di un versificare asciutto, distaccato, sulla scia di Corrado Costa, dove lo sguardo fermo sa vedere - e poi raccontare - lo spazio in apparenza garantito, ed invece alienato, della quotidianità, come saprà fare, più tardi, Valerio Magrelli. Certo ci sono tanti altri poeti italiani, la cui scrittura riesce a toccarmi; Zanzotto, per esempio, anche se il suo grimaldello Lacan agisce a volte troppo scopertamente, trasformando la polpa della lingua in un rivo senz'acqua o in uno schedario; mania, quest'ultima, cara anche a Sanguineti, la cui forza desiderante comunque sempre mi sorprende. Antonio Porta cominciai invece ad apprezzarlo più tardi, via via che mi allontanavo dall'avanguardia: II progetto infinito, in questo senso, con tutta la sua attenzione alla caducità, fu una lettura decisiva, che mi fece riconsiderare la scrittura portiana, anche quella degli anni Sessanta, alla luce della pietas verso i mortali.

E poi ci sono i poeti della mia generazione e quelli più giovani, la cosiddetta "generazione di mezzo" e quella "rampante", quest'ultima già canonizzata ad uso e consumo di un pubblico under trenta, poco incline a rimettersi ad una tradizione forte ed esposta invece al vento del presente, con le sue mode e i suoi miti. Entro questo orizzonte, leggo con assiduità moltissimi autori. Con alcuni tengo vivace corrispondenza, anche attraverso saggi o articoli pubblicati in riviste, che sono il vero presente della poesia, il luogo del suo farsi e disfarsi, in una tensione ricca di futuro. Fare i nomi è difficile, naturalmente. Fra gli autori di cui ho scritto nell'ultimo anno, mi piace ricordare Paola F. Febbraro - che, con La rivoluzione è solo della terra, ha composto un canto "della specie femminile che piange", ma al modo della terra che s'apre e butta fuori l'incandescenza - e Giorgio Bonacini, la cui opera è tutta rivolta, come scrisse Giovanni Infelise citando Roland Barthes, a "comunicare l'interiorità senza concedere l'intimità". Autrice che sento un po' "sorella" sia sotto il profilo poetico sia intellettuale è Gabriela Fantato, il cui ultimo libro, Il tempo dovuto, mette in scena dieci anni di scrittura d'area lombarda, ma filtrata dalla passione per le grandi scrittici novecentesche (dalla Pozzi alla Campo, dalla Rosselli alla Spaziani) e dalla ricerca delle proprie radici, in linea con quel senso di spaesamento ed erranza che contraddistingue la migliore scrittura contemporanea. Vorrei sottolineare, ancora, la ricerca di due giovani autori, serissimi e competenti; si tratta di Marco Giovenale e Massimo Sannelli, impegnati a portare avanti, ciascuno secondo la propria sensibilità, la ricerca di Giuliano Mesa, poeta decisivo della mia generazione e certo letto non ancora abbastanza. Infine, desidero nominare Andrea Ponso, abilissimo, come scrive Santagostini, ad "inoltrarsi nelle zone incerte, ambigue e primigenie della natura".

Per concludere, vorrei spendere due parole sulla saggistica. La mia scrittura, infatti, si è sempre nutrita di letture eterogenee. Fra gli autori che più hanno influenzato il mio pensiero, ci sono anzitutto Heidegger (la mia tesi di laurea aveva per oggetto il "pensiero debole" di Gianni Vattimo, riletto a partire dal filosofo tedesco) e Jabès, la cui opera dà corpo ad un'erranza senza posa e senza proprietà, dove ogni passo migrante descrive le ragioni dell'intero migrare, in un procedere orizzontale che si abbandona al deserto della scrittura. A questi, vorrei aggiungere Jean-Luc Nancy, forse il più rigoroso nel pensare l'essere slegandolo dalla fondatività e, per la capacità di entusiasmarmi, Bruce Chatwin, il cui zibaldone sull'alternativa nomade costituisce un vero manuale di sopravvivenza all'interno di una società che ha perduto i concetti di qui e altrove o li ha surrogati nell'artificio delle agenzie turistiche. Decisivi, per comprendere questo, sono stati anche Mircea Eliade e J. G. Frazer, con i loro studi sulle civiltà arcaiche. Fra gli italiani, due filosofi che seguo con interesse sono Franco Rella e Giorgio Agamben; e poi c'è Alfonso Cariolato, amico di vecchia data e allievo di Nancy, che mi ha fatto conoscere molti dei pensatori qui citati.

6 commenti:

  1. enrico dignani10/3/11 12:03

    Un percorso di disciplina dello spirito invidiabile, penso che Nietzsche direbbe : coraggiosi noncuranti beffardi violenti, cosi ci vuole la cultura, che è femmina e sa amare solo il guerriero.

    RispondiElimina
  2. Giorgio Bonacini12/3/11 14:34

    Caro Stefano, questo è un bellissimo "piccolo" percorso di elaborazione e crescita nella conoscenza.
    Se questo era un germe, si capisce bene la pianta rigogliosa che c'è oggi. E vedere che tra le sue foglie ci sono anch' io è una piacevole sorpresa.

    ciao.

    RispondiElimina
  3. lo sai che ho sempre seguito la tua scrittura. Pensa che Giacomo Bergamini considerava la tua poesia tra le più importanti in circolazione. Io ero d'accordo.

    RispondiElimina
  4. Caro Stefano,
    è vero, ricordo bene l'interesse che Giacomo aveva per la mia poesia. Conservo una lunga intervista che ha fatto sul mio lavoro e conservo il ricordo di un amico e poeta speciale.
    Ciao. Giorgio

    RispondiElimina
  5. quell'intervista si potrebbe riproporla su Blanc, se vuoi.

    RispondiElimina